La rivalità tra due “primedonne”
In effetti, sono proprio l’ambivalenza e la contraddizione a costituire la sostanza della relazione umana e intellettuale tra Pascoli e d’Annunzio. Li uniscono attestati di stima e ammirazione (Pascoli definisce il rivale il «Massimo », l’«Unico», l’«insuperabile Stesichoros», paragonandolo a un famoso poeta della Grecia antica), dediche apposte alle loro opere (celebre quella presente nel Commiato, la poesia che chiude Alcyone) e, nel caso di d’Annunzio, anche un commosso elogio funebre del collega (pubblicato nel 1912, nel volume Contemplazione della morte); li dividono polemiche che infiammano la società letteraria del tempo.
A Firenze, nel 1900, una lettura dantesca nella chiesa di Orsanmichele viene affidata a d’Annunzio e non a Pascoli, certo migliore dantista, che scrive alla rivista “Il Marzocco”: «Come potrò piacere alle dame, e perciò alla gente, senza un po’ di sport? Ché lo sport è ormai necessario allo scrittore, oh!, più dell’ingegno! Più dello studio! E anzi si può dire che la letteratura sia essa tutto uno sport; una cavalcata in frak rosso». La risposta all’attacco pascoliano («degno di una donnetta inacidita e pettegola») da parte di d’Annunzio, punzecchiato per il suo debole per le donne e i cavalli, non si fa attendere: «È noto che, tra i letterati d’Italia, io ho il gusto di cavalcare a caccia e di arrischiare il mio bel cranio contro le staccionate della Campagna romana; come è noto che tu hai il gusto – egualmente rispettabile – di rimaner su la ciambella, di centellinare il fiasco, di curare la stitichezza del tuo cagnolino».