Tra i nostri classici Alfieri è forse quello meno popolare sia presso il pubblico più vasto, sia tra gli stessi lettori colti. È sintomatico che le opere di questo grande drammaturgo non vengano quasi mai messe in scena. Non è sorprendente, quindi, che egli sia un autore notoriamente difficile da affrontare in classe. Gli studenti sono scoraggiati e respinti dal suo stile volutamente oscuro e contorto. Ecco, è su questo “volutamente” che potrebbe appuntarsi un’interpretazione della poesia alfieriana, una lettura che miri a mettere in luce le ragioni della sua opera e la sua perdurante vitalità.
Certamente quella di Alfieri è una poesia “voluta”. Sia nel senso che egli, come racconta diffusamente nella sua autobiografia (la Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso), stabilì deliberatamente di impegnarsi a fondo per acquisire la tecnica e la cultura necessarie a un poeta; sia in quanto questo «protoromantico» (come lo definì Croce) celebra l’atto volitivo, l’autoaffermazione eroica. Che ciò accada soprattutto nel contesto politico della maggior parte delle tragedie non deve nascondere ai nostri occhi la sostanziale omogeneità di questi due drammi della volontà: il Vittorio che nella Vita conquista faticosamente la patente di poeta (e poeta romanticamente innovativo) è lo stesso che, nella pagina tragica, dà un volto alla vocazione di libertà del tirannicida. Libertà politica e libertà poetica fanno tutt’uno.
Si può dire anche di più. I lettori risorgimentali vedevano in Alfieri soprattutto il vate dell’indipendenza nazionale; oggi che si è riconosciuta la debolezza del pensiero politico del poeta (più precisamente, le sue analisi politiche sono in realtà sottili analisi psicologiche), Alfieri ci appare in prima istanza come il poeta della parola allo stato nascente, del divenire-poeta. Il versante politico di questa costruzione del sé è uno sviluppo necessario, sì, ma ulteriore, strettamente dipendente dalla “vocazione” – e infatti, come ogni vocazione, carico di ambiguità (qualcuno ha scritto una frase memorabile: «Alfieri: ecco un tiranno»1). Per questo, oltre che per il registro linguistico così vivace e moderno, la Vita è l’opera alfieriana che più si continua a leggere.
Vorrei ora guardare con maggiore attenzione a quest’opera, e in particolare alla prima sezione, la Puerizia, cruciale nell’architettura complessiva del libro.
Premetto qualche dato sulla particolarissima situazione familiare di Alfieri. La madre, Monica Maillard di Tournon, già vedova del marchese di Cacherano, sposò in seconde nozze il conte Antonio Alfieri, che però venne a morte pochi mesi dopo la nascita del secondogenito Vittorio. Cinque anni dopo Monica si risposò ancora, curiosamente, con un altro conte Alfieri, cugino del primo. Quindi Vittorio si trova ad avere la madre tutta per sé per ben cinque anni, mentre il padre è una figura teneramente amata ma del tutto assente. Sembra un sogno edipico. Ma poi la madre si risposa (i primi ricordi di Vittorio sono appunto di quest’epoca) e il paradiso infantile crolla. Le pagine della Puerizia mostrano una tensione sottaciuta ma crescente, indubbiamente collegata al conflitto con la madre, che fu, a quanto pare, un’educatrice inflessibile.
Questa prima parte della Vita ha in realtà un obiettivo ben preciso: mostrare come il bambino Vittorio avesse già un temperamento da poeta, cioè un temperamento malinconico. È interessante seguire l’insorgere di questa caratterizzazione essenziale per l’(auto) immagine di Alfieri, la malinconia. Verso i sei anni Vittorio è preso da un «innocente amore» per un gruppo di giovani novizi che vede quando assiste alla messa nella chiesa del Carmine. L’autore spiega questa passione («e questo insomma, sotto tanti e sì diversi aspetti, era amore») con il dolore per la partenza della sorella di sangue Giulia, mandata in monastero dopo le terze nozze della madre. L’amore per i novizi è insomma una reazione all’isolamento che si è prodotto nel momento in cui la madre ha spezzato il nucleo familiare primario. Si tratta ovviamente di un sentimento inconfessabile, ma Vittorio gli trova uno sbocco sorprendente. Un giorno, di nascosto, presi i vocabolari di latino e italiano cancella in entrambi la parola “frati” e vi sostituisce la parola “padri”.
In questo piccolo sabotaggio linguistico si esprimono numerosi contenuti. L’amore per un padre immaginario che fa da termine di riferimento unico, da polo affettivo profondo; l’identificarsi, quindi, delle due dimensioni del desiderio e dell’identità; il bisogno di affermarsi su entrambi questi livelli insieme, a costo di infrangere le regole del mondo in cui il bambino già vive e che prima o poi dovrà accettare (ma la trasgressione dilatoria è consapevole, e niente affatto sgradita); la scelta, infine, di attuare la