2 - I temi

Il secondo Ottocento – L'opera: Alcyone

2 I temi

In questo poema dell’estate, d’Annunzio torna a sviluppare il motivo del panismo, la comunione dell’io con la natura già presente nelle poesie giovanili. Tale comunione si compie qui in termini mitici, quale completa astrazione da tutto ciò che è umano. Mentre le figure femminili si trasfigurano in ninfe dei boschi, il poeta si spoglia dei residui della civiltà moderna da cui si sente contaminato e recupera un’originaria e profonda dimensione interiore che fa coincidere la sua vita con quella dell’universo. Egli cioè conosce la gioia istintiva e vitale trasmessa dall’immedesimarsi con il Tutto. Da tale metamorfosi, dal suo fondersi con il mare, i fiumi, la pioggia, gli alberi, il poeta ricava una straordinaria ebbrezza: impadronendosi attraverso i sensi della segreta e pulsante energia naturale, egli acquista una nuova forza, manifestando così la propria facoltà di oltrepassare i limiti umani e di «indiarsi», cioè deificarsi nell’unione perfetta con la natura.

Solo apparentemente il processo che amalgama il soggetto umano e quello naturale avviene grazie a una disposizione genuina ed elementare e purificata da ogni artificio, immune da sovrastrutture ideologiche. Il mito del superuomo, così come lo abbiamo visto nei romanzi intrisi di torbida sensualità e di eroismo dai toni esasperati, è certamente qui decantato, tra i silenzi dei boschi, nell’ozio immobile sulla sabbia e sotto la canicola mitigata dalla pioggia estiva. Al tempo stesso, però, il poeta non rinuncia alla propria prerogativa di “essere superiore”, al quale è accordato il privilegio dell’immedesimazione divina con le più recondite fibre del mondo naturale: la fusione tra l’elemento umano e l’elemento naturale rappresenta un evento quasi soprannaturale, capace di collocarlo in una dimensione sovrumana di contatto con la natura, di cui diventa parte integrante.

Questa illusione, tuttavia, non sempre può realizzarsi compiutamente e la comunione panica può trasformarsi in un’utopia. Il tentativo di depurare il proprio mondo interiore e di assaporare pienamente le sensazioni suscitate da ogni aspetto della natura viene infatti frustrato dall’inevitabile passaggio dall’estate all’autunno, simbolo della consunzione e del rapido trascorrere del tempo. Non a caso, il declino estivo annunciato alla fine della quarta sezione del libro è suggellato miticamente dal ricordo della tragica impresa di Icaro: nel Ditirambo IV il fallimento della sua ambizione di volare fino al Sole coincide con la disfatta del mito stesso e il conseguente abbandono da parte del poeta di ogni aspirazione agonistica e con un desiderio di inabissarsi per sempre, come l’imprudente eroe, nel profondo del mare.
Il sogno di recuperare una dimensione immortale, incorrotta e innocente si scontra dunque con la consapevolezza dell’impossibilità di attuarlo, quando il presagio della fine imminente dell’estate procura un senso di stanchezza, di estenuazione, di malattia e di morte. Ciò non impedisce comunque al rito di compiersi, rinnovando il gioco illusorio e sottile (la «favola bella» a cui d’Annunzio fa allusivamente cenno nella Pioggia nel pineto, ► T7, p. 525) che promette, fra la stagione del grano e quella dell’uva, di godere del paesaggio estivo come se fosse una sorta di paradiso terrestre.

Descrivere questo sogno è il compito che d’Annunzio assegna alla propria poesia. Anche tale esperienza è vissuta come uno stato di grazia e come un mezzo per vincere la morte, capace di generare parole e versi figli delle ninfe, scaturiti dal suono delle foreste, dal rumore delle onde e del vento, dal fruscio delle foglie mosse dal vento. In tal modo, il poeta ambisce ad assumere il ruolo di interprete di Pan e a esprimere, grazie alla capacità magica della sua parola, l’armonia misteriosa che vive e palpita nell’universo. In questo senso, d’Annunzio ripropone la figura del poeta orfico ► , che sa comprendere e rivelare il canto segreto (e quindi l’essenza più profonda) della natura.

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3 Lo stile

Coerentemente con le funzioni evocative che d’Annunzio assegna alla propria parola poetica, egli collauda in Alcyone tutte le soluzioni stilistiche immaginabili, come se volesse esaurire lo spettro delle possibilità espressive. Un primo ambito in cui si esercita pienamente la sua sperimentazione è quello metrico, dove possiamo registrare una straordinaria varietà di soluzioni. Abbandonando le strutture tipiche della poesia tradizionale, d’Annunzio «rompe gli schemi strofici, li dilata e li restringe, riducendo a volte il verso a una parola singola» (Beccaria).
Anche se in alcune liriche (per esempio nella Sera fiesolana) è ancora presente un sistema di strofe e non mancano sonetti, madrigali, forme metriche di ascendenza classica, come le strofe saffiche e alcaiche, l’autore predilige l’uso della strofa libera, lunga, talvolta lunghissima, composta di versi liberi, di misura sillabica diseguale, variamente alternati e legati tra loro in modo del tutto irregolare da rime, ma più spesso da assonanze e consonanze.

Altrettanto ricco è il repertorio lessicale: l’autore presenta frequenti arcaismi, in più di un caso recuperati dai dizionari (come alcuni nomi di piante: crambe, pancrazio, terebinto ecc.) e si compiace – con un atteggiamento che potremmo definire manieristico – del gusto del raro e del desueto; abbiamo così citazioni attinte da semisconosciuti poeti dei primi secoli della letteratura italiana, forme ortografiche anacronistiche, tecnicismi ecc.
L’intenzione di d’Annunzio di suggerire sensazioni e dissolvere la parola in una pura evocazione musicale è resa magistralmente grazie agli effetti fonosimbolici, prodotti da giochi di rime, allitterazioni e anafore. Il risultato è una sequela di immagini che compariranno anche nei versi di buona parte dei poeti italiani del Novecento, destinati – come dirà Eugenio Montale – ad attraversare la poesia dannunziana e ad accoglierne evidenti influenze.

Al cuore della letteratura - volume 5
Al cuore della letteratura - volume 5
Il secondo Ottocento