Il primo Novecento – L'autore: Italo Svevo

LETTURE critiche

La coscienza malata di Zeno e il messaggio del romanzo

di Alain Robbe-Grillet

Lo scrittore e regista francese Alain Robbe-Grillet (1922-2008) è stato, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, il principale teorico del nouveau roman (“nuovo romanzo”) e della école du regard (“scuola dello sguardo”), una scuola letteraria che rifiutava come false tutte le “spiegazioni” narrative e puntava sulla pura trascrizione della realtà esterna delle cose. Dal suo particolare punto di vista Robbe-Grillet ha sviluppato alcune interessanti considerazioni sull’opera sveviana e in particolare sulla Coscienza di Zeno. Nel brano che riportiamo egli definisce molto efficacemente, a partire dai suoi comportamenti, il particolare carattere del protagonista e infine sintetizza il senso del messaggio che l’autore triestino sembra avere voluto trasmettere attraverso il suo personaggio.

Zeno […] redige per uno psicanalista i fatti principali della sua esistenza passata. Studi universitari incerti, morte del padre, passione volutamente provata per una ragazza, matrimonio con la sorella di questa, vita familiare felice e agiata, amanti, affari commerciali più o meno rischiosi e generalmente deficitari, tutto questo sembra avere per lui una mediocre importanza: la moglie vigila con amore sul focolare domestico, un procuratore amministra saggiamente la parte più notevole del patrimonio. D’altra parte, col sopraggiungere della vecchiaia, Zeno non nutre più un interesse eccessivo per questi avvenimenti indubbiamente quotidiani; egli li risuscita e li commenta solo ad uno scopo: dimostrare che è ammalato e descrivere la sua malattia. Nonostante il suo aspetto che intuiamo florido, il nome di malato immaginario gli sta bene solo a metà; sa che la medicina ha solo pochi rimedi contro i suoi mali, coi dottori finisce sempre col litigare e le loro diagnosi non servono che ad arrecargli nuovi disturbi; se colleziona medicine – o anche le inghiotte qualche volta – non lo fa proprio per uno scopo precisamente terapeutico; è chiaro che lui si fa beffe tanto della psicanalisi quanto delle cure elettriche o della ginnastica. Fin dalle prime pagine troviamo la sua professione di fede: «La malattia è una convinzione ed io sono nato con questa convinzione». Qualcosa, insomma, come la grazia.
La natura esatta e l’importanza imprescindibile di questa convinzione, ecco tutto quello che il suo racconto tenta di chiarire in trecentocinquanta pagine di grande formato. L’universo nel quale egli ci cala, ad un tempo grottesco, fantastico e perfettamente quotidiano, raggiunge di primo acchito e conserva fino alla fine una carica di presenza eccezionale. Zeno non è affatto fuori del mondo; non è lo zimbello di simbolismi; egli sfugge in maniera altrettanto totale alla claustrazione1 del ripiegamento su se stesso. Il suo stato non può ispirare né incredulità né irritazione; esso è evidente, necessario, incurabile. Contrariamente alla morbosa compiacenza che prova il malato a convivere con i suoi dolori come in una forma di comodità, qui si tratta invece di una lotta senza quartiere per conquistare la “buona salute”, considerata come quel bene supremo che s’accompagna nello stesso tempo ad un’intera serenità interiore – armonia dell’anima, bontà, purezza, innocenza – e a manifestazioni esteriori di carattere più pratico: l’eleganza, la disinvoltura, l’astuzia, il successo negli affari, la possibilità di sedurre le donne e di suonare bene il violino – invece di trarre da esso degli strimpellamenti orribili, come dalla vita, del resto. D’altronde l’uomo sano non approfitta di queste prerogative per condurre una vita dispersiva: egli si limita, per esempio, a una stretta monogamia. Non dobbiamo vedere in questo una contraddizione, perché, se per gli uni tutto è sano, per gli altri tutto è ammorbato.2
In particolare si può dire la stessa cosa dei rapporti col tempo. Il tempo di Zeno è un tempo ammalato. È per questo motivo che fra le altre disgrazie non può suonar bene nessuno strumento musicale […]
