Il vitalismo e la pazzia

Il primo Novecento – L'autore: Luigi Pirandello

Il vitalismo e la pazzia

Secondo la concezione filosofica di Pirandello – che definiamo vitalismo – la «vita» non sopporta limiti e costrizioni: essa si manifesta in modo incessantemente mutevole, in una varietà di «forme» mai uguali a sé stesse, e scorre come un immenso fiume, continuo e magmatico. Le convenzioni sociali inducono l’individuo a fissare la vita – di per sé incostante e relativa – in forme stabili e durature, ma si tratta di apparenze fittizie, derivanti dall’illusione di poter fermare la corrente, alla ricerca impossibile di un valore assoluto e di un’unica verità.

Dare una forma stabile e cristallizzata alla vita significa, per Pirandello, farla morire. L’individuo, infatti, ingabbia la propria mutevole autenticità in una personalità coerente e unitaria, ma in realtà ogni identità è e rimane radicalmente e intimamente contraddittoria. I tentativi di costruirsi un ruolo preciso nella famiglia e nella società fanno prevalere l’apparire sull’essere, e costituiscono una fonte di equivoci continui e di falsità, destinati a trasformarsi in una prigione che gli individui, volontariamente, edificano attorno a sé. Tali ruoli sono maschere indossate per recitare una parte, per cercare di arrestare il fluire indistinto di stati emotivi passeggeri e cangianti, che istante dopo istante dicono e subito smentiscono qualcosa di noi, consegnandoci a un mondo pieno di incertezze, privo di riferimenti e come tale insopportabile.

Le istituzioni della famiglia e del lavoro vengono spesso identificate da Pirandello come una «trappola», per usare il titolo di una delle sue raccolte di novelle. Probabilmente condizionato dalle esperienze personali, lo scrittore non si riferisce quasi mai ai rapporti sociali e familiari con un senso di fiducia. Anche i legami parentali più stretti celano, dietro il perbenismo di facciata, vere e proprie crudeltà, perpetrate di solito a danno delle persone più sensibili, destinate a capire prima o poi il funzionamento del «giuoco» e a tentare di tirarsene fuori.
Nessun nido familiare, reale o immaginario, protegge – come avveniva in Pascoli – la solitudine del personaggio pirandelliano: egli piuttosto trova fra le mura domestiche problemi quotidiani, litigi, menzogne, infedeltà e convivenze terribili. E la famiglia è soltanto un microcosmo, parte di un mondo più grande in cui si trovano, amplificate, tutte le ipocrisie e le finzioni delle forme più complesse della vita sociale, lavorativa e politica.
In tutta la sua opera narrativa e teatrale Pirandello mostra un’insofferenza profonda verso i ruoli imposti dalla società: pur senza compiere gesti di vera e propria rivolta, egli denuncia – attraverso la poetica dell’umorismo – le angustie soffocanti dei ceti piccolo-borghesi, componendo un affresco amaro di una generazione priva di autenticità e spontaneità vitale.

Prigioniero della famiglia (Mattia Pascal), di un lavoro meccanico (Serafino Gubbio), di un’immagine in cui non si riconosce più (Vitangelo Moscarda), di una società falsa e meschina (Enrico IV) o ancora di una parte teatrale che non trova realizzazione (i Sei personaggi), l’uomo pirandelliano non si rassegna, ma cerca invano di evadere dalle angustie della «forma» in cui il destino ha voluto calarlo.
Come fare allora? È inutile provare a liberarsi oggi di una forma per rientrarvi domani con altre vesti, cambiando soltanto posto e modificando la propria maschera. L’unica vera soluzione è porsi fuori dagli schemi, ai margini della società, oppure oltre il confine della razionalità, là dove si può ancora percepire il fluire della corrente vitale. Il regredire all’infanzia oppure l’oltrepassare la soglia della “normalità” psicologica, rifugiandosi nell’immaginazione o nella pazzia, rappresentano per Pirandello le uniche possibili vie di fuga.
La salvezza può giungere così da un “altrove” fantastico, puramente immaginato (come nella novella Il treno ha fischiato, in cui il protagonista fantastica di visitare luoghi e città condotto dal treno che sente fischiare di notte), oppure dalla follia, eccellente strumento di contestazione, arma silenziosa che, fornendo all’individuo una visuale fuori dal comune, gli consegna un ruolo privilegiato e uno sguardo obliquo capace di arrivare dove gli altri non vedono (come in Enrico IV). Il folle è come un ordigno esplosivo che si aggira fra il perbenismo della presunta normalità, svelando imbrogli e ipocrisie, riducendole all’assurdo e quindi annullandole.

