Il primo Novecento – L'opera: La coscienza di Zeno

temi nel tempo

Padri e figli in conflitto

Nella letteratura occidentale il personaggio del padre ha spesso rappresentato una figura antagonistica rispetto al figlio, che sente questo rapporto con il genitore come soffocante e inibente. Da lui e dai suoi condizionamenti è dunque necessario liberarsi: ucciderlo metaforicamente significa poter crescere.

L’educazione dei figli nell’antica Roma
Il tema del conflitto tra padri e figli è al centro di diverse opere del commediografo latino Publio Terenzio Afro (immagine a fianco), che nella Roma del II sec. a.C. tratta il problema dell’educazione dei giovani, mettendo spesso a confronto un padre severo e tradizionalista e uno indulgente e comprensivo. Ciò accade, per esempio, nella commedia Heautontimorumenos (Il punitore di sé stesso, rappresentata per la prima volta nel 163 a.C.), con la relazione tesa e difficile tra il vecchio Menedemo e il figlio Clinia, ma anche in quella intitolata Adelphoe (I fratelli, 160 a.C.), che ha per protagonisti due fratelli educati l’uno in base a rigidi princìpi tradizionali, l’altro secondo criteri liberali: la preferenza dell’autore va a quest’ultima concezione pedagogica, basata sulla confidenza e sulla fiducia reciproca.

Il rigore di un padre nel Decameron
La durezza dell’atteggiamento di un padre può determinare nei figli reazioni anche estreme. Ghismunda – protagonista di una novella del Decameron di Boccaccio (immagine a fianco), la prima della Quarta giornata, quella dedicata agli amori dall’esito infelice – è giudicata dal genitore Tancredi colpevole di aver infranto il codice familiare patriarcale. Lei, rimasta vedova, ancora piacente, si è innamorata di Guiscardo e lui ricambia questo sentimento. Quando il padre li scopre, fa uccidere il giovane, perché non è di rango sufficientemente elevato rispetto a quello principesco di lei. Ghismunda, fiera d’animo e disperata per la morte dell’amato, sceglierà la strada del suicidio.

Due lettere a padri difficili
Talora l’annientamento della volontà dei figli da parte dei genitori equivale, se non a una morte fisica, a una sorta di morte interiore. Ne sapeva qualcosa il giovane Giacomo Leopardi (immagine a fianco), per il quale il padre Monaldo aveva previsto il ruolo di “prete di casa”, poiché i diritti di primogenitura erano passati a Carlo, più sano e robusto. Giacomo, però, si accorge che i progetti paterni sono in contrasto con i suoi sogni di gloria. Così, appena raggiunta la maggiore età, nel 1819 il giovane poeta progetta la fuga da Recanati, scrivendo a Monaldo una lettera di congedo in cui dichiara, drammaticamente, la propria condizione di figlio soffocato dai vincoli familiari. «Ella», gli rimprovera tra le altre cose, «mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, né le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia».
Esattamente cent’anni più tardi, un’accesa contrapposizione al proprio genitore viene espressa da Franz Kafka (1883-1924) nella Lettera al padre (1919). I rapporti tra il robusto padre commerciante e il fragile figlio scrittore non erano dei più semplici: «Come padre», scrive, «tu eri troppo forte per me». Lo scrittore compie una lucidissima analisi della relazione con la figura paterna, forse nell’intenzione di trovare uno spiraglio di comunicazione, anche se non consegnerà mai al destinatario la sua lettera, scritta cinque anni prima di morire.

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Scontri generazionali nel romanzo dell’Ottocento
In Papà Goriot (1834), uno dei romanzi più celebri di Honoré de Balzac (immagine a fianco), il padre rappresenta invece la vittima, oggetto di una vera e propria spoliazione materiale messa in atto dalle figlie, alle quali lui è disposto a dare tutto. Il suo è l’amore smisurato di un genitore, che però, proprio per questo eccesso di affetto, finisce per sbagliare: “viziando” all’eccesso, come si direbbe oggi, le figlie, che lo ripagano con l’indifferenza e il disprezzo.
Simile sarà la fine di Mastro-don Gesualdo, il protagonista dell’omonimo romanzo (1889) di Giovanni Verga: il manovale diventato signore a forza di sacrifici, la cui figlia, Isabella, si vergogna di lui per le sue umili origini. È memorabile, per la sua amarezza, la scena finale del libro, che descrive la morte di Gesualdo, relegato in una stanza del palazzo nobiliare, abbandonato dalla figlia e schernito dai servitori.
Una conflittualità tra padri e figli di portata generazionale è quella messa a fuoco dal russo Ivan S. Turgenev nel romanzo Padri e figli (1862), dove ai padri aristocratici, tradizionalisti e idealisti, si contrappongono i figli democratici, innovatori, materialisti e nichilisti: il termine stesso “nichilismo” fu coniato proprio da Turgenev in questo stesso romanzo per descrivere l’atteggiamento filosofico (la negazione di ogni valore positivo) dei giovani russi degli anni Sessanta del XIX secolo.

La cultura come strumento di autonomia
La questione dell’incontro-scontro tra generazioni naturalmente prosegue nella letteratura del Novecento, pur in un contesto profondamente mutato. Nel 1975 fa molto scalpore la pubblicazione di Padre padrone, romanzo autobiografico del sardo Gavino Ledda (n. 1938), che racconta le vessazioni di ogni genere subite da parte del genitore, un pastore che non accettava, per suo figlio, l’idea di una vita diversa dalla propria. Analfabeta fino all’età di vent’anni, il protagonista si ribella all’autorità paterna, intraprendendo la via del riscatto personale attraverso l’istruzione, fino a diventare docente universitario. Analoghe, seppure collocate in un ambiente sociale e culturale diverso, sono le vicende raccontate dalla siciliana Lara Cardella (n. 1969) in Volevo i pantaloni (1989) e da Ignazio Tarantino (n. 1974, immagine a fianco) in Sto bene, è solo la fine del mondo (2013): anche in questi casi l’emancipazione da un controllo genitoriale oppressivo e soffocante passa attraverso l’accesso alla cultura, che è sempre sinonimo di libertà.

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi