2 - Le opere

Il secondo Ottocento – L'autore: Giosuè Carducci

2 Le opere

La poesia

Dopo il volumetto Rime, edito nel 1857, dedicato significativamente a Giacomo Leopardi e a Pietro Giordani quali maestri del classicismo ottocentesco, Carducci pubblica sei raccolte liriche.

Juvenilia

Questa prima raccolta (“Cose giovanili”, in latino) riunisce 100 poesie scritte tra il 1850 e il 1860, a imitazione dei modelli classicistici, secondo i dettami condivisi con il cenacolo degli Amici pedanti. Si tratta di un’opera ancora acerba, appesantita da citazioni libresche e da un troppo facile sfoggio di erudizione, ma già si annuncia il vibrante temperamento del poeta, che si scaglia contro la moda tardoromantica e i luoghi comuni della poesia dell’Ottocento.

Levia gravia

Il titolo di questa silloge, comprendente 30 poesie composte tra il 1861 e il 1871 e firmate con lo pseudonimo di Enotrio Romano, evidenzia la commistione di “argomenti leggeri” («per sentimento e per stile», scrive il poeta) e “argomenti gravi”.

Tema centrale e motivo ispiratore è comunque il rapporto diretto con la contemporaneità: attestatosi su posizioni repubblicane, Carducci si scaglia con aspra tensione civile contro l’«Italietta» mediocre e conservatrice, abbracciando – anche grazie all’influenza di pensatori e letterati europei come i francesi Jules Michelet, Pierre-Joseph Proudhon, Victor Hugo e il tedesco Heinrich Heine – un’ideologia libertaria, investita da un rabbioso spirito anticlericale e anticristiano.

Giambi ed epodi

Composta di 32 poesie, scritte tra il 1867 e il 1879, la raccolta contiene nel titolo un omaggio al poeta greco Archiloco e al latino Orazio: il primo autore di giambi ►  caratterizzati da toni di aspra invettiva, il secondo maestro dell’epodo ►  e più in generale della sperimentazione metrica. Carducci annuncia nel Prologo il suo “programma di battaglia”, rivolto alla «guasta età» in cui è costretto a vivere: «Tutto che questo mondo falso adora / co ’l verso audace lo schiaffeggerò» (vv. 25-26).

 >> pag. 47 

I bersagli, colpiti con sarcasmo e non senza cadute nell’imprecazione, sono disparati: il potere temporale del papa, che rappresenta un ostacolo al compimento dell’unificazione italiana; la vigliaccheria rinunciataria dei politici al governo, che hanno tradito l’eredità delle idee risorgimentali (rievocate con dolente nostalgia); l’ipocrisia e la corruzione che imperversano nella vita e nel costume della società italiana.
Carducci afferma così il suo ideale di poeta impegnato, non chiuso nella torre d’avorio dei propri sogni, ma calato nella dimensione reale che di quei sogni rappresenta l’antitesi. La raccolta si chiude però con il Canto dell’amore, in cui l’autore preannuncia un cambiamento di registro, con il venir meno della violenza polemica e il distendersi di un’ispirazione più composta e matura.

Rime nuove

Nel 1887 Carducci assembla nelle Rime nuove 105 liriche divise in 9 sezioni, composte nell’arco di più di un ventennio (dal 1861 al 1887), nelle quali emergono la sua dolente vicenda personale, il bisogno di ripiegamento interiore, l’intimo travaglio di uno spirito malinconico. Come in una sorta di autoesilio dalla realtà, il poeta devia verso l’ideale di un’arte pura, tesa al raggiungimento dell’equilibrio morale ed estetico dell’amato classicismo.
Nelle poesie della raccolta non mancano i richiami alla situazione storica dell’epoca né le rievocazioni storiche (la Grecia classica, il Medioevo comunale, la Francia rivoluzionaria cantata nei sonetti del ciclo Ça ira, titolo ripreso da un inno giacobino), ma tali motivi sembrano affievolirsi a contatto con le esperienze vissute dal poeta (Davanti San Guido, ► T5, p. 67; Pianto antico, ► T3, p. 60), che si apre al ricordo, al sentimento della nostalgia, al vagheggiamento del paesaggio (San Martino, ► T4, p. 64), specie quello della giovinezza, e alla pungente coscienza della morte.

Odi barbare

Considerate come la più significativa espressione del classicismo carducciano, le Odi barbare prendono il nome dall’esperimento metrico messo in atto dall’autore. Nelle 50 poesie della raccolta (la cui edizione definitiva risale al 1893), Carducci cerca di riprodurre la metrica quantitativa latina, basata sulla distinzione fra sillabe lunghe e brevi, attraverso quella accentuativa italiana, in cui il verso è scandito dagli accenti ritmici. A giudizio dell’autore, il risultato di questo esperimento rende le odi “barbare”, «perché tali sonerebbero agli orecchi e al giudizio dei greci e dei romani, se bene volute comporre nelle forme metriche della loro lirica, e poiché tali soneranno pur troppo a moltissimi italiani, se bene composte e armonizzate di versi e di accenti italiani».

L’ispirazione classicistica della raccolta non si limita a questo ingegnoso aspetto formale, ma si estende a quello tematico: troviamo infatti in molti componimenti la celebrazione del periodo romano e medievale (in testi quali Dinanzi alle terme di Caracalla o Nella piazza di San Petronio) e le consuete memorie storiche.
Altre liriche invece confermano la tendenza al chiaroscuro, tipica della poesia carducciana: prevale da un lato la solarità di immagini, con cui viene resa e rivissuta l’epoca pagana; dall’altro la cupezza che contraddistingue la meditazione sulla morte e un dolente ripiegamento psicologico (Nevicata; Alla stazione in una mattina d’autunno, ► T6, p. 74).

In queste Odi si possono cogliere i tipici aspetti formali propri della poesia di Carducci, l’ultimo grande autore italiano ad avere esplorato in tutta la loro ampiezza le risorse del linguaggio ereditato dalla tradizione, restando sostanzialmente alieno dalla sperimentazione linguistica e stilistica praticata dai poeti, a vario titolo innovatori, suoi contemporanei. Dal punto di vista lessicale Carducci rimane un poeta tipicamente ottocentesco, disposto ad attingere senza sosta dal repertorio di aulicismi, latinismi e arcaismi per rendere in modo sublime e solenne l’evasione fantastica nel passato. Al tempo stesso, però, questo lessico non si lascia ingabbiare da nessuna grammatica codificata, spaziando con una certa spregiudicatezza tra i poli opposti dell’espressività elegante e di quella popolaresca e dando vita a efficaci accostamenti di voci di ascendenza classica e termini ed espressioni attinti da una realistica contemporaneità: così si spiegano il ricorso al lessico quotidiano (prostituzione, bordel, cavatappi) e a quello basso, quasi scurrile (sgualdrina, cesso), nonché l’invenzione di vere e proprie “neoformazioni” (arcibuffoni, repubblicanone).

 >> pag. 48 
Rime e ritmi

L’ultima raccolta di Carducci è pubblicata nel 1898 e presenta testi composti secondo la metrica tradizionale («rime») insieme ad altri che invece presentano la metrica barbara («ritmi»). Compaiono ancora testi segnati dalla malinconia e da evocazioni paesaggistiche, ma a prevalere sono soprattutto le odi civili e politiche, che consacrano il poeta portavoce dei destini e delle ambizioni della patria.

La prosa

L’Edizione nazionale delle opere di Carducci annovera “solo” 4 volumi di poesie, ma ben 26 quasi esclusivamente di prose (senza considerare i lavori editoriali e di commento ai testi e i 22 libri di lettere): un dato, questo, che dimostra chiaramente le energie intellettuali profuse dal poeta nel fornire un contributo essenziale alla storia culturale e letteraria della nazione da poco unita.