Quando in una conversazione egli pronuncia una frase, anche la più semplice, fa nello stesso istante degli sforzi per ricordarsi un’altra frase detta un po’ prima di quella. Se gli restano solo cinque minuti per compiere un’azione importante, li perde nello stabilire che non avrebbe avuto bisogno di un tempo maggiore per portarla a buon termine. Decide di non fumare più perché il fumo è la causa di tutti i suoi mali; subito il suo tempo si trova diviso e divorato dalle date successive e sempre più lontane dell’ultima sigaretta, date che incide prima del tempo sulle pareti della sua camera – tanto che, avendole imbrattate tutte, deve ben presto sgomberare. Ma mentre si lascia prendere nella sua ragnatela, la morte colpisce attorno a lui amici e genitori e ogni volta lui si sente preso alla sprovvista perché capisce subito che non potrà mai più dimostrare loro la sua buona volontà e la sua innocenza.
Zeno non porta in piazza la sua malattia. Cerca di non parlarne, di comportarsi come una persona normale nella misura del possibile. Anzi, ha «assunto definitivamente la maschera d’un uomo contento». Dalla tavola di casa dove arriva puntualmente da buon marito, all’ufficio dove ricopre con zelo l’impiego non retribuito di contabile, dal Lloyd alla Borsa, dal letto dell’amante alla casa dei suoceri che lo stimano, noi seguiamo avidamente le deambulazioni3 di questo cacciatore che si prende di mira implacabilmente […].
Le infermità da cui Zeno viene bruscamente colpito (irrigidimento del ginocchio perché uno zoppo, suo amico, gli ha parlato dei cinquantaquattro muscoli della deambulazione o dolore al fianco perché un altro amico lo ha rappresentato in una caricatura trafitto dal suo ombrello) e di cui soffrirà in seguito per il resto dei suoi giorni, sono in stretta parentela con quelle del capitano Achab4 che ha perduto una gamba contro la balena bianca, o con quelle di Molloy5 che si sente salire progressivamente la paralisi dai piedi. La sua morte, Zeno, la conosce in anticipo: essa comincerà con la cancrena nelle estremità inferiori. Finanche questa città “irredenta” di Trieste in cui non si parla l’italiano ma un dialetto misto di tedesco e di croato, fa pensare alla Praga ceco-germanica di Kafka e alla Dublino anglo-irlandese di Joyce – patrie di tutti coloro che non si sentono a loro agio fra quelli della propria lingua. «Una confessione scritta è sempre imbonita di menzogne e noi (triestini) mentiamo ad ogni parola toscana!».
Per giunta, il narratore è in cattiva fede. Facendogli vedere il suo scritto, lo psicanalista precisa che esso contiene una gran quantità di fandonie. Zeno stesso ne segnala qualcuna di sfuggita. Ma come tacciare chicchessia di menzogna quando ogni avvenimento è accompagnato da una lunga analisi che lo discredita e lo nega? Un giorno in cui non è riuscito con questo metodo a rendere abbastanza intricata la situazione, Zeno dichiara: «Era così chiara che non ci capivo più niente». Dopo aver accumulato tutti gli indizi di un classico complesso di Edipo con transfert molteplici, va su tutte le furie perché il medico non ha potuto far a meno di notarlo; poi aggiunge appositamente alcuni elementi falsi al fine di corroborare questa sua tesi. Agisce in maniera analoga nei suoi scritti con gli amici e con la famiglia: «Se non avessi deformato tutto, avrei ritenuto inutile aprir bocca». Alla fine scopre che la sua analisi è in grado di trasformare la salute in infermità; poco male: egli decide allora che bisogna curare la buona salute […].
Tempo ammalato, linguaggio ammalato, libido ammalata, comportamento ammalato, vita ammalata, coscienza ammalata…, è più che evidente che non bisogna scorgere qui una vaga allegoria al peccato originale, o una qualche altra lamentazione metafisica.6 Si tratta di vita quotidiana e d’esperienza diretta del mondo. Con questo, Italo Svevo vuol dirci che nella nostra società moderna, più niente è naturale. E non c’è neppure motivo di rammaricarsene. Si potrà senz’altro essere contenti, fare all’amore, fare affari, fare la guerra, scrivere romanzi: ma niente si potrà più fare senza pensarci sopra, nel modo naturale con cui si respira l’aria. Ogni nostra azione si riflette su se stessa e si carica di problemi. Sotto i nostri occhi, il semplice gesto che si fa per stendere la mano, diventa strano e goffo; le parole che ci ascoltiamo pronunciare, mandano d’improvviso un suono falso; le lancette del nostro spirito non corrono più con quelle degli orologi; e l’opera romanzesca, a sua volta, non può più essere innocente.


Alain Robbe-Grillet, Le nouveau roman, trad. di L. De Maria e M. Militello, Sugar, Milano 1965

 >> pag. 180 

Il tempo “misto” nella Coscienza di Zeno

di Sandro Maxia

Il critico Sandro Maxia (n. 1932) definisce la particolare consistenza del “tempo misto” sveviano in relazione alla complessità della “coscienza” del protagonista del romanzo: una coscienza stratificata, nella quale sono compresenti diversi momenti temporali. Da qui deriva, nella strategia narrativa di Svevo, la svalutazione dei fatti con la loro fallimentare pretesa di oggettività: gli eventi contano soltanto in relazione al «gioco della memoria» su cui è concentrata tutta l’attenzione dello scrittore.

Svevo fu tormentato a lungo dal problema del tempo, anche dal problema delle difficoltà sintattico-stilistiche che si devono superare per renderne il senso:

«Avrò la sorpresa di trovare me che qui descrivo molto differente da colui che descrissi anni or sono. La vita, benché non descritta, lasciò qualche segno. Mi pare che col tempo un po’ si rasserenò. Mi mancano quegli sciocchi rimorsi, quelle spaventose paure del futuro. Come potrei spaventarmene? È quel futuro quello ch’io vivo. Va via senza prepararne un altro. Perciò non è neppure un vero presente. Sta fuori del tempo. Manca un tempo ultimo nella grammatica».

Ma soprattutto fu consapevole del fatto che il vero tempo della coscienza è la durata, perché l’uomo non può sopprimere il ricordo del passato, e l’attesa del futuro. Nel romanzo che la morte gli impedì di portare a termine1 si legge questa lucidissima notazione:

«C’è… una grande differenza tra lo stato d’animo in cui l’altra volta raccontai la mia vita e quello attuale. La mia posizione s’è cioè semplificata. Continuo a dibattermi tra il presente e il passato, ma almeno fra i due non viene a cacciarsi la speranza, l’ansiosa speranza del futuro. Continuo dunque a vivere in un tempo misto, com’è il destino dell’uomo…».

Il tempo misto è dunque il tempo della memoria, il tempo che fonda l’interiorità in opposizione al tempo oggettivo scandito dai fatti esteriori, e non è propriamente né passato né presente, perché risulta dall’intreccio e dalla sintesi, sempre insidiata e continuamente ricostruita, del passato, del presente, e dell’avvenire. Se proprio si volesse un’indicazione sintattica più precisa si potrebbe dire che il sentimento del tempo misto risulta da un uso particolare dell’imperfetto, ma tutto starebbe poi nell’indicare in che cosa è particolare quest’uso. Tornando al nostro passo, è facile osservare che alcune frasi restano come in bilico tra passato e presente, perché non si capisce bene se esse esprimano la coscienza attuale del narratore o quella passata. Queste frasi, qui e altrove molto spesso in tutto il romanzo, sono espresse all’imperfetto. Ciò non deve meravigliare, perché l’imperfetto si riferisce ad una vicenda che sta a mezzo tra l’accaduto nella sua immodificabilità ed il puro abbandonarsi al mondo della possibilità ed esprime un momento intermedio della riflessione-indagine, quello nel quale il dato non ancora cristallizzato è tuttavia disponibile per un attivo inserimento nel gioco della memoria. Ma è pure facile avvertire che questo significato di cui esso è carico gli proviene proprio dall’essere inserito con scelta abilissima in un contesto ricco di frequenti trapassi temporali. Gli elementi per mezzo dei quali Svevo ottiene quel particolare sentimento del tempo sono dunque molteplici e devono essere tenuti ugualmente presenti […].
Riassumendo le osservazioni fatte finora, noi abbiamo: un ordinamento a strati della coscienza (l’uomo non vive in un tempo puro, perché non può sopprimere il ricordo del passato e l’attesa del futuro; egli in ogni istante interpreta se stesso attraverso una sintesi di passato presente e avvenire); una coscienza attuale che racconta e ordina i fatti svincolandoli dalla cronologia obiettiva ed accostandoli in modo consono al significato che di volta in volta si vuol far loro assumere; per conseguenza una radicale svalutazione dei fatti, che non interessano più in sé, ma in quanto appigli al variare del gioco della memoria. Di qui un atteggiamento nuovo dello scrittore di fronte alla realtà: poiché non ci sono accadimenti umani in cui si possa avere fiducia per penetrare dentro se stessi – cioè dentro la vera realtà, o almeno la sola che valga la pena e, in fondo, che sia possibile esplorare – la realtà deve essere affrontata senza discriminazioni aprioristiche e lo scrittore non deve introdurre nella rappresentazione alcun criterio gerarchico. I fatti nella loro nuda materialità stanno tutti sullo stesso piano e da ognuno di essi può venire l’illuminazione che cerchiamo: il vizio del fumo e il matrimonio, la morte del padre e l’adulterio, tutto si dispone così su un’unica linea.
Infine un atteggiamento costante di ricerca e di dubbio: l’autore non ha da riferire dei dati di fatto incontrovertibili, ma ha da disporre alcuni frammenti della realtà nel modo più favorevole perché si prestino docili alla funzione che è loro affidata. Appena essi hanno assolto il loro compito, vengono abbandonati, il più delle volte ancora carichi di ambiguità, ed essi si allontanano nello sfondo senza subir più un processo di appello che ne determini con certezza l’assoluzione o la condanna. La realtà più vera è quella della coscienza; la realtà esteriore non ha senso, o lo acquista solo se viene disciolta nel flusso della coscienza. «Io credo – ha scritto Svevo con lucida consapevolezza di questo mutamento di prospettiva – di sapere qualche cosa a questo mondo: su me stesso. Gli antichi facevano un gran caso del fatto che anche il proprio io è un mistero. Ma anche ogni altra cosa vivente è misteriosa e l’accesso ad essa è ben più difficile che al proprio essere».
Sono questi, come si sa, motivi comuni agli scrittori del primo Novecento, e Auerbach2 l’ha precisato efficacemente:

«Ai tempi nostri si è avuto uno spostamento di accento: molti scrittori rappresentano i piccoli fatti insignificanti per amore dei fatti stessi, o piuttosto quale fonte di motivi, di penetrazione prospettica in un ambiente, in una coscienza o nello sfondo del tempo; essi hanno rinunciato a rappresentare la storia dei loro personaggi con la pretesa di una compiutezza esteriore, conservando la successione cronologica e concentrando tutta l’attenzione sulle importanti svolte esteriori del destino… Questo spostamento del centro di gravità esprime quasi uno spostamento di fiducia: si attribuisce meno importanza alle grandi svolte esteriori e ai colpi del destino, come se da essi non possa scaturire nulla di decisivo per l’oggetto: si ha fiducia invece che un qualunque fatto della vita scelto casualmente contenga in ogni momento e possa rappresentare la somma dei destini; si ha fiducia maggiore nelle sintesi, ottenute con l’esaurire un fatto quotidiano, piuttosto che nella trattazione completa in ordine cronologico» (Mimesis).

Questo radicale mutamento di prospettiva travolge, com’è evidente, i canoni narrativi del romanzo tradizionale. Scompare la trama, intesa come oggettivo svolgersi dei fatti in successione temporale, perché si afferma una nuova concezione del tempo. È a tutti noto che il passaggio dal tempo oggettivo al tempo interiore (il tempo perduto, il tempo misto ecc.) è una delle caratteristiche del romanzo novecentesco, addirittura discriminante rispetto al romanzo tradizionale. Dare consistenza e ritmo di narrazione a questo sentimento soggettivo del tempo è uno dei problemi stilistici più vivi tra i narratori moderni. Ma non si tratta, evidentemente, di un puro problema stilistico. Il tradizionale piano narrativo non ha più niente da dire a questi scrittori proprio perché in esso, dominato dai tempi sintattici «puri» o cronologici, non «accade» niente che sia suscettibile di trasfigurazione poetica; essi hanno bisogno di un piano narrativo «nuovo», che sia dominato dal tempo «misto» o «durata» (l’infinita espansione dell’attimo, come dice il Beach3),nel quale soltanto «accade» qualcosa.


Sandro Maxia, Lettura di Italo Svevo, Liviana, Padova 1985

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi