Zeno […] redige per uno psicanalista i fatti principali della sua esistenza passata. Studi universitari incerti, morte del padre, passione volutamente provata per una ragazza, matrimonio con la sorella di questa, vita familiare felice e agiata, amanti, affari commerciali più o meno rischiosi e generalmente deficitari, tutto questo sembra avere per lui una mediocre importanza: la moglie vigila con amore sul focolare domestico, un procuratore amministra saggiamente la parte più notevole del patrimonio. D’altra parte, col sopraggiungere della vecchiaia, Zeno non nutre più un interesse eccessivo per questi avvenimenti indubbiamente quotidiani; egli li risuscita e li commenta solo ad uno scopo: dimostrare che è ammalato e descrivere la sua malattia. Nonostante il suo aspetto che intuiamo florido, il nome di malato immaginario gli sta bene solo a metà; sa che la medicina ha solo pochi rimedi contro i suoi mali, coi dottori finisce sempre col litigare e le loro diagnosi non servono che ad arrecargli nuovi disturbi; se colleziona medicine – o anche le inghiotte qualche volta – non lo fa proprio per uno scopo precisamente terapeutico; è chiaro che lui si fa beffe tanto della psicanalisi quanto delle cure elettriche o della ginnastica. Fin dalle prime pagine troviamo la sua professione di fede: «La malattia è una convinzione ed io sono nato con questa convinzione». Qualcosa, insomma, come la grazia.
La natura esatta e l’importanza imprescindibile di questa convinzione, ecco tutto quello che il suo racconto tenta di chiarire in trecentocinquanta pagine di grande formato. L’universo nel quale egli ci cala, ad un tempo grottesco, fantastico e perfettamente quotidiano, raggiunge di primo acchito e conserva fino alla fine una carica di presenza eccezionale. Zeno non è affatto fuori del mondo; non è lo zimbello di simbolismi; egli sfugge in maniera altrettanto totale alla claustrazione1 del ripiegamento su se stesso. Il suo stato non può ispirare né incredulità né irritazione; esso è evidente, necessario, incurabile. Contrariamente alla morbosa compiacenza che prova il malato a convivere con i suoi dolori come in una forma di comodità, qui si tratta invece di una lotta senza quartiere per conquistare la “buona salute”, considerata come quel bene supremo che s’accompagna nello stesso tempo ad un’intera serenità interiore – armonia dell’anima, bontà, purezza,
innocenza – e a manifestazioni esteriori di carattere più pratico: l’eleganza, la disinvoltura, l’astuzia, il successo negli affari, la possibilità di sedurre le donne e di suonare bene il violino – invece di trarre da esso degli strimpellamenti orribili, come dalla vita, del resto. D’altronde l’uomo sano non approfitta di queste prerogative per condurre una vita dispersiva: egli si limita, per esempio, a una stretta monogamia. Non dobbiamo vedere in questo una contraddizione, perché, se per gli uni tutto è sano, per gli altri tutto è ammorbato.2
In particolare si può dire la stessa cosa dei rapporti col tempo. Il tempo di Zeno è un tempo ammalato. È per questo motivo che fra le altre disgrazie non può suonar bene nessuno strumento musicale […]
Quando in una conversazione egli pronuncia una frase, anche la più semplice, fa nello stesso istante degli sforzi per ricordarsi un’altra frase detta un po’ prima di quella. Se gli restano solo cinque minuti per compiere un’azione importante, li perde nello stabilire che non avrebbe avuto bisogno di un tempo maggiore per portarla a buon termine. Decide di non fumare più perché il fumo è la causa di tutti i suoi mali; subito il suo tempo si trova diviso e divorato dalle date successive e sempre più lontane dell’ultima sigaretta, date che incide prima del tempo sulle pareti della sua camera – tanto che, avendole imbrattate tutte, deve ben presto sgomberare. Ma mentre si lascia prendere nella sua ragnatela, la morte colpisce attorno a lui amici e genitori e ogni volta lui si sente preso alla sprovvista perché capisce subito che non potrà mai più dimostrare loro la sua buona volontà e la sua innocenza.
Zeno non porta in piazza la sua malattia. Cerca di non parlarne, di comportarsi come una persona normale nella misura del possibile. Anzi, ha «assunto definitivamente la maschera d’un uomo contento». Dalla tavola di casa dove arriva puntualmente da buon marito, all’ufficio dove ricopre con zelo l’impiego non retribuito di contabile, dal Lloyd alla Borsa, dal letto dell’amante alla casa dei suoceri che lo stimano, noi seguiamo avidamente le deambulazioni3 di questo cacciatore che si prende di mira implacabilmente […].
Le infermità da cui Zeno viene bruscamente colpito (irrigidimento del ginocchio perché uno zoppo, suo amico, gli ha parlato dei cinquantaquattro muscoli della deambulazione o dolore al fianco perché un altro amico lo ha rappresentato in una caricatura trafitto dal suo ombrello) e di cui soffrirà in seguito per il resto dei suoi giorni, sono in stretta parentela con quelle del capitano Achab4 che ha perduto una gamba contro la balena bianca, o con quelle di Molloy5 che si sente salire progressivamente la paralisi dai piedi. La sua morte, Zeno, la conosce in anticipo: essa comincerà con la cancrena nelle estremità inferiori. Finanche questa città “irredenta” di Trieste in cui non si parla l’italiano ma un dialetto misto di tedesco e di croato, fa pensare alla Praga ceco-germanica di Kafka e alla Dublino anglo-irlandese di Joyce – patrie di tutti coloro che non si sentono a loro agio fra quelli della propria lingua. «Una confessione scritta è sempre imbonita di menzogne e noi (triestini) mentiamo ad ogni parola toscana!».
Per giunta, il narratore è in cattiva fede. Facendogli vedere il suo scritto, lo psicanalista precisa che esso contiene una gran quantità di fandonie. Zeno stesso ne segnala qualcuna di sfuggita. Ma come tacciare chicchessia di menzogna quando ogni avvenimento è accompagnato da una lunga analisi che lo discredita e lo nega? Un giorno in cui non è riuscito con questo metodo a rendere abbastanza intricata la situazione, Zeno dichiara: «Era così chiara che non ci capivo più niente». Dopo aver accumulato tutti gli indizi di un classico complesso di Edipo con transfert molteplici, va su tutte le furie perché il medico non ha potuto far a meno di notarlo; poi aggiunge appositamente alcuni elementi falsi al fine di corroborare questa sua tesi. Agisce in maniera analoga nei suoi scritti con gli amici e con la famiglia: «Se non avessi deformato tutto, avrei ritenuto inutile aprir bocca». Alla fine scopre che la sua analisi è in grado di trasformare la salute in infermità; poco male: egli decide allora che bisogna curare la buona salute […].
Tempo ammalato, linguaggio ammalato, libido ammalata, comportamento ammalato, vita ammalata, coscienza ammalata…, è più che evidente che non bisogna scorgere qui una vaga allegoria al peccato originale, o una qualche altra lamentazione metafisica.6 Si tratta di vita quotidiana e d’esperienza diretta del mondo. Con questo, Italo Svevo vuol dirci che nella nostra società moderna, più niente è naturale. E non c’è neppure motivo di rammaricarsene. Si potrà senz’altro essere contenti, fare all’amore, fare affari, fare la guerra, scrivere romanzi: ma niente si potrà più fare senza pensarci sopra, nel modo naturale con cui si respira l’aria. Ogni nostra azione si riflette su se stessa e si carica di problemi. Sotto i nostri occhi, il semplice gesto che si fa per stendere la mano, diventa strano e goffo; le parole che ci ascoltiamo pronunciare, mandano d’improvviso un suono falso; le lancette del nostro spirito non corrono più con quelle degli orologi; e l’opera romanzesca, a sua volta, non può più essere innocente.
Alain Robbe-Grillet, Le nouveau roman, trad. di L. De Maria e M. Militello, Sugar, Milano 1965