Come critico e filologo, si può dire che non ci sia campo della letteratura italiana che egli non abbia percorso e talvolta esplorato attentamente: ricordiamo i volumi su Parini, gli studi su Leopardi, Ariosto, Tasso, i discorsi su Dante, Petrarca e Boccaccio, nonché saggi e discorsi su autori minori del XVII e XVIII secolo. Anche se non presenta un pensiero organico e coerente, la sua critica, efficacissima nel rappresentare personaggi e ambienti, è ricca di intuizioni e di notazioni puntuali sulla parola e sulla tecnica letteraria, suggeritegli dalla sua esperienza e dal suo gusto.
La prosa di Carducci è piena di colore e intrisa di umori e passioni (anche al di fuori delle polemiche, che ebbe numerose e talvolta intemperanti), capace di muoversi all’interno di una vastissima gamma tipologica, dal saggio all’intervento militante, dalla ricerca erudita alla schermaglia letteraria: nervosa e tagliente, essa rappresenta un originale impasto di alta letteratura e di espressività quotidiana.

Nelle opere in prosa Carducci propone, pur senza teorizzarlo compiutamente, un modello di scrittura alternativo a quello dei manzoniani coevi, esercitando una notevole influenza sullo stile, soprattutto saggistico e giornalistico, di vari autori novecenteschi. La lingua del Carducci “professore” e scrittore di lettere è caratterizzata da una notevole variabilità, dall’adozione di registri stilistici differenti e da una spregiudicata apertura ai settori più disparati del lessico.

 >> pag. 49 
La vita
Le opere
• Nasce a Valdicastello, in Versilia 1835  
• Si laurea alla Normale di Pisa
• Insegna al ginnasio di San Miniato
1856

 

1857 Rime
• Sposa Elvira Menicucci 1859  
• È nominato docente di Letteratura all’Università di Bologna 1860 Juvenilia
• Muore il figlio Dante 1870  

1871 Levia gravia
• Incontra la regina Margherita 1878  
1879 Giambi ed epodi
1887 Rime nuove
• È nominato senatore 1890

1893 Odi barbare
• Viene colpito da una paralisi 1898 Rime e ritmi
• Lascia la cattedra di Bologna 1904  
• Riceve il premio Nobel per la letteratura 1906  
• Muore a Bologna 1907  

3 I grandi temi

L’impegno civile

Il percorso intellettuale compiuto da Carducci rappresenta un documento assai importante per cogliere non solo l’evoluzione del suo pensiero, ma la mentalità e gli orientamenti del periodo storico in cui egli vive. Come ha scritto un autorevole critico, Luigi Baldacci, «forse non potremo dire di aver capito veramente che cosa sia stato l’Ottocento finché non avremo capito Carducci». La sua parabola esistenziale e ideologica offre infatti la possibilità di indagare lo sviluppo e le contraddizioni del primo periodo postunitario, poiché la tensione politica e morale che si avverte nei suoi versi è condivisa da una parte cospicua della sua generazione, quella che aveva combattuto durante il Risorgimento credendo negli ideali repubblicani e garibaldini.

Il giovane Carducci muove da convinzioni radicali e polemiche: disgustato dalla politica della Destra storica, che giudica debole nei confronti della Chiesa e incapace di rivendicare il possesso di Roma, il poeta, già all’indomani della proclamazione dell’Unità, si distingue per gli attacchi al ceto dirigente italiano e per un anticlericalismo di ascendenza giacobina, in cui si mescolano motivazioni religiose e politiche, legate all’irrisolta “questione romana”.
Di questa ansia ribelle è testimonianza l’Inno a Satana, composto nel 1863: in questo componimento Carducci identifica provocatoriamente Satana con il progresso che abbatte l’oscurantismo clericale e annuncia, per mezzo del simbolo positivista della locomotiva – «bello e orribile / mostro» di ferro e di fuoco –, l’imminente avvenire consacrato alla libertà di pensiero. Si tratta di un testo dallo scarso valore poetico e lo stesso autore lo definirà in seguito una «volgare chitarronata».
Tuttavia, l’esaltazione del progresso e la ribellione a ogni dogmatismo o dispotismo che limiti l’arbitrio individuale hanno un valore documentario innegabile, in una fase storica dominata da un montante spirito reazionario, come dimostra nel 1864 la pubblicazione del Sillabo di Pio IX, il documento in cui viene condannata la civiltà moderna.

