si nasceva, e moscerino, e filo d’erba. Una formichetta, nel mondo! nel mondo, un
moscerino, un filo d’erba. Il filo d’erba nasceva, cresceva, fioriva, appassiva; e via
per sempre; mai più, quello; mai più!
150 Ora, da circa un mese, egli aveva seguito giorno per giorno la breve storia d’un
filo d’erba appunto: d’un filo d’erba tra due grigi macigni tigrati di musco,37 dietro
la chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto.
Lo aveva seguito, quasi con tenerezza materna, nel crescer lento tra altri più
bassi che gli stavano attorno, e lo aveva veduto sorgere dapprima timido, nella
155 sua tremula esilità, oltre i due macigni ingrommati,38 quasi avesse paura e insieme
curiosità d’ammirar lo spettacolo che si spalancava sotto, della verde, sconfinata
pianura; poi, su, su, sempre più alto, ardito, baldanzoso, con un pennacchietto
rossigno in cima, come una cresta di galletto.
E ogni giorno, per una o due ore, contemplandolo e vivendone la vita, aveva
160 con esso tentennato a ogni più lieve alito d’aria; trepidando era accorso in qualche
giorno di forte vento, o per paura di non arrivare a tempo a proteggerlo da
una greggiola di capre, che ogni giorno, alla stess’ora, passava dietro la chiesetta
e spesso s’indugiava un po’ a strappare tra i macigni qualche ciuffo d’erba. Finora,
così il vento come le capre avevano rispettato quel filo d’erba. E la gioja di
165 Tommasino nel ritrovarlo intatto lì, col suo spavaldo pennacchietto in cima, era
ineffabile. Lo carezzava, lo lisciava con due dita delicatissime, quasi lo custodiva
con l’anima e col fiato; e, nel lasciarlo, la sera, lo affidava alle prime stelle che
spuntavano nel cielo crepuscolare,39 perché con tutte le altre lo vegliassero durante
la notte. E proprio, con gli occhi della mente, da lontano, vedeva quel suo
170 filo d’erba, tra i due macigni, sotto le stelle fitte fitte, sfavillanti nel cielo nero,
che lo vegliavano.
Ebbene, quel giorno, venendo alla solita ora per vivere un’ora con quel suo
filo d’erba, quand’era già a pochi passi dalla chiesetta, aveva scorto dietro a questa,
seduta su uno di quei due macigni, la signorina Olga Fanelli, che forse stava lì a
175 riposarsi un po’, prima di riprendere il cammino.
Si era fermato, non osando avvicinarsi, per aspettare ch’ella, riposatasi, gli lasciasse
il posto. E difatti, poco dopo, la signorina era sorta in piedi, forse seccata di
vedersi spiata da lui: s’era guardata un po’ attorno: poi, distrattamente, allungando
la mano, aveva strappato giusto quel filo d’erba e se l’era messo tra i denti col pennacchietto
180 ciondolante.
Tommasino Unzio s’era sentito strappar l’anima, e irresistibilmente le aveva
gridato: «Stupida!» quand’ella gli era passata davanti, con quel gambo in bocca.
Ora, poteva egli confessare d’avere ingiuriato così quella signorina per un filo
d’erba?
185 E il tenente De Venera lo aveva schiaffeggiato.
Tommasino era stanco dell’inutile vita, stanco dell’ingombro di quella sua stupida
carne, stanco della baja40 che tutti gli davano e che sarebbe diventata più acerba
e accanita se egli, dopo gli schiaffi, si fosse ricusato41 di battersi. Accettò la sfida,
ma a patto che le condizioni del duello fossero gravissime.42 Sapeva che il tenente