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Il folle, adattandosi consapevolmente alla sua condizione sospesa di «forestiere della vita», può così osservare dall’alto e dall’esterno l’esistenza insensata degli altri, estraniandosene. Considerato pazzo dalla gente comune, chiuso nel suo isolamento irraggiungibile, egli torna a immergersi nel flusso del vitalismo, ritrovando quell’istintiva dimensione del vivere che si è persa in mezzo alle convenzioni sociali e ai ruoli prestabiliti: proprio ciò che accade a Vitangelo Moscarda, che in Uno, nessuno e centomila abbandona tutte le forme del vivere in società, dismette qualsiasi maschera e rinuncia persino all’identità conferita dal nome.

 T2 

Forma e vita

L’umorismo, parte II, cap. 5


L’umanità si trova in uno stato paradossale, all’interno di una dialettica irrisolvibile tra la rete di convenzioni che la imbrigliano e il fluire libero della «vita», pronta a erompere quando il meccanismo dell’esistenza, imprevedibilmente, si inceppa.

La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili
e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme
che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso
della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a
5 poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi
questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci
coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo
a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la
vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi
10 imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi
momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano
miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che
si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei
doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti
15 di piena straripa e sconvolge tutto.
Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano
di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di personalità. Ma anche
per quelle più quiete, che si sono adagiate in una o in un’altra forma, la fusione è
sempre possibile: il flusso della vita è in tutti.

 >> pag. 215 

20 E per tutti però può rappresentare talvolta una tortura, rispetto all’anima che si
muove e si fonde, il nostro stesso corpo fissato per sempre in fattezze immutabili.
Oh perché proprio dobbiamo essere così, noi? – ci domandiamo talvolta allo specchio,
– con questa faccia, con questo corpo? – Alziamo una mano nell’incoscienza;
e il gesto ci resta sospeso. Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Mentre la «vita» scorre imprevedibile, l’individuo è sollecitato dalle pressioni sociali a definirsi in una «forma». La personalità che il singolo tende a modellare su sé stesso è però irreale, e i suoi contorni vengono tracciati esclusivamente dal rispetto delle norme della vita associata, ridotta a una vera e propria recita grottesca.
Il flusso nascosto delle sensazioni e la spinta, anarchica e irrazionale, delle pulsioni e dei sentimenti che agiscono sotto la superficie della «forma» sono respinti e neutralizzati: è l’individuo stesso che tende ad aggrapparsi alla propria falsa identità come a uno scoglio sicuro per non lasciarsi travolgere dalla tempesta che infuria intorno a lui. Prevale così il desiderio di cristallizzarsi, osservare con disincanto le dinamiche quotidiane ed estraniarsi costruendo dighe e argini che, tuttavia, sono spesso e imprevedibilmente destinati a crollare davanti ai prepotenti impulsi vitali.

La concezione vitalistica pirandelliana richiama quella di alcune filosofie di inizio Novecento. È quasi automatico, a prima vista, il riferimento a Bergson e alla sua teoria dello «slancio vitale», che però non deve indurre a parallelismi impropri. Per il filosofo francese, infatti, l’esistenza comporta un continuo mutamento, una maturazione perenne che conduce a creare e ricreare continuamente la propria individualità. Per Pirandello, invece, la vita è soltanto frantumazione e perdita di esistenza: lo slancio creativo di Bergson si traduce in un inevitabile sentimento di estraneità. E l’essere umano, contemplando la propria ombra fittizia sperduta nel mondo, affronta sempre il momento in cui, davanti allo specchio, prende coscienza del suo ruolo di inerme e passivo spettatore del gioco della vita: Alziamo una mano nell’incoscienza; e il gesto ci resta sospeso. Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere (rr. 23-24). Si compie così il destino di Mattia Pascal, di Vitangelo Moscarda e dei tanti «forestieri della vita» che popolano l’opera di Pirandello.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Riassumi il brano in un testo di circa 5 righe.


2 Qual è la relazione tra «vita» e «forma»?


ANALIZZARE

3 Qual è il registro linguistico prevalente nel brano antologizzato? Quali parole ed espressioni ne sono esempio?


4 Quali metafore sono presenti nel testo?


5 A quali campi semantici rimandano le metafore?


INTERPRETARE

6 Perché il corpo umano può diventare una tortura (r. 20)?


Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi