La maschera dell’innocenza

Il secondo Ottocento – L'autore: Gabriele d’Annunzio

La maschera dell’innocenza

Una delle massime più celebri di d’Annunzio è «rinnovarsi o perire». Si può dire che, nell’arte non meno che nella vita, egli sia sempre stato fedele a questo imperativo. Nel tentativo di esibire aspetti diversi del suo genio creativo poliedrico, l’autore ha cercato di rielaborare di continuo la propria personalità letteraria, coltivando generi diversi – dalla lirica al romanzo, dal teatro alla prosa autobiografica, dal giornalismo all’oratoria – e sperimentando una gamma di poetiche che vanno dal Verismo al Simbolismo, fino alla prosa originalissima del Notturno.
Questa molteplicità (o varietà, celebrata come «sirena del mondo» e «meraviglia sempiterna» nel poema di Maia, Laus vitae) non si riflette solo nelle forme letterarie, ma anche nei toni e negli atteggiamenti spirituali: il poeta sa muoversi con disinvoltura dalla sensualità prorompente al mesto languore, dalla gioiosa vitalità a un senso di debolezza e convalescenza interiore.

Il trasformismo di d’Annunzio si traduce a un certo punto (la cosiddetta «stagione della bontà») nell’abbandono, sia pure parziale, delle pose estetizzanti messe in mostra nel Piacere e nell’emergere di uno stato d’animo diverso, affaticato e dolente. Il ripiegamento malinconico matura durante il soggiorno napoletano (1892-1893), quando il poeta, psicologicamente provato dagli eccessi del periodo romano, percepisce un senso «di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità e di nostalgia». Messe da parte le esagerazioni di Andrea Sperelli, d’Annunzio, con tono blando, riconosce la «stanchezza della carne stanca» e decide di cercare la salvezza dello spirito nella rigenerazione e nel ritorno alle buone cose del passato: l’infanzia, la nutrice, la madre.

Nei romanzi di questo periodo (Giovanni Episcopo e L’innocente) troviamo un intimismo esasperato e un male di vivere che annebbia l’animo dei personaggi, facendoli ondeggiare fra tentazioni mistiche e fantasie incestuose. Nelle liriche del Poema paradisiaco lo stile che ricalca i modi del parlato vuole riecheggiare un’aspirazione a recuperare l’innocenza, motivo che ritroveremo presso alcuni poeti della nuova generazione primonovecentesca, i cosiddetti “Crepuscolari”.

Come capita sempre nella produzione dannunziana, e qui in modo particolare, occorre però fare attenzione a questa esibita ricerca di purezza. L’intento di rientrare in un paradiso di semplicità e di pace, in contrasto con il tumulto dei sensi in cui lo scrittore ha consumato la giovinezza, è infatti dichiarato con accenti retorici troppo scoperti per non rivelarne l’ambiguità: d’Annunzio in realtà è ben lontano dal rinunciare al proprio estetismo e alla propria abilità di sperimentatore di stili ed emozioni.
L’estetismo dannunziano, cioè, non entra davvero in crisi, ma introduce un’ulteriore aggiunta all’esplorazione dell’esistenza. Il tono elegiaco e l’atmosfera stanca e malinconica che si colgono in queste pagine non cancellano dunque il sospetto della falsità: il poeta è pronto di nuovo a cambiare maschera e, mentre recita un inno alla fratellanza e ai buoni sentimenti, sta già preparando il campo a una nuova versione di sé stesso, quella del superuomo, seguace (a modo suo) di Wagner e di Nietzsche.

Al cuore della letteratura - volume 5
Al cuore della letteratura - volume 5
Il secondo Ottocento