Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Verga

LETTURE critiche

Le ragioni di un capolavoro

di Attilio Momigliano

In questo intervento di sintesi sui Malavoglia, Attilio Momigliano (1883-1952) spiega le ragioni per le quali questo romanzo deve essere senz’altro considerato il capolavoro di Verga. Esse vanno individuate principalmente nella capacità di immedesimazione dell’autore nelle vicende dei personaggi e in uno stile perfettamente adeguato a tale scopo. Il critico svolge anche un rapido confronto con l’altro grande romanzo di Verga, Mastro-don Gesualdo.

Con I Malavoglia il Verga ritorna alla sfera della vita sociale. D’ora innanzi il tema della sua arte sarà, si può dire sempre, la rappresentazione delle classi più umili della società. I Malavoglia ritraggono, nelle persone della famiglia protagonista, le «tenaci affezioni dei deboli», «l’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alla tempesta della vita»,1 e la triste sorte di uno di essi che, per brama di meglio, si stacca dal gruppo, e soccombe. Il motivo lirico è il sentimento della famiglia, dell’onestà tradizionale, gli umili e santi affetti e bisogni che tengono legati fra loro i protagonisti: rappresentati con maggiore solidità e solennità in nonno ’Ntoni, e riflessi con tenera malinconia in tutti gli altri, e nello stesso giovane che si ribella agl’ideali familiari e degenera, e tuttavia li riconosce quando, tornato al paese dopo la vana esperienza del nuovo e dell’ignoto, si sente indegno della casa che ha abbandonato.
Intorno ai Malavoglia è raccolta tutta la vita del paese, con un’ispirazione unitaria più continua che in Mastro-don Gesualdo: basti citare come esempio il capitolo III, magistralmente orchestrato intorno al motivo della burrasca che farà naufragare la barca con i lupini. I compaesani dei protagonisti costituiscono l’ambiente in cui questi vivono, la causa e il contraccolpo delle loro vicende: di qui il colore uguale con cui sono rappresentati, quella tinta di miseria e di malinconia, che non solo risponde alla verità della loro vita, ma anche al tono delle peripezie dei Malavoglia, e avvolge tutto il romanzo d’un’atmosfera grigia e dolente. La vita di Aci Trezza non ci si presenta pettegola e piccina, come quella degli ambienti paesani in scrittori borghesi, ma seria, come è per quei pescatori, sui quali il Verga non s’innalza con l’arguzia dell’uomo che si ritiene superiore. (Invece il tono di Mastro-don Gesualdo sarà quello dello scrittore staccato, assai meno verista, isolato dall’ambiente umile e paesano: il Verga di questo secondo romanzo farà causa comune, s’immedesimerà quasi soltanto con i personaggi socialmente o sentimentalmente più elevati: il protagonista, Bianca e i due fratelli, Diodata).
Quest’unità fra personaggi di sfondo e protagonisti è mirabile: ma, se di rado nei singoli capitoli, in complesso questa pittura di piccoli interessi, rancori, intrighi, cinismi, passioni frammezzo alle vicende dei Malavoglia, pesa un po’ e fa desiderare un procedimento più sintetico.
All’unità del tono dei Malavoglia contribuisce anche il paesaggio, non lirico, non largo, ma domestico, colorito delle preoccupazioni, delle abitudini, dei sentimenti dei paesani, non disgiungibili né da questi né dal paese. Però il paesaggio, pur conservandosi aderente all’umiltà, alla miseria, al dramma dei personaggi, pur avendo la loro fisionomia povera e dolente, ha un ufficio suo: è un po’ il conforto di quell’esistenza, un po’ il gran tutto in cui quelle pene si confondono e annegano. Per questa via il paesaggio diventa il soffio che solleva il romanzo, il motivo melodico che, nei momenti culminanti, fa di quelle pene minute e insistenti un canto desolato e tranquillo. Si veda, per questo, la chiusa del libro; e si noti che un’intonazione e un ufficio simili avrà ancora il paesaggio in Mastro-don Gesualdo, nella notte di ricordi che il protagonista passa accanto a Diodata, nelle pagine in cui la vista dei campi conquistati e fertili fa dimenticare a Gesualdo la pena incessante della sua vita. Ma nei Malavoglia il senso del paesaggio è più costante, più unitario e più profondo: più che di paesaggio è perciò da parlare di “patria”, cioè del motivo che, abbracciando il cielo di Aci Trezza, il mare, il suolo, la casa, il paese, costituisce il centro affettivo del romanzo. Per esso, nei Malavoglia circola un soffio religioso, d’una religiosità domestica e semplice, che colorisce d’un’affettuosità intima tutta la scena fra cui si svolge quell’umile vita. Per esso si scopre che il motivo ispiratore di tutte le pagine del libro è quello indicato dalle parole del Verga: «il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere» (Fantasticheria), questa interpretazione – prima e unica nella letteratura italiana – del lirismo dei poveri. Per questo riguardo il Verga è andato al di là del Manzoni, in virtù di quel suo sforzo d’immedesimazione, tanto da darci della patria, della natura e del cielo una concezione ancora ignota alla poesia italiana, adeguando, con perfetta verità di tono, il mare, il cielo, il paesaggio di Aci Trezza ai cuori semplici di quei pescatori.


Attilio Momigliano, “Verga, Giovanni”, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1937

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I proverbi nei Malavoglia

di Alberto Mario Cirese

Il contributo dell’antropologo Alberto Mario Cirese (1921-2011) si sofferma su un aspetto centrale del tessuto stilistico del romanzo, che esplicita molto anche il suo orizzonte ideologico: la presenza di numerosissimi proverbi. Essi contribuiscono a rendere atemporale e non soggetto ai cambiamenti della Storia un mondo i cui valori risultano stabili e immutabili.