 >> pag. 50 

Quelle del giovane Carducci non sono posizioni isolate; al contrario, in anni di grande fervore politico, al clericalismo benpensante si oppongono molti intellettuali laici e democratici, spesso votati come il battagliero poeta maremmano a celebrare i miti libertari della rivoluzione, in contrasto con la realtà politica del paese, giudicata corrotta e mediocre.
Nell’opera di Carducci tali contrasti sono visibili soprattutto nelle raccolte Levia gravia e Giambi ed epodi, in cui il poeta esprime l’amarezza per il tradimento di quei valori, attinti dalla grande epopea della Rivoluzione francese, a cui vorrebbe si ispirasse la politica del nuovo Regno.

Negli anni della maturità, le posizioni del poeta cambiano sensibilmente. Egli continua a concepire la letteratura come uno strumento politico ed etico, capace di comunicare nobili ideali alla collettività nazionale. In quanto poeta, ritenendosi superiore al volgo per gusto e cultura, ribadisce il proprio dovere di guida morale e civile e di custode di valori assoluti.
Tuttavia, in virtù di questo ruolo, Carducci si convince che la polemica spregiudicata e lo spirito di opposizione non siano più utili a un paese ancora debole e diviso qual è l’Italia di fine Ottocento. La sua visione della politica nazionale si può riassumere così: è necessario accantonare astiosità e invettive e porsi al di sopra delle parti e delle diverse fazioni per il bene dell’Italia; dopo la breccia di Porta Pia (1870), annessa Roma al Regno d’Italia, è finalmente possibile riconciliarsi con il papa e soprattutto con la monarchia, l’unica istituzione in grado di costituire un elemento di stabilità per il paese. In tal modo, Carducci finisce per diventare il cantore ufficiale della nazione, il vate dell’Italia contemporanea, nell’auspicio che questa possa rinnovare le glorie dell’età romana e del Medioevo comunale.

Il suo patriottismo prende via via le tinte del nazionalismo, tanto che il sostegno alla politica autoritaria e coloniale di Crispi diviene quasi naturale. Anche il suo leggendario anticristianesimo, pur se mai sconfessato da una conversione pubblica, si annacqua di fronte alle necessità politiche. Così, il poeta scrive nel 1878 (in una poesia significativamente intitolata Canto dell’amore) «Oggi co ’l papa mi concilierei», invitando il prima detestato Pio IX (al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti) a bere insieme a lui un bicchiere alla salute della libertà («Vieni: a la libertà brindisi io faccio: / cittadino Mastai, bevi un bicchier!»).
Pur rimanendo laico fino al termine dei suoi giorni, per questa svolta Carducci viene accusato di aver tradito gli ideali della repubblica e di aver abbandonato la battaglia per la giustizia sociale. Alcuni letterati, che avevano visto in lui la bandiera della democrazia, non abbandoneranno invece la poesia di impegno civile, ancora animati dall’antico spirito rivoluzionario. Uno tra questi, lo scapigliato Ferdinando Fontana (1850-1919), risponderà all’invito all’amore indirizzandogli un messaggio poetico di tutt’altro tenore: Canto dell’odio.

Al cuore della letteratura - volume 5
Al cuore della letteratura - volume 5
Il secondo Ottocento