Al cuore della letteratura - volume 5

Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Pascoli

 T1 

L’eterno fanciullo che è in noi

Il fanciullino, I; III; X-XI; XIV


Estrapoliamo alcuni passi significativi dal più importante saggio di poetica pascoliano. L’autore esprime qui la propria concezione della poesia, che corrisponde a una sorta di stato infantile permanente, grazie al quale è ancora possibile, anche quando si è adulti, guardare al mondo con ingenuità e meraviglia.

I.
È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi,1 come credeva Cebes Tebano2
che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora3 e tripudi4 suoi. Quando la nostra
età è tuttavia tenera,5 egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli6
che ruzzano7 e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono
5 piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire8 solo. Ma quindi9 noi
cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare,
ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia;10 noi ingrossiamo e arrugginiamo11
la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo12 squillo come di
campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile
10 forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare
la causa della nostra vita,13 meno badiamo a quell’angolo d’anima d’onde14 esso
risuona. E anche, egli, l’invisibile fanciullo, si pèrita15 vicino al giovane più che accanto
all’uomo fatto e al vecchio, ché più dissimile a sé vede quello che questi.16 Il
giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; ché ne sdegna la
15 conversazione, come chi si vergogni d’un passato ancor troppo recente. Ma l’uomo
riposato17 ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e
grave;18 e l’armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d’un usignuolo
che gorgheggi presso un ruscello che mormora. […]

III.
Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? […] In alcuni non pare che egli sia;
20 alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza e credenza falsa. Forse gli
uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché
non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua
presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che
ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o
25 sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli
alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle:19 che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di
dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi

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e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire
quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva.20 Egli è quello che
30 nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende
tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce,21 e facendone
due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso
come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza
e consola la bambina che è nella donna.22 Egli nell’interno dell’uomo serio sta
35 ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa
echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive,23 e in un cantuccio dell’anima di
chi più non crede, vapora24 d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato
da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora
vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol
40 toccare la selce25 che riluce.
E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante
cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle,
perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente.26 Egli scopre
nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose.27 Egli adatta il nome della
45 cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore
che ignoranza,28 e curiosità meglio29 che loquacità: impicciolisce per poter vedere,
ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non
dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per
una parola.30 E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere
50 sempre ciò che vide una volta. […]

X.
Così il poeta vero, senza farlo apposta e senza addarsene,31 portando, per dirla con
Dante, il lume dietro, anzi no, dentro, dentro la cara anima portando lo splendore
e ardore della lampada che è la poesia; è, come si dice oggi, socialista, o come si
avrebbe a dire,32 umano. Così la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella
55 che migliora e rigenera l’umanità, escludendone, non di proposito il male, ma
naturalmente l’impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la
morale riconosce cattivo e ciò che l’estetica proclama brutto. Ma di ciò che è cattivo
e brutto non giudica, nel nostro caso, il barbato33 filosofo. È il fanciullo interiore
che ne ha schifo. […]

XI.
60 Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il
fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor
patrio e familiare e umano. […]

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Ma il poeta non deve farlo apposta.
Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non
65 maestro, non tribuno o demagogo,34 non uomo di stato o di corte. E nemmeno è,
sia con pace del Maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri;35 e nemmeno,
con pace di tanti altri, un artista che nielli36 e ceselli l’oro che altri gli porga. A
costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il
modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra. Egli, anzi, quando li trasmette,
70 pur essendo in cospetto d’un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del
pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio
esso, che per farsi intendere da altrui. […]
Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze37 civili e sociali?
Senza accorgersene, se mai.
75 Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua
parola, la quale tutti gli altri, appena esso l’ha pronunziata, sentono che è quella
che avrebbero pronunziata loro.
Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie38 di una famiglia
povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti.
80 Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno
avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare.
Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso. […]

XIV.
[…] La poesia consiste nella visione d’un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi.
Guardate i ragazzi quando si trastullano seri seri. Voi vedete che hanno sempre
85 alle mani cose trovate per terra, nella loro via, che interessano soltanto loro e che
perciò sol essi sembrano vedere: chioccioline, ossiccioli, sassetti. Il poeta fa il medesimo.
Ma come chiamare questi lapilli ideali, questi cervi volanti della sua anima?
Il nome loro non è fatto, o non è divulgato, o non è comune a tutta la nazione
o a tutte le classi del popolo. Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono de’ fanciulli
90 la gioia più grande e consueta: che nome hanno? S’ha sempre a dire uccelli, sì di
quelli che fanno tottavì e sì di quelli che fanno crocro? Basta dir fiori o fioretti, e
aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo39 coperto
di margherite e un prato gremito di crochi?
Ora se vi provate a dire il nome proprio loro, ecco che il nome di Linneo40 non
95 va, per cento ragioni, e il nome popolare varia, quando c’è, da regione a regione,
anzi da contado a contado. Se il popolo italiano badasse a queste tali cose, fiori,
piante, uccelli, insetti, rettili, che formano per gran parte la poesia della campagna,
il nome che esse hanno in una terra, avrebbe finito per prevalere su quello dominante
in altre. Ma gl’italiani abbarbagliati per lo più dallo sfolgorio dell’elmo di
100 Scipio,41 non sogliono seguire i tremolii cangianti delle libellule.

