L’impegno civile

Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Pascoli

L’impegno civile

Negli ultimi anni della sua parabola letteraria, Pascoli coltiva l’abitudine di comporre poesie d’occasione, a commento di avvenimenti storici (dalla disfatta dell’esercito italiano ad Adua, nel 1896, all’omicidio di re Umberto I, nel 1900) o di attualità (spedizioni polari, imprese di aviatori ecc.). Questa produzione, di stampo quasi “giornalistico”, può a prima vista sorprendere e confondere se rapportata con la sua concezione poetica. Che cosa spinge il “poeta puro” del Fanciullino in questa direzione? E, soprattutto, che cosa lo induce a collaborare a riviste e quotidiani politicamente impegnati (soprattutto sul versante nazionalistico), aspirando a un ruolo di “poeta pedagogo”, tanto distante dalla sua sensibilità artistica e umana?

Una prima risposta sta nel desiderio di Pascoli di ritagliarsi un ruolo pubblico, che lo ponga in contatto con la massa dei lettori: per quanto lontano dai salotti e dalla mondanità della vita culturale nazionale, egli non è infatti insensibile all’idea di competere, sia pure su un terreno per lui sfavorevole, con il rivale d’Annunzio, abile comunicatore, sempre al centro dell’attenzione.

Ma c’è anche – ed è forse la principale – una ragione ideologico-culturale più profonda. Nel Fanciullino Pascoli scrive che «il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta»: ciò significa che a lui non si chiede solo di esprimere la propria sensibilità soggettiva, ma anche di interpretare il sentimento collettivo, dando voce alle aspirazioni e ai bisogni dell’intera comunità popolare e nazionale.
Si tratta, evidentemente, della riproposizione di un modello romantico, che egli aggiorna attraverso la propria originale rilettura artistica. Raccolte come Odi e inni, Le canzoni di Re Enzio e Poemi del Risorgimento esprimono questa sua ambizione di vate, cantore della Storia e delle glorie nazionali; ambizione che lo porta, per esempio, a celebrare con il tono populistico della Grande proletaria si è mossa (1911) l’impresa coloniale libica come una soluzione al dramma dell’emigrazione. Il poeta conferisce infatti al proprio nazionalismo una motivazione umanitaristica, affermando il diritto degli Stati meno ricchi (come l’Italia, che è definita non a caso «proletaria») a conquistare nuove terre in cui i contadini possano trasferirsi. In tal modo gli italiani, costretti a migliaia a emigrare in cerca di fortuna al di là dell’oceano e spesso sottoposti a umiliazioni e soprusi, possono riacquistare dignità e lavoro, rinnovando la gloriosa tradizione di un popolo civilizzatore.

Anche prima della campagna libica, però, non mancano occasioni nelle quali Pascoli riversa sulla pagina quello spirito di fratellanza già prefigurato nel socialismo invocato nel Fanciullino. La pace sociale viene auspicata entro un invito alla solidarietà e alla condivisione al di là e al di sopra delle classi: «Uomini, pace! Nella prona terra / troppo è il mistero; e solo chi procaccia / d’aver fratelli in suo timor, non erra», scrive nella chiusa della poesia I due fanciulli (Primi poemetti).
Nel recuperare la lezione leopardiana della Ginestra, il poeta confeziona così un generico messaggio di concordia tra gli uomini che non si inserisce però in una compiuta ideologia politica: egli infatti non supera mai l’orizzonte psicologico del nostalgico cantore dei buoni e semplici valori contadini, neutralizzando all’interno di un’ingenua dimensione idilliaca i veri e duri conflitti che agitano l’Italia del suo tempo.
In tal modo anche il nazionalismo che affiora in alcuni versi, lettere e discorsi non coincide con un’autentica e aggressiva volontà di potenza, ma con la viscerale difesa (anche con le armi della guerra, se necessario) di una nazione e di un popolo oppressi. Il modello privato del «nido», da proteggere gelosamente dalle ingerenze degli estranei, si proietta così su quello pubblico della patria, da esaltare con passione e sentimento nella strenua difesa delle radici, dell’identità e delle tradizioni.

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 T4 

Italy

Primi poemetti, Canto primo, I-V


Il poemetto racconta in due canti di complessivi 450 versi la storia della piccola Maria-Molly, che dagli Stati Uniti viene portata in Italia, nel paese d’origine del padre, nella speranza che il clima mite la possa guarire dalla tubercolosi. Qui la bambina conosce un mondo diverso da quello in cui ha vissuto fino a quel momento e fa fatica ad ambientarsi. Poi, però, a poco a poco il solco che la divide dai suoi parenti si assottiglia, fino a scomparire: la bambina guarisce e, prima di partire, promette di tornare, un giorno, da quella che ora riconosce come la sua famiglia.


METRO Terzine dantesche di endecasillabi a rima incatenata (ABA BCB CDC ecc.). Ogni strofa termina con un verso isolato che rima con il penultimo della terzina precedente.

          Sacro all’Italia raminga*

          I
          A Caprona, una sera di febbraio,
          gente veniva, ed era già per l’erta,
          veniva su da Cincinnati, Ohio.

          La strada, con quel tempo, era deserta.
5       Pioveva, prima adagio, ora a dirotto,
          tamburellando su l’ombrella aperta.

          La Ghita e Beppe di Taddeo lì sotto
          erano, sotto la cerata ombrella
          del padre: una ragazza, un giovinotto.

10     E c’era anche una bimba malatella,
          in collo a Beppe, e di su la sua spalla
          mesceva giù le bionde lunghe anella.

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          Figlia d’un altro figlio, era una talla
          del ceppo vecchio nata là: Maria:
15     d’ott’anni: aveva il peso d’una galla.

          Ai ritornanti per la lunga via,
          già vicini all’antico focolare,
          la lor chiesa sonò l’Avemaria.

          Erano stanchi! avean passato il mare!
20     Appena appena tra la pioggia e il vento
          l’udiron essi or sì or no sonare.

          Maria cullata dall’andar su lento
          sembrava quasi abbandonarsi al sonno,
          sotto l’ombrella. Fradicio e contento

25     veniva piano dietro tutti il nonno.

          II
          Salivano, ora tutti dietro il nonno,
          la scala rotta. Il vecchio Lupo in basso
          non abbaiò; scodinzolò tra il sonno.

          E tentennò sotto il lor piede il sasso
30     davanti l’uscio. C’era sempre stato
          presso la soglia, per aiuto al passo.

          E l’uscio, come sempre, era accallato.
          Lì dentro, buio come a chiuder gli occhi.
          Ed era buia la cucina allato.

35     La mamma? Forse scesa per due ciocchi…
          forse in capanna a mòlgere… No, era
          al focolare sopra i due ginocchi.

          Avea pulito greppia e rastrelliera;
          ora, accendeva… Udì sonare fioco:
40     era in ginocchio, disse la preghiera.

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          Appariva nel buio a poco a poco.
          «Mamma, perché non v’accendete il lume?
          Mamma, perché non v’accendete il fuoco?»

          «Gesù! che ho fatto tardi col rosume…»
45     E negli stecchi ella soffiò, mezzo arsi;
          e le sue rughe apparvero al barlume.

          E raccattava, senza ancor voltarsi,
          tutta sgomenta, avanti a sé, la mamma,
          brocche, fuscelli, canapugli, sparsi

50     sul focolare. E si levò la fiamma.

          III
          E i figli la rividero alla fiamma
          del focolare, curva, sfatta, smunta.
          «Ma siete trista! siete trista, o mamma!»

          Ed accostando agli occhi, essa, la punta
55     del pannelletto, con un fil di voce:
          «E il Cecco è fiero? E come va l’Assunta?»

          «Ma voi! Ma voi!» «Là là, con la mia croce».
          I muri grezzi apparvero col banco
          vecchio e la vecchia tavola di noce.

60     Di nuovo, un moro, con non altro bianco
          che gli occhi e i denti, era incollato al muro,
          la lenza a spalla ed una mano al fianco:

          roba di là. Tutto era vecchio, scuro.
          S’udiva il soffio delle vacche, e il sito
65     della capanna empiva l’abituro.

          Beppe sedé col capo indolenzito
          tra le due mani. La bambina bionda
          ora ammiccava qua e là col dito.

          Parlava, e la sua nonna, tremebonda,
70     stava a sentire e poi dicea: «Non pare
          un luì quando canta tra la fronda?»

 >> pag. 411 

          Parlava la sua lingua d’oltremare:
          «… a chicken-house» «un piccolo luì…»
          «… for mice and rats» «che goda a cinguettare,

75     zi zi» «Bad country, Ioe, your Italy!»

          IV
          ITALY, penso, se la prese a male.
          Maria, la notte (era la Candelora),
          sentì dei tonfi come per le scale…

          tre quattro carri rotolarono… Ora
80     vedea, la bimba, ciò che n’era scorso!
          the snow! la neve, a cui splendea l’aurora.

          Un gran lenzuolo ricopriva il torso
          dell’Omo-morto. Nel silenzio intorno
          parea che singhiozzasse il Rio dell’Orso.

85     Parea che un carro, allo sbianchir del giorno,
          ridiscendesse l’erta con un lazzo
          cigolìo. Non un carro, era uno storno,

          uno stornello in cima del Palazzo
          abbandonato, che credea che fosse
90     marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo!

          Maria guardava. Due rosette rosse
          aveva, aveva lagrime lontane
          negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.

          La nonna intanto ripetea: «Stamane
95     fa freddo!» Un bianco borracciol consunto
          mettea sul desco ed affettava il pane.

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          Pane di casa e latte appena munto.
          Dicea: «Bambina, state al fuoco: nieva!
          nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:

100  «Poor Molly! qui non trovi il pai con fleva!»

          V
          Oh! no: non c’era lì né pie flavour
          né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:
          «Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»

          Oh! no: starebbe in Italy sin tanto
105  ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly!
          E Ioe godrebbe questo po’ di scianto!

          Mugliava il vento che scendea dai colli
          bianchi di neve. Ella mangiò, poi muta
          fissò la fiamma con gli occhioni molli.

110  Venne, sapendo della lor venuta,
          gente, e qualcosa rispondeva a tutti
          Ioe, grave: «Oh yes, è fiero… vi saluta…

          molti bisini, oh yes… No, tiene un frutti-
          stendo… Oh yes, vende checche, candi, scrima…
115  Conta moneta: può campar coi frutti…

          Il baschetto non rende come prima…
          Yes, un salone, che ci ha tanti bordi…
          Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima…»

          Il tramontano discendea con sordi
120  brontoli. Ognuno si godeva i cari
          ricordi, cari ma perché ricordi:

          quando sbarcati dagli ignoti mari
          scorrean le terre ignote con un grido
          straniero in bocca, a guadagnar danari

125  per farsi un campo, per rifarsi un nido…

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      Dentro il testo

I contenuti tematici

Il tema dell’emigrazione è qui tradotto in un vero e proprio racconto, una narrazione di cronaca familiare ispirata a un episodio reale di cui il poeta fu testimone nel 1895 a Caprona, il borgo in cui viveva: il ritorno dagli Stati Uniti di una bambina (Maria o Molly, che nella realtà si chiamava Isabella), nipote di Bartolomeo Caproni detto Zi’ Meo (il fattore di casa Pascoli), figlia di emigranti e venuta in Italia per curare la tubercolosi.

Il carattere narrativo del poemetto consente di dividere il brano in cinque sequenze ben distinte: l’arrivo dei tre emigranti (Margherita e Giuseppe di Taddeo, detti Ghita e Beppe, e Maria-Molly) accompagnati dal nonno (I); l’ingresso nella vecchia casa e l’incontro con la nonna che accende il fuoco (II); il colloquio con la nonna e la descrizione della casa, con la sua miseria e il suo squallore (III); la nevicata notturna e la scoperta, al mattino, del paesaggio innevato (IV); l’incontro di Giuseppe con alcuni compaesani che raccolgono informazioni sulla vita degli amici rimasti in America (V).

Il tema fondamentale è il rapporto tra due civiltà lontane: quella dell’immobile provincia agricola toscana e quella della moderna America, che ha sconvolto vita, costumi e lingua degli emigranti. Molly fa fatica a entrare in contatto con un ambiente molto diverso dal suo: non parla italiano, le condizioni di vita del borgo le sembrano – e in effetti sono – misere, il rapporto con la nonna è inizialmente impossibile per la differenza di età, ma soprattutto di lingua, abitudini, cultura e mentalità. Fra i due mondi, insomma, la comunicazione è assai difficile, come si capisce dall’equivoco sorto intorno ai commenti negativi di Molly (che definisce la casa una chicken-house, un pollaio, for mice and rats, adatta solo ai topi), che la nonna scambia per teneri cinguettii.

Eppure proprio da questa diversità nasce, a poco a poco, una specie di miracolo: nella seconda parte della poesia (qui non antologizzata) la bambina, mentre la sua salute migliora giorno dopo giorno, scopre il telaio della nonna e comincia a trascorrere ore intere con lei, aiutandola nel lavoro. Insomma, saprà riconoscere, come in virtù di un inconscio sentimento di parentela, i luoghi, i volti e gli affetti che gli emigranti conservano nella memoria. In primavera Molly finalmente guarisce, ma la nonna si ammala: a lei, ormai morente, la bambina regala la sua bambola, pegno di amore e di riconoscenza per aver appreso dalla sua voce e dal suo esempio la bellezza degli antichi valori della società contadina.

L’emigrazione è per Pascoli una realtà dolorosa, un evento lacerante che scardina il «nido» familiare e determina un profondo trauma interiore in quanto separa dalla comunità contadina d’origine, dalla famiglia e da una cultura secolare. Tuttavia il ritorno al «nido» (alla famiglia, ma anche alla patria) può donare agli emigranti, che hanno sofferto le pene della lontananza e dell’esilio, la salute e la serenità perdute: la malattia e la guarigione di Molly vogliono rappresentare proprio questo.
In tal senso la trama del poemetto non nasconde, attraverso una vicenda esemplare che permette di assimilarlo a un apologo edificante, la velleità dell’autore di cimentarsi con una poesia sociale dalle chiare valenze ideologiche. Quello di Molly-Maria è infatti una sorta di percorso di formazione: la bambina nata in America, dopo l’iniziale disgusto per la povertà della sua famiglia, vi riscopre i suoi stessi valori e la sua stessa identità. Non a caso, ai fanciulli che – nella chiusa del poemetto – le chiederanno se un giorno tornerà in Italia, lei risponderà «Sì», con la prima parola italiana che pronuncia dopo essersi espressa fino ad allora in inglese. Il tema del «nido» si è così dilatato, dall’originario significato autobiografico ed esistenziale, a quello sociale e politico.

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Questo percorso di riappropriazione di sé avviene grazie all’incontro tra le generazioni che erano state divise dall’emigrazione: è la scoperta della saggezza della nonna a permettere alla bambina di ritrovare le proprie radici. Più avanti, nel secondo canto del poemetto, la vecchia morirà, ma anche questo evento luttuoso riveste un preciso significato simbolico: sarà Molly, ora, a far rivivere e a trasmettere gli affetti e i valori che la nonna le ha lasciato come ultimo atto di amore e di fedeltà alla terra.

Le scelte stilistiche

La materia del componimento, come si è visto, è realistica, ma lo stile non lo è affatto. Troviamo infatti un’amplificazione epica delle scene narrative (che hanno il ritmo di un’arcaica saga contadina), l’indeterminatezza spazio-temporale della vicenda (nonostante l’autenticità dei toponimi) e una certa frammentazione dei dialoghi (che sembrano rimanere sospesi fra ampie zone di silenzio).
Assai originale è soprattutto l’incastro plurilinguistico, ottenuto grazie all’inserzione di vocaboli ed espressioni di diversa matrice: accanto al lessico dialettale (talla, v. 13; mòlgere, v. 36; banco, v. 58; nieva, v. 98) e a tasselli della lingua colta della tradizione (erta, v. 2; anella, v. 12; galla, v. 15; sbianchir, v. 85; lazzo, v. 86) e del vocabolario tecnico contadino (brocche, fuscelli, canapugli, v. 49), Pascoli immette nel linguaggio poetico l’idioma italo-americano, senza però alcun intento caricaturale (gli emigranti che ne fanno uso rappresentano per il poeta tutt’altro che ridicole macchiette): non si tratta dell’inglese standard, ma di una variante americana del registro familiare, su cui si innestano gli echi della parlata italiana (pai con fleva, v. 100; bisini, v. 113).

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Ma il plurilinguismo pascoliano non rimanda solo a una scelta di riproduzione del reale di stampo veristico. L’inglese da una parte e l’italiano e il dialetto garfagnino dall’altra simboleggiano infatti due mondi antitetici, con i rispettivi valori, in quanto la lingua è un fattore fondamentale dell’identità di una comunità: la nuova cultura dei figli (cioè delle vittime) dell’emigrazione, che hanno reciso il legame con la propria storia, di contro alla cultura originaria, espressione di una visione del mondo ancora pura e non corrotta dall’industrializzazione e dal capitalismo.
In mezzo a queste due opposte polarità sta il linguaggio ibrido degli emigranti di prima generazione (Ghita e Beppe), che nell’ostinata resistenza a non perdere del tutto il patrimonio della propria lingua rivelano di non aver abbandonato il desiderio di tornare in patria, tra gli affetti più cari, per rifarsi un nido (v. 125).

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Riassumi il contenuto dei versi antologizzati.

ANALIZZARE

2 Individua e scrivi nella tabella vocaboli ed espressioni in inglese, italo-americano e dialetto.


Inglese

Italo-americano

Dialetto


 
 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 

INTERPRETARE

3 Quali elementi positivi emergono nel racconto dei compaesani di Ioe-Beppe reduci dall’America?

PRODURRE

4 Descrivi in prosa, in un testo espositivo di circa 20 righe, la realtà sociale, economica e culturale che emerge dalla lettura del brano, come se dovessi comporre un racconto verista.


Al cuore della letteratura - volume 5
Al cuore della letteratura - volume 5
Il secondo Ottocento