Sarà pure solo a causa di una cattiva abitudine, ma quell’idea incrostata – il fatto che Myricae sia un’opera fin de siècle lungo la fossa tra Otto e Novecento – non ha davvero più ragion d’essere. Myricae è un libro del nostro tempo. Giovanni Pascoli è il cuore della poesia del Novecento: solo un tic nervoso (il solito vizio italiano, appreso sotto i banchi del nostro provincialismo) ha finito per liquidare la raccolta in un sintomo d’epoca (il decadentismo), esaltandone ambiguamente la novità ma, già in questo, il semplice carattere di opera di passaggio. L’abbiamo sentito tante volte (e letto nei modesti manuali delle scuole italiane): la letteratura italiana è minore rispetto alle culture della modernità, ovviamente Francia, Inghilterra e Germania; ergo i poeti di un certo rilievo sono coloro che prima fiutano il nuovo vento, poi orecchiano qua e là; infine testimoniano, e drammaticamente, il gap storico, l’endemico ritardo – il solito destino italiano rispetto al mito della modernità.
Così va il mondo. La tragedia demente della nostra nazione: sospettare, screditare, punirsi; alla fine – visto che non c’è di meglio da fare – autopunirsi. […]
Il problema vero, tuttavia, è ancora la ricezione: è l’impasse in cui ci imbattiamo quando pensiamo a Pascoli fra Otto e Novecento, quando automaticamente lo releghiamo ad un sintomo linguistico, voglio dire ad una crisi della cultura (la paralisi di una tradizione còlta nel suo finire, cioè nell’inconsapevolezza del suo essere già una tradizione del nuovo).
Eppure non ci sarebbe difficile compiere dei gesti semplici. Innanzi tutto cominciare a credere, e senza feticismi, nell’oggettività delle date. Siamo sicuri che il massimo della sua frenetica produzione (i «suoi anni di galera», per usare l’autodefinizione di un altro grande amato/odiato italiano, Giuseppe Verdi) sia un fatto ottocentesco e decadente e non coincida piuttosto, anche per i registri dell’anagrafe, con il primo decennio del nuovo secolo? Siamo seri e facciamo i conti della spesa. Myricae, tutti lo sanno, è del 1891, solo dieci anni dopo I Malavoglia. D’accordo. Ma ciò che leggiamo è davvero il sommario di questa edizione? Non sia mai. La raccolta del 1891, in realtà, è composta di soli 22 testi; per arrivare all’indice definitivo dobbiamo aspettare altri nove anni, cioè la quinta edizione, datata appunto 1900 (e qui un ghigno), con i suoi 156 testi. Insomma, anche preso in termini tanto semplici e schematici vorremmo […] che la filologia si comporti come sempre, sia la ragazza bella che non delude mai, che sposi, dunque, il suo Mercurio, l’Eloquenza, il miglior partito del paese, voglio dire la Critica.
Pascoli è la luce del Novecento italiano. Traghettiamolo via dalla palude decadente, dai meccanismi idioti di antico e moderno, dal novecentismo1 (velo di Maia2 del Novecento!) che ha reso asfittico il rapporto creativo (e mai accademico-storicistico) di tradizione e sperimentazione – la sagoma dell’ideologia piccolo borghese italiana, minore e minorata, un po’ servile e tuttofare, appunto perché sempre lì, in maniche di camicia, a perpetrare il fratricidio delle generazioni, la ricerca del nuovo come punizione, dileggio, scarto dal vecchio. A noi, in realtà, interessa una cosa sola: capire come la poesia tocchi e conosca il Senso. Giovanni Pascoli diventa la prova documentale più importante. La poesia italiana moderna può essere un’esperienza vera, senza infingimenti e illusioni; può offrirsi come una scommessa reale di spiritualità, di superiorità, di apertura al senso. Giovanni Pascoli è uno straordinario mondo poetico: la sua lingua (il sogno di una lingua anonima, insieme italiana e latina, come dire invischiata nel tempo ma superiore, mai limitata dal tempo), la sua lingua lega la parola al mistero e la ricerca della verità alle verità che non si cercano, né si trovano e che forse si nascondono. È questo tondo perfetto – la luce nell’ombra, il compasso, il sentimento, l’ostinato rigore dell’assenza; il rovello mistico della poesia –, è questo puro presente dell’espressione il segno più concreto che dichiara il capolavoro letterario. Abbiamo letto Pascoli, giorno dopo giorno, e vissuto così una grande esperienza umana e intellettuale: abbiamo confessato a noi stessi, ancora una volta, che la poesia è e rimane la più alta educazione alla vita. […]
Arnaldo Colasanti, Introduzione a Giovanni Pascoli, Tutte le poesie, Newton Compton, Roma 2001