Più di una volta, come ci dicono le sue lettere, Verga cercò raccolte di proverbi e di modi di dire; e che annettesse notevole importanza a questa ricerca e la conducesse con notevole scrupolo obbiettivo ce lo dimostrano non solo il centinaio e mezzo di proverbi che s’incontrano nel romanzo, e dei quali si può trovare riscontro nelle raccolte, ma anche quel suo manoscritto, che non abbiamo potuto esaminare, ma di cui sappiamo che è un minuzioso elenco assai nutrito e scrupoloso dei proverbi «che più s’attagliavano al suo punto di vista e ai suoi scopi» (Perroni). Qui la natura stessa dell’elemento documentario ricercato dichiara la sua inerenza interiore. Anche oggettivamente, anche su un piano di ricerca storica, i proverbi contengono un alto grado di capacità individuatrice di quel mondo di “povera gente” che i Malavoglia intendevano esprimere: essi sono non soltanto enunciazione di contenuti morali, di pratici convincimenti, di norme che lumeggiano un certo orizzonte culturale, ma sono anche e soprattutto connotazione caratteristica di una tonalità psicologica e, correlativamente, fatti di lingua e di “stile”. […] In effetti il proverbio è l’espressione di una fissità ideologica che si traduce in una fissità di formula: di rime, di cadenze metriche, di numero di sillabe. Ogni proverbio ha la sua propria formula, ma tutti ne hanno una, ed un’aria comune, pur nella diversità del metro e delle assonanze. E in questa formula, in questi schemi metrici e sintattici si può ritrovare agevolmente, io credo, il corrispondente stilistico di quell’“ingenuità morale” (per riprendere l’espressione crociana1), di quella assenza di dialettica, di quel sembrare ma non essere conclusione di un lungo investigare filosofico, di quell’essere o meglio di quel presentarsi come verità date tutte d’un colpo e non conquistate per successivi sviluppi, che è appunto l’essenziale della loro natura. E la varietà dei contenuti che le formule proverbiali possono racchiudere illustra anch’essa questo fondamentale loro carattere. Giacché, se alcune fissano consuetudini sociali o giuridiche, ed altre si legano all’avvicendarsi delle piogge e del sole o delle operazioni agricole, ed altre ancora giudicano dei caratteri o suggeriscono i comportamenti, tutte però esprimono in forma apodittica2 il convincimento, e sono così immobili e salde nella loro interiore staticità che sopportano, senza frantumarsi ma senza evolvere, le contraddizioni più palesi. […] La pretesa di assolutezza che interiormente le governa consente loro di fermare solo aspetti parziali della verità e delle cose, ed altri aspetti parziali di necessità si contrappongono ai primi, e tutti si fronteggiano egualmente statici e senza possibilità di integrazione in mobili verità più ampie. E poi, giacché il più dei proverbi soccorre nelle varie e mutabili contingenze non tanto a determinare il comportamento, quanto a rivestire di autorità quasi sacrale le decisioni già prese per ben più immediate ragioni, la varietà e mobilità di queste ragioni di necessità deve produrre formule diverse e magari contraddittorie, che rendano appunto ciascuna di esse conforme ad una saggezza extratemporale. […] Naturalmente, ogni proverbio è in realtà il risultato di un certo processo mentale: di osservazioni, di esperienze, di connessioni che non si sono date per mitica rivelazione ma che sono nate da una storia, entro una storia. Tuttavia la storia vi è come inavvertita, non se ne ha più coscienza; ed ogni proverbio, pere chi lo ripete con intima adesione, è ab aeterno;3 un detto “antico” appunto. La storia vi si è contratta, fino ad annullarsi; cristallizzata, proprio come in quei sali di cui gli scienziati ci insegnano il lento sedimentarsi di piani e di angoli, ma che per noi, non intendenti, sono fatti da sempre a quel modo. La storia c’è, ma nascosta e, ciò che più conta, negata: «il motto degli antichi mai mentì», come dice padron ’Ntoni.
L’esperienza interiore di questo tono fondamentale sembra aver offerto un obbiettivo ideologico e stilistico al romanzo. Ed i proverbi che vi si addensano […] stanno ad attestarlo non tanto come residuo non demolito della impalcatura costruttiva della narrazione, quanto per le cadenze interiori che riescono a dare allo svolgersi dei sentimenti e dei discorsi con il loro ritmo che quasi ogni volta attinge e diffonde il suo tono al di là delle virgolette che lo chiudono. La formula, entro cui le sentenze sono fissate, esprime e genera l’immobile antichità di quella dimensione psicologica; e ad essa si torna come a un punto certo e mai fallace. E così i discorsi si infittiscono delle gravi cadenze che rivestono d’un tono uniforme e ripetuto la varietà e il movimento. «L’ideale dell’ostrica» si traduce e trasfigura in «melanconia soffocante» (lettera del 23-11-1881 al Capuana); la tonalità psicologica della saggezza senza sviluppi, del sentenziare senza dialettica, dell’irrigidirsi rituale dei convincimenti si fa procedimento stilistico interiormente ispirato a quei modelli. Il modulo proverbiale documentabile nelle raccolte si colorisce ed individua volta a volta nelle relazioni con tutto il contesto, ma mantiene quel suo essenziale sapore di atemporalità e lo diffonde tutto intorno. In questa dimensione psicologica l’esperienza storica ha bisogno di riconoscersi nella formula.


Alberto Mario Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, Einaudi, Torino 1976

Al cuore della letteratura - volume 5
Al cuore della letteratura - volume 5
Il secondo Ottocento