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      Dentro il testo

I contenuti tematici

La maggior parte degli uomini, corrotti dall’esperienza e resi inautentici dalle convenzioni sociali, smarriscono la dimensione infantile, che permetteva loro, da bambini, di provare intense emozioni e porsi in un’affascinante e misteriosa relazione nei confronti delle cose e della natura. Recuperare questo atteggiamento spontaneo è un’impresa ardua, poiché guardare al mondo con meraviglia è possibile grazie a un processo che non coinvolge la ragione e la cultura, ma tocca le zone più recondite della nostra coscienza, quei sentimenti nascosti, al di fuori del tempo e della Storia, che ereditiamo al momento stesso della nascita.

Il poeta ha il privilegio di restare bambino, attingendo alla voce della propria interiorità: egli possiede i sentimenti di un fanciullo, grazie ai quali riesce a tradurre le sue visioni in parole immediate, senza il filtro del pensiero, ma solo attraverso la propria vista primigenia, che gli consente di cogliere lo splendore dell’essere e le somiglianze e le relazioni più ingegnose (r. 44) tra le cose (le correspondances di Baudelaire, ► p. 369). Nel sottolineare questo aspetto è evidente la negazione pascoliana del Positivismo: la poesia autentica rifiuta la lettura materialistica del reale per offrirne una più spontanea e ingenua.
Il poeta infatti popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei (rr. 26-27): ha dunque una visione prescientifica e prelogica della realtà, identificandosi in una sorta di uomo primitivo felice e innocente; in questo aspetto è lecito cogliere l’influenza del filosofo Giambattista Vico (1668-1744), secondo il quale l’umanità animalesca e primitiva era per natura felice e incline alla fantasia. Il suo scopo – ma è uno scopo, per così dire, istintivo e non programmatico – è pertanto quello di rendere le cose nella loro essenza più segreta, strappandole alla finzione e all’abitudine, e così recuperarne la freschezza e il sapore originario.

In tal modo, scoprendo i particolari reconditi della realtà, il poeta può comunicare agli uomini questa capacità che essi hanno perduto, ridestando in loro il «fanciullino» sommerso dalla civiltà. Attenzione, però: egli non deve proporsi contenuti morali, civili, ideologici o religiosi, che spettano non a lui, ma agli oratori, ai filosofi, agli storici, ai maestri, ai tribuni, ai demagoghi. Il poeta è tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro (rr. 60-61), come accade a Dante quando sostiene la propria istintiva fedeltà all’amore («I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando», Purgatorio, XXIV, 52-54).
Nonostante il poeta-fanciullo sia dotato di una disposizione a lasciarsi incantare dalla realtà e a coglierne i lineamenti più nascosti, egli non si atteggerà però mai a profeta e a dispensatore di verità assolute. Il compito morale e pubblico della poesia non risponde infatti ad alcun programma ma è connaturato all’essenza stessa dell’opera d’arte: in tal modo il poeta vero, senza farlo apposta, potrà dirsi socialista o umano (rr. 51, 53, 54), facendo coincidere dunque la voce del «fanciullino» che risuona dentro di lui con quella collettiva, ispiratrice di pace e solidarietà.

La polemica con Carducci è scoperta: alla visione del letterato come artiere che foggi spada e scudi e vomeri (r. 66) per difendere e divulgare un ideale magniloquente di poesia impegnata, civile e patriottica, Pascoli contrappone l’immagine dell’artista puro, che riacquista il senso primitivo delle cose, semplificandole e rifiutando ogni ambizione oratoria per dare un nome a particolari a prima vista umili, trascurati dalla sensibilità comune. È un ideale, questo, non facile da trasmettere all’interno della cultura italiana, abituata alla declamazione e più incline ad ammirare il linguaggio retorico (esemplificato dall’elmo di Scipio, rr. 99-100, di memoria risorgimentale) che non l’immediatezza dei suoni e dei colori della natura (i tremolii cangianti delle libellule, r. 100).

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      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Qual è la funzione della poesia a giudizio di Pascoli?


2 Per quali ragioni gli uomini spesso non avvertono dentro di sé la presenza del «fanciullino»?

ANALIZZARE

3 Sottolinea nel testo i diminutivi e i vezzeggiativi e spiega la ragione della loro frequenza.


4 Da un punto di vista formale, il terzo capitolo espone i concetti secondo uno schema a elenco. Una figura retorica, in particolare, dà al brano l’aspetto di un manifesto, in cui vengono indicati i caratteri tipici del «fanciullino». Qual è?

INTERPRETARE

5 Come si può spiegare l’accostamento del poeta-fanciullo a Orfeo?

PRODURRE

6 Alcuni critici hanno messo in relazione la poetica del «fanciullino» con quella di Giacomo Leopardi (autore, del resto, assai amato da Pascoli), secondo il quale gli antichi potevano godere rispetto ai moderni di un rapporto più diretto e privilegiato con la natura e con la poesia. Approfondisci la questione in un testo argomentativo di circa 30 righe.


7 Anche Pascoli, sia pure in forme assai diverse rispetto a Carducci, non rinuncia ad attribuire alla poesia una funzione civile. Dove ritrovi questo aspetto tra gli enunciati teorici del Fanciullino? In che modo esso viene qui declinato? Sviluppa il tema in un testo espositivo di circa 20 righe.


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