Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Pascoli

LETTURE critiche

Determinato e indeterminato nella poesia pascoliana

di Gianfranco Contini

In un saggio del 1955, Il linguaggio di Pascoli (poi raccolto nel volume Varianti e altra linguistica, 1970), il filologo Gianfranco Contini (1912-1990) analizza il carattere peculiare della determinatezza linguistica tipica di Pascoli, cioè della predilezione del poeta per vocaboli specifici e a volte addirittura tecnici. Tale determinatezza diventa poetica nella misura in cui si relaziona dialetticamente a «un fondo di indeterminatezza» che nella poesia pascoliana non viene mai meno. In altre parole, Contini dimostra che Pascoli ha cercato di comporre il divario tra realismo ed evocatività del mezzo espressivo rompendo «la frontiera tra determinato e indeterminato».

Il Pascoli proverbiale è il Pascoli delle cose umili, delle cose che stanno non sopra, ma sotto la linea dell’attenzione tradizionale, di quel microcosmo che del resto equivale in dignità al macrocosmo per l’indifferenza ed equidistanza pascoliana verso terra e cielo, verme e astro: così che si delinea, specialmente verso la fine dell’opera pascoliana, una conversione della poesia minutamente impressionistica in poesia cosmica. Questa attenzione alle cose situate sotto la linea tradizionale, famiglia di cose che non erano state ancora ammesse nella corte della poesia, si deve qualificare immediatamente per scrupolo di precisione. È perciò quell’esattezza nomenclatoria, quella copia1 di linguaggio tecnico che si è rilevata. Ma si tratta veramente di determinatezza? Ecco una domanda alla quale, appena la si pone, sembrerebbe di dover rispondere con l’affermativa: Pascoli perlomeno intese che a questa domanda si dovesse rispondere sì. C’è un passo famoso in cui egli compara, collaziona,2 mentalmente il suo ideale linguistico con la pratica leopardiana. «Un mazzolin di rose e di viole»: ma queste rose e queste viole, si chiede Pascoli, esistevano, esistevano concretamente, determinatamente, esistevano, diciamo pure, botanicamente?
«Ora il Leopardi – scrive Pascoli – il Leopardi questo “mazzolin di rose e di viole” non lo vide quella sera; vide sì un mazzolino di fiori, ma non ci ha detto quali; e sarebbe stato bene farcelo sapere, e dire con ciò più precisamente che col cenno del fascio dell’erba quale stagione era quella dell’anno. No: non ci ha detto quali fiori erano quelli, perché io sospetto che quelle rose e viole non siano se non un tropo,3 e non valgano, sebbene speciali, se non a significare una cosa generica: fiori. E io sentiva4 che, in poesia così nuova, il Poeta così nuovo cadeva in un errore tanto comune della poesia italiana anteriore a lui: l’errore dell’indeterminatezza, per la quale, a modo d’esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi col nome di alberi, i giacinti e i rosolacci con quello di fiori, le capinere e i falchetti con quello di uccelli. Errore d’indeterminatezza che si alterna con l’altro del falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose o viole […], tutti gli uccelli a usignuolo. Ma non erano usignuoli», eccetera. […]
Dunque, Pascoli non vuole essere indeterminato, e relativamente al punto di vista dell’albero di Porfirio5 appaiono nella sua poesia cose determinatissime. Tuttavia occorre cautela innanzi a questa speciosa6 apparenza. Innanzi tutto, una riserva di carattere generale: c’è una precisione, nella poesia di Pascoli, che è una precisione illusiva e che in realtà non è icasticità7 ma insinuazione linguistica […].
La determinatezza di Pascoli si accampa sempre sopra un fondo di indeterminatezza che la giustifica dialetticamente. Si ricordava poco fa la presentazione di Myricae, con gli uccellini, i cipressi, le campane (o meglio la loro riduzione fenomenica a pura sensazione, «frulli d’uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane»), che emergono da un fondo, per così dire, di effusione psicologica. O pensate a una poesia che può essere perfettamente citata come allegoria generale del mondo poetico pascoliano: pensate a Nebbia.8 Qui sopra un fondo di fumo o di bruma vedete emergere dei primi piani, precisamente dei primi piani in senso cinematografico, una siepe, una mura, due (due di numero) peschi, e ancora (sempre numerabili) due meli, un cipresso. Ma dei primi piani non si giustificano se non in rapporto a un fondo, a un orizzonte, il quale esso è indeterminato, cioè a dire, per definizione, non se ne sentono e non se ne rappresentano attualmente i limiti: questi oggetti determinatissimi e computabili si situano sopra uno sfondo effuso. E che il fondo generale sia effuso e diffusivo, alta imprecisione qui condizionata da un’alta precisione, è questo un dato che ricollega Pascoli al maggior laboratorio simbolistico.


Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970

 >> pag. 468 

Pascoli primo poeta del Novecento

di Arnaldo Colasanti

Nonostante gli evidenti legami con la tradizione, Pascoli appare al critico Arnaldo Colasanti (n. 1957) come il primo grande poeta del Novecento. Lavorando in profondità, egli offre una poesia intimamente nuova, concepita come scavo interiore e ricerca di senso. Il brano che riportiamo è parte dell’Introduzione all’edizione completa delle poesie di Pascoli curata da Colasanti nel 2001.

