2 - Le opere

Il secondo Ottocento – L'autore: Gabriele d’Annunzio

cronache dal passato

La falsa morte di un poeta promettente

Una geniale trovata autopromozionale


Il successo ottenuto nel 1879 dal primo volume di liriche, Primo vere, ha fatto di d’Annunzio l’esordiente più ammirato d’Italia. Ora, però, a distanza di un anno, come ammoniscono le regole dello spettacolo, viene il difficile: non deludere le attese del pubblico. Il poeta lavora «con ferro e fuoco» alla revisione della raccolta, eliminando alcune poesie e aggiungendone altre. Il rischio, di cui è perfettamente consapevole, è quello di passare inosservato, ma la promozione di sé stesso fa già parte delle armi a disposizione del d’Annunzio diciassettenne. Da vero precursore dei meccanismi del marketing, egli escogita un’abile trovata per preparare il terreno alla sua nuova pubblicazione. Il 13 novembre del 1880 sulla “Gazzetta della Domenica” di Firenze compare un trafiletto, che commuove l’Italia: «Gabriele d’Annunzio, il giovane poeta già noto nella repubblica delle lettere, di cui si è parlato spesso nel nostro giornale, giorni addietro (5 novembre) sulla strada di Francavilla, cadendo da cavallo per improvviso mancamento di forze, restò morto sul colpo. Fra giorni doveva uscire la nuova edizione del suo Primo vere...».
La notizia rimbalza dappertutto e le maggiori testate letterarie italiane piangono «quest’ultimogenito delle Muse», «gioia dei suoi genitori, amore dei compagni, orgoglio dei maestri». Si tratta di lacrime inutili. Il poeta, infatti, firmandosi con il nome fasullo di G. Rutini, aveva fornito egli stesso con una cartolina la notizia della propria morte.
Mentre giungono da ogni parte a Pescara condoglianze sbigottite e decine di struggenti necrologi compaiono sulla stampa, d’Annunzio ricompare, come se nulla fosse successo, vivo e vegeto, qualche giorno dopo l’uscita della seconda edizione di Primo vere, che naturalmente, sull’onda dell’emozione, aveva riscosso un immediato successo. Il colpo da maestro della pubblicità è riuscito perfettamente.

2 Le opere

Le prime raccolte poetiche

La prima tappa della produzione dannunziana in versi è caratterizzata dalla fedeltà al modello carducciano, con elementi però ispirati alla poesia parnassiana e simbolista francese e inglese. Temi nuovi già si affacciano e suggeriscono l’originale personalità del giovane poeta, a partire da un’accentuata componente sensuale.

Primo vere

Pubblicata a sedici anni, nel 1879, la prima opera dannunziana viene salutata dalla critica del tempo come l’esordio di un ragazzo prodigio. La raccolta contiene motivi tratti dal repertorio realistico-scapigliato, ma soprattutto è evidente la matrice carducciana, sia per i temi sia per l’adozione della metrica barbara. Tuttavia la vocazione dell’ancora acerbo poeta si coglie nella spiccata sensualità della materia e nella sua resa musicale.

Canto novo

La seconda prova dannunziana, risalente al 1882, segna un primo distacco dall’influenza carducciana e l’acquisizione di una voce poetica più personale. La raccolta, ambientata tra i boschi d’Abruzzo e il mare, è il diario lirico di una vacanza estiva (un motivo che ricorrerà anche in Alcyone), vissuta con gioia vitalistica e con una forte carica erotica. Accanto alla sperimentazione di nuove soluzioni metriche – vi compare la strofa lunga, che troveremo nelle opere successive – si fa strada una languida ricerca di sensazioni in un’esuberante relazione con la natura.

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Intermezzo di rime, Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, L’Isottèo e La Chimera, Elegie romane

Si tratta di quattro raccolte – uscite rispettivamente nel 1884, 1886, 1890 e 1892 – scritte durante gli anni romani e che non a caso esprimono gli ideali aristocratici e raffinati tipici della capitale umbertina, esplicitati in prosa nel contemporaneo Il piacere. Sono testi in cui d’Annunzio sviluppa un gusto prezioso ed estetizzante che molti critici hanno assimilato alla poetica preraffaellita ► (di cui d’Annunzio amava particolarmente il massimo esponente, il pittore Dante Gabriel Rossetti). In tutte queste raccolte è inoltre rilevante la componente sensuale, che attira sul poeta l’accusa di immoralità.

Le prime prove narrative

Per quanto riguarda la prosa, prima dell’esordio nel romanzo d’Annunzio scrive una serie di raccolte di novelle, apparentemente di ispirazione verista.

Terra vergine, Il libro delle vergini, San Pantaleone

I 3 volumi di novelle – usciti rispettivamente nel 1882, 1884 e 1886 e poi ristampati, nel 1902, con qualche modifica, nella raccolta Le novelle della Pescara – presentano soprattutto storie paesane, personaggi, costumi e tradizioni popolari d’Abruzzo. L’ambientazione e la natura rozza dei protagonisti sottolineano l’influenza verista, ma l’autore si allontana dall’impersonalità verghiana. D’Annunzio infatti esalta la vitalità di quel mondo primitivo, rappresentando con evidente compiacimento un’umanità violenta e primordiale, malata di passioni animalesche e di sentimenti aggressivi, ma non ancora “corrotta” dal progresso e dalla civiltà.

Il piacere

Pubblicato nel 1889 (lo stesso anno di Mastro-don Gesualdo di Verga), il primo romanzo dannunziano può essere considerato uno dei manifesti del Decadentismo europeo, in cui confluisce soprattutto la lezione narrativa, tematica e ideologica dell’Estetismo, diffuso in Francia dal romanzo À rebours (Controcorrente, 1884) di Joris-Karl Huysmans ( ► p. 337). Diviso in 4 libri, Il piacere presenta una trama piuttosto semplice e povera di fatti, ma costruita sapientemente in modo non lineare, con una tecnica fatta di ellissi e flash back.
Il protagonista, Andrea Sperelli, alter ego dell’autore («è solo nobile e più alto di statura: nostalgie del piccolo, e borghese, d’Annunzio», annota maliziosamente il critico Elio Gioanola), ama due donne, la bellissima Elena Muti, che lo ha abbandonato per sposare un ricco lord inglese, e Maria Ferres, moglie di un ambasciatore, creatura dolce e spirituale, che finisce per cedere al suo corteggiamento. Diviso tra la voluttà dei sensi e una vaga aspirazione alla purezza, Andrea non dimentica però l’antico amore e, durante il primo (e ultimo) amplesso con Maria, invoca il nome di Elena. Maria, disgustata dall’«orribile sacrilegio», fugge via, lasciando l’uomo al proprio destino di solitudine.

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Nelle intenzioni di d’Annunzio, il romanzo doveva illustrare, secondo un’istanza ancora legata al Naturalismo, «la miseria del piacere», cioè il caso psicologico e umano di un uomo immorale e corrotto, un dandy ossessionato dalla ricerca della bellezza, ma incapace di tradurre in realtà le sue velleità creative. Nella prefazione, lo scrittore afferma di voler «studiare» (un verbo chiave dell’ispirazione verista) «tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e falsità e crudeltà vane». In realtà, superato qualsiasi intento moralistico, lo scrittore si immerge in questa amoralità, che contrappone al perbenismo e alla mediocrità della società borghese: in tal modo egli non rinuncia a simpatizzare per la brama di lusso e di lussuria di Sperelli.
Nel protagonista, d’Annunzio delinea la figura di un tipico esteta decadente, dotato di gusti raffinati, cultore del superfluo, desideroso di vivere ogni esperienza dei sensi, amante dell’arte e dei suoi canoni estetici, filtri attraverso i quali intende nobilitare la propria esistenza. Sperelli finisce dunque per essere l’incarnazione dell’artista, che contrasta la massificazione tipica della civiltà industriale rendendo morbosa ed esclusiva ogni sua passione: la musica, la pittura, lo sport, la seduzione femminile, soprattutto la poesia («Il verso è tutto»).
Al tempo stesso, tuttavia, Andrea non riesce a vincere il proprio ozio e la sottile inettitudine che lo avvincono frenando ogni sua intenzione. La sua esistenza di esteta fallito (nell’amore come in ogni altra aspirazione) ne mette a nudo il vuoto, il senso di nullità e l’incostanza che pervadono il suo carattere e la sua stessa vita.

A fare da sfondo alla vicenda è una Roma frivola e monumentale, cornice ideale di una mondanità aristocratica vacua e pretenziosa, come pretenziosa è la psiche del protagonista. Non si tratta della Roma classica né di quella rinascimentale, ma della Roma barocca dei palazzi nobiliari e dei salotti altolocati, che lo scrittore, nelle vesti del giornalista di costume, conosceva profondamente, nei gusti e nelle manie.
L’elegante capitale non si limita a essere un fondale con una funzione decorativa, ma è il luogo privilegiato delle fisime di Sperelli, che coglie dagli ambienti, dalla luce, dai marmi, dalle ville e dalle bellezze della città lo spunto per vivificare le proprie pulsioni estetizzanti e riveste ogni oggetto, ogni piazza, ogni palazzo di un valore letterario o artistico.

Questa estatica contemplazione si riverbera nello stile del romanzo, che presenta più descrizioni che fatti (ciò spiega perché il critico Giovanni Macchia abbia potuto parlare del Piacere come del «romanzo di una città»), mediante una prosa “sublime” e virtuosistica, carica di vibrazioni liriche, di riferimenti eruditi e di modulazioni preziose, che sostituiscono la realtà oggettiva con una trama seducente di immagini e sensazioni.

Le opere del periodo della «bontà»

Abbandonate le atmosfere sensuali del periodo romano, d’Annunzio si misura con motivi più intimistici, nel tentativo di recuperare l’innocenza e la sobrietà (la «bontà») perdute durante le avventure galanti e mondane nella capitale. In questa fase (1892-1893) lo scrittore soggiorna a Napoli dove scrive due romanzi e una raccolta poetica.

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Giovanni Episcopo e L’innocente

Pubblicati nel 1892, entrambi i romanzi sono incentrati sul motivo della colpa e del castigo, che d’Annunzio rielabora a partire dalla lettura dei capolavori russi di Lev Tolstoj e Fëdor Dostoevskij.

La svolta rispetto alle atmosfere estetizzanti del Piacere è introdotta dall’autore nella dedica del Giovanni Episcopo alla scrittrice e giornalista Matilde Serao, in cui sottolinea l’esigenza di una maggiore aderenza alla realtà: «Bisogna studiare gli uomini e le cose direttamente, senza trasposizione alcuna». Il protagonista, il modesto impiegato che dà il titolo al romanzo, è succube di Giulio Wanzer, un collega che gli infligge le peggiori crudeltà, arrivando anche a sedurre sua moglie. Quando però l’uomo si spinge fino a picchiare il figlio di Giovanni, questi, come colto da un raptus che lo libera dall’apatia, lo pugnala a morte.

Anche L’innocente è la storia di un delitto, che il protagonista, Tullio Hermil, confessa un anno dopo il suo compimento. L’uomo è un intellettuale dissoluto, sposato con Giuliana, che costringe a umiliazioni continue. Quando la moglie però sta per dare alla luce un bambino, frutto dell’unico tradimento di cui si è macchiata, Tullio si riavvicina a lei, come per un bisogno di autopunizione e purificazione. Dopo il parto, egli concepisce e mette in pratica un terribile disegno: uccidere il bambino, esponendolo al gelo nella notte di Natale. Solo in tal modo egli è convinto di poter ripristinare il rapporto con la moglie. L’infanticidio avviene infatti con la complicità di Giuliana, che accetta silenziosamente la morte del piccolo “innocente”, intruso suo malgrado all’interno di un amore malato.

Poema paradisiaco

La raccolta, edita nel 1893, è divisa in 3 sezioni: Hortus conclusus (Giardino chiuso), Hortus larvarum (Giardino delle larve) e Hortulus animae (Piccolo giardino dell’anima). Il tema del giardino (richiamato già dal titolo: paràdeisos in greco significa appunto “giardino”) allude al ritorno alla natura e alla purezza degli affetti semplici, ricercati in questa fase dal poeta.

Tale anelito alla semplicità si risolve in toni estenuati, che lasciano pur sempre intravedere un certo compiacimento estetizzante. Tuttavia, l’atmosfera di raccoglimento e nostalgia che si respira nella raccolta e le scelte stilistiche adottate – ossia una sintassi espressiva quasi cantilenante e un lessico languido, reso malinconicamente musicale dalle ripetizioni e dalle assonanze – piacerà ai poeti crepuscolari del primo Novecento, che ne riprodurranno tematiche e suggestioni.

I romanzi del superuomo

Individui eccezionali, volontà di potenza, amori torbidi, fallimenti esistenziali: questi i temi che accomunano i romanzi dannunziani scritti dopo Il piacere. Le trame si assottigliano sempre di più, lasciando maggiore spazio a descrizioni, riflessioni introspettive, ossessioni psicologiche di protagonisti che incarnano l’ideologia superomistica dell’autore, convinti come sono di appartenere a una specie superiore di individui capaci di dominare la realtà, ma che si rivelano poi incapaci di tradurre concretamente in azione gli ideali e le fantasie di cui sono portatori.

Trionfo della morte

Protagonista di questo romanzo, uscito nel 1894, è Giorgio Aurispa, un esteta abruzzese ma trapiantato a Roma, le cui velleità e ambizioni sono messe a dura prova dall’amore prepotente per una donna sposata, Ippolita Sanzio. Debole, malato e inconcludente, Aurispa sente a poco a poco che la schiavitù dei sensi, da cui è dolorosamente avvinto, si sta trasformando in una cupa volontà di morte. La conclusione della vicenda non può che essere tragica: come in una sorta di delirio passionale, Aurispa si uccide insieme alla donna gettandosi dall’alto di una scogliera mentre la tiene tra le braccia.

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Considerato dal critico Carlo Salinari «il manifesto sessuale» del superuomo dannunziano, il Trionfo della morte presenta alcuni degli stereotipi della volontà di potenza celebrata dall’autore: il desiderio di autoaffermazione, l’estraneità alla morale comune, l’insofferenza per ogni norma costituita, lo stesso rituale dell’omicidio-suicidio come espressione di un estremo atto di vitalismo. Tuttavia, il temperamento e il fallimento del protagonista anticipano anche il tema dell’inettitudine, che sarà ripreso, con maggiore consapevolezza critica, da autori quali Franz Kafka e Italo Svevo.

Le vergini delle rocce

In quest’opera, uscita nel 1895, d’Annunzio narra la vicenda di un nobile abruzzese, Claudio Cantelmo, che cerca una donna con cui concepire un figlio che riscatti la decadenza della stirpe italica. Il protagonista rimane a lungo incerto fra tre sorelle – ultime discendenti di una famiglia della vecchia nobiltà borbonica, in un luogo imprecisato della Sicilia –, ciascuna delle quali presenta alcune delle caratteristiche che egli cerca. Cantelmo però non sa decidersi e il romanzo rimane incompiuto, come a sottolineare implicitamente il fallimento del superuomo.

Il fuoco

Stelio Effrena, il protagonista di questo romanzo pubblicato nel 1900, è un poeta e musicista che, suggestionato dalle idee di un maestro del Decadentismo, Richard Wagner, sogna di creare un’opera d’arte totale. Sullo sfondo di una Venezia autunnale e decadente, Stelio intravede in una splendida ma non più giovane attrice, la Foscarina, la musa per realizzare le proprie ambizioni. Tra i due amanti (sotto i cui nomi si celano le figure di d’Annunzio e di Eleonora Duse) l’intesa è destinata presto a sfiorire, insidiata da una giovane cantante, nuova fonte di ispirazione per Stelio. La Foscarina allora, cosciente del venir meno della propria bellezza, si sacrifica rinunciando a lui e lasciandolo libero di sperimentare altri sentieri artistici. Ma i progetti ambiziosi di Stelio sono destinati a non realizzarsi: i funerali di Wagner segnano anche simbolicamente la fine delle sue velleità.

Forse che sì forse che no

In questo romanzo del 1910, legato ai nuovi miti del progresso tecnologico (la velocità, l’automobile, l’aeroplano) celebrati dal nascente Futurismo, il superuomo prende le fattezze di un aviatore, Paolo Tarsis, che, dopo aver saputo che la donna amata, Isabella, è impazzita, forse in seguito a una relazione incestuosa con il fratello, tenta quale sfida estrema l’audace impresa di raggiungere in volo dal Lazio le coste della Sardegna. Nella rischiosa trasvolata, Paolo è convinto di perdere la vita, ma non sarà così: vinta la sfida eroica, saprà riconquistare la voglia di vivere.

Le Laudi

Con il titolo Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi d’Annunzio concepisce un ciclo di 7 libri poetici intitolati agli astri della costellazione delle Pleiadi. In realtà ne compone solo 5: al terzo, Alcyone, considerato dalla critica il suo capolavoro, è dedicato un approfondimento specifico nella seconda parte di questa Unità ( ► p. 516).

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Maia

Il primo libro delle Laudi è ispirato a un viaggio compiuto da d’Annunzio nel 1895: una crociera lungo le coste della Grecia, che nel 1903 il poeta rievoca e trasfigura su un piano mitico e ideale, lontano da ogni riferimento alla realtà (nel frattempo sono stati composti Elettra e Alcyone, che però vengono posposti a Maia nell’ordinamento della raccolta).

Il libro è occupato interamente da Laus vitae (Inno alla vita), un poema autobiografico di 8400 versi in cui d’Annunzio riprende il mito di Ulisse, incarnazione del superuomo che si slancia oltre i limiti umani. Il tono complessivo del poema è anticipato già nel titolo: febbrile, retorico e consacrato appunto alla gioia entusiastica di una vita vissuta eroicamente, alla ricerca della pienezza dell’essere e della felicità.
Oltre alla Grecia classica, nel dipanarsi dell’opera il poeta tocca altre tappe: l’Agro romano, la Cappella Sistina e infine il deserto, dove lontano dalla massa può vivere un’estasi solitaria non turbata dal dolore e dalle preoccupazioni terrene.

Elettra

Nel secondo libro delle Laudi, pubblicato nel 1903, a conquistare la scena poetica al posto del mito sono l’oratoria e la propaganda politica. Da aspirante vate della nazione, d’Annunzio celebra il passato popolato da eroi da emulare (da Dante a Garibaldi), al quale contrappone la miseria del tempo presente. Una sezione rilevante del libro è dedicata alle cosiddette «Città del silenzio» (Ferrara, Pisa, Ravenna, Urbino...), luoghi dove l’eco non ancora spenta del glorioso passato è presagio di un futuro nuovamente illuminato dalla forza e dalla bellezza.

Merope e Asterope

Gli ultimi due libri delle Laudi, pubblicati rispettivamente nel 1912 e nel 1933, testimoniano l’inaridirsi della vena poetica di d’Annunzio, ridotta alla roboante celebrazione della retorica nazionalista: Merope raccoglie i versi scritti in terzine dantesche in occasione dell’impresa coloniale in Libia, editi per la prima volta sul “Corriere della Sera” con il titolo Le canzoni della gesta d’oltremare; Asterope raduna invece le poesie composte durante la Prima guerra mondiale (intitolate in origine Canti della guerra latina).

Le ultime opere

Una nuova forma di prosa, più asciutta e meno celebrativa, caratterizza l’ultima stagione della produzione dannunziana. Si tratta di opere in cui la monumentalità oratoria si stempera nella sottile musicalità e nell’ansiosa percezione dell’avvicinarsi della morte. Concepito come una sorta di testamento spirituale, l’insieme di questi componimenti – dalla Contemplazione della morte al Venturiero senza ventura, dal Compagno dagli occhi senza cigli fino al Libro segreto – documenta le pulsioni più autentiche dell’interiorità del poeta, diventata più istintiva e immediata. Tuttavia, la prosa dannunziana degli ultimi anni non vuole rinunciare affatto alla preziosità, alla tensione sublime e ai consueti scatti superomistici. Non a caso l’autore, nel momento in cui sta per pubblicare all’interno dell’Edizione Nazionale delle sue opere questi testi, che sono memorie, introspezioni e meditazioni, dà loro il titolo, non certo dimesso, di Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni.

 >> pag. 489 
La Leda senza cigno

Si tratta di un racconto lungo (o romanzo breve), edito nel 1916, su una figura femminile bella e misteriosa – che ricorda al narratore una statua della donna trasformata in cigno da Zeus (di qui il titolo) – la quale vive una torbida e tragica esistenza, dalla rovina economica del padre a un fatale incontro con un uomo che la ricatta fino a costringerla al suicidio. La smilza struttura dell’intreccio costituisce però il pretesto per un susseguirsi di riflessioni e divagazioni, con un linguaggio talora privo di orpelli.

Le faville del maglio

Con questo titolo vengono raccolte in due volumi distinti, Il venturiero senza ventura (1924) e Il compagno dagli occhi senza cigli (1928), le prose pubblicate dal poeta sul “Corriere della Sera” tra il 1911 e il 1914. Il titolo allude alle scintille provocate dai colpi del martello sul metallo incandescente, metafora della creazione nell’“officina” poetica. I brani hanno una chiara impronta autobiografica: rapide annotazioni, ricordi e confessioni, concentrate sull’autoanalisi psicologica. In questi abbozzi descrittivi e antinarrativi le pose dell’eroe inimitabile si attenuano a contatto con una disposizione più riflessiva, non priva di una sottile vena di angoscia.

Notturno

Come accennato, un incidente aereo, subìto nel gennaio 1916 al termine di uno dei suoi voli di guerra, costringe per tre mesi d’Annunzio a stare immobile e con gli occhi bendati per salvare l’occhio sinistro. In questa situazione il poeta scrive una serie di pensieri, ricordi, descrizioni e visioni su migliaia di strisce di carta (i cosiddetti «cartigli») che la figlia Renata, ribattezzata affettuosamente «la Sirenetta», ritaglia per lui. L’opera, composta a Venezia dal febbraio al maggio del 1916, viene pubblicata nel 1921 e pubblicizzata come il «commentario della tenebra».

In effetti, dal punto di vista tematico, le impressioni che si accumulano nel testo sono legate alla descrizione sofferente di ferite, incidenti, traumi e morti, senza più traccia di proclami universali e roboanti slogan oratori. L’angoscia che vi domina viene resa attraverso il prevalere di percezioni sensoriali e notazioni talvolta perfino macabre sul disfacimento dei corpi e della carne. La sensualità è sempre presente in sottofondo ma, venuta meno la prorompente e giovanilistica ostentazione dei primi libri delle Laudi, ora spesso diventa allusione morbosa e sofferta, incupita dall’incombere della «turpe vecchiezza» che priva il poeta di energia e vitalità.