Sarà pure solo a causa di una cattiva abitudine, ma quell’idea incrostata – il fatto che Myricae sia un’opera fin de siècle lungo la fossa tra Otto e Novecento – non ha davvero più ragion d’essere. Myricae è un libro del nostro tempo. Giovanni Pascoli è il cuore della poesia del Novecento: solo un tic nervoso (il solito vizio italiano, appreso sotto i banchi del nostro provincialismo) ha finito per liquidare la raccolta in un sintomo d’epoca (il decadentismo), esaltandone ambiguamente la novità ma, già in questo, il semplice carattere di opera di passaggio. L’abbiamo sentito tante volte (e letto nei modesti manuali delle scuole italiane): la letteratura italiana è minore rispetto alle culture della modernità, ovviamente Francia, Inghilterra e Germania; ergo i poeti di un certo rilievo sono coloro che prima fiutano il nuovo vento, poi orecchiano qua e là; infine testimoniano, e drammaticamente, il gap storico, l’endemico ritardo – il solito destino italiano rispetto al mito della modernità.
Così va il mondo. La tragedia demente della nostra nazione: sospettare, screditare, punirsi; alla fine – visto che non c’è di meglio da fare – autopunirsi. […]
Il problema vero, tuttavia, è ancora la ricezione: è l’impasse in cui ci imbattiamo quando pensiamo a Pascoli fra Otto e Novecento, quando automaticamente lo releghiamo ad un sintomo linguistico, voglio dire ad una crisi della cultura (la paralisi di una tradizione còlta nel suo finire, cioè nell’inconsapevolezza del suo essere già una tradizione del nuovo).
Eppure non ci sarebbe difficile compiere dei gesti semplici. Innanzi tutto cominciare a credere, e senza feticismi, nell’oggettività delle date. Siamo sicuri che il massimo della sua frenetica produzione (i «suoi anni di galera», per usare l’autodefinizione di un altro grande amato/odiato italiano, Giuseppe Verdi) sia un fatto ottocentesco e decadente e non coincida piuttosto, anche per i registri dell’anagrafe, con il primo decennio del nuovo secolo? Siamo seri e facciamo i conti della spesa. Myricae, tutti lo sanno, è del 1891, solo dieci anni dopo I Malavoglia. D’accordo. Ma ciò che leggiamo è davvero il sommario di questa edizione? Non sia mai. La raccolta del 1891, in realtà, è composta di soli 22 testi; per arrivare all’indice definitivo dobbiamo aspettare altri nove anni, cioè la quinta edizione, datata appunto 1900 (e qui un ghigno), con i suoi 156 testi. Insomma, anche preso in termini tanto semplici e schematici vorremmo […] che la filologia si comporti come sempre, sia la ragazza bella che non delude mai, che sposi, dunque, il suo Mercurio, l’Eloquenza, il miglior partito del paese, voglio dire la Critica.
Pascoli è la luce del Novecento italiano. Traghettiamolo via dalla palude decadente, dai meccanismi idioti di antico e moderno, dal novecentismo1 (velo di Maia2 del Novecento!) che ha reso asfittico il rapporto creativo (e mai accademico-storicistico) di tradizione e sperimentazione – la sagoma dell’ideologia piccolo borghese italiana, minore e minorata, un po’ servile e tuttofare, appunto perché sempre lì, in maniche di camicia, a perpetrare il fratricidio delle generazioni, la ricerca del nuovo come punizione, dileggio, scarto dal vecchio. A noi, in realtà, interessa una cosa sola: capire come la poesia tocchi e conosca il Senso. Giovanni Pascoli diventa la prova documentale più importante. La poesia italiana moderna può essere un’esperienza vera, senza infingimenti e illusioni; può offrirsi come una scommessa reale di spiritualità, di superiorità, di apertura al senso. Giovanni Pascoli è uno straordinario mondo poetico: la sua lingua (il sogno di una lingua anonima, insieme italiana e latina, come dire invischiata nel tempo ma superiore, mai limitata dal tempo), la sua lingua lega la parola al mistero e la ricerca della verità alle verità che non si cercano, né si trovano e che forse si nascondono. È questo tondo perfetto – la luce nell’ombra, il compasso, il sentimento, l’ostinato rigore dell’assenza; il rovello mistico della poesia –, è questo puro presente dell’espressione il segno più concreto che dichiara il capolavoro letterario. Abbiamo letto Pascoli, giorno dopo giorno, e vissuto così una grande esperienza umana e intellettuale: abbiamo confessato a noi stessi, ancora una volta, che la poesia è e rimane la più alta educazione alla vita. […]


Arnaldo Colasanti, Introduzione a Giovanni Pascoli, Tutte le poesie, Newton Compton, Roma 2001

Al cuore della letteratura - volume 5
Al cuore della letteratura - volume 5
Il secondo Ottocento