Anche lo stile contribuisce ad accrescere l’atmosfera mortuaria di queste pagine: frammentario, paratattico, ridotto a un’essenzialità quasi espressionistica, articolato in frasi concise, spezzate dalla frequenza sistematica dei segni di interpunzione. Il carattere meditativo e intimo della materia si esplicita nell’allusività del lessico e in una sintassi scarna e spesso nominale, che riproduce la scrittura istantanea dei taccuini. Come in un diario a cui affidare illuminazioni fugaci, la pagina dannunziana si abbandona qui al flusso delle esperienze, in una successione quasi irreale di attimi fuori del tempo, secondo una modalità che eserciterà un influsso decisivo sui letterati della rivista “La Voce” (come Giovanni Boine, Camillo Sbarbaro, Piero Jahier ecc.). L’asciutta prosa del Notturno è però, al tempo stesso, soffusa di ritmo lirico: anche se scarna per la brevità delle immagini, si arricchisce di enigmatiche «fosforescenze» (il termine è dannunziano), cioè di bagliori improvvisi, ardite analogie e pause musicali.

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Il teatro

La volontà di raggiungere più direttamente il pubblico e il sodalizio con Eleonora Duse, che gli garantisce la collaborazione di una diva d’eccezione, spingono d’Annunzio sin dagli ultimi anni dell’Ottocento a dedicarsi anche a una produzione destinata al teatro.

Con il proposito di realizzare un teatro in versi (un «teatro di poesia»), lontano dal dramma borghese realistico che in quegli anni metteva in scena vicende della normale vita quotidiana, lo scrittore aspira, secondo la teoria wagneriana, a fondere recitazione, musica e danza, rinnovando la tradizione della tragedia greca.
Amore, morte, pulsioni superomistiche e passioni logoranti vengono rappresentati in ambientazioni diverse: nell’Argolide presso le rovine di Micene (La città morta, 1898), nel mondo medievale (Francesca da Rimini, 1901; La nave, 1908) o in quello del selvaggio Abruzzo pastorale (La figlia di Iorio, 1904, probabilmente l’opera teatrale meglio riuscita).

Nella Figlia di Iorio si torna al contesto delle novelle giovanili: entro un universo umano agreste e primitivo, attraversato da credenze e superstizioni, l’autore mette in scena la tragica vicenda di Mila di Codra, destinata a morire sul rogo poiché si autoaccusa di essere una strega e di aver istigato l’amato Aligi a uccidere il padre Lazaro che aveva cercato di violentarla. La tematica e l’ambientazione conferiscono all’opera tratti veristi, ma lo stile del testo è lontano dal linguaggio comune, del tutto immune da ogni volontà di regressione popolaresca: il registro è sempre alto e il lessico enfatico e retorico.

La scrittura per il teatro occupa d’Annunzio anche dopo la fine della sua relazione con Eleonora Duse. Significativa è soprattutto una tragedia composta durante l’“esilio” francese, nell’antica lingua d’oïl: Le martyre de Saint Sébastien, pubblicata nel 1911, sarà musicata da Claude Debussy e interpretata dalla grande danzatrice russa Ida Rubinstein.

invito ALL'ASCOLTO

Claude Debussy Le martyre de Saint Sébastien

Nonostante l’insuccesso al debutto parigino – secondo i critici dovuto probabilmente alla vastità dell’opera (oltre 4000 versi e quasi 5 ore di rappresentazione), alla molteplicità dei codici utilizzati da Debussy e d’Annunzio e alla non convenzionalità delle scelte complessivamente da essi condotte – Le martyre da Saint Sébastien è oggi considerato un capolavoro, in particolare grazie alle esecuzioni posteriori che hanno scelto di valorizzarne la partitura sfrondando il soverchiante testo dannunziano e lasciando così emergere «il Debussy più vero: in talune atmosfere liquescenti, nell’assottigliamento dell’enorme Guardate il bell’adolescente coricato nella porpora del sangue. Date i balsami e l’incenso! Donne, piangete! Adone! orchestra in timbri puri […] nelle meravigliose armonie “parsifaliane” che isolano i momenti sacrificali nella vicenda del Santo» (Colombo).

Al cuore della letteratura - volume 5
Al cuore della letteratura - volume 5
Il secondo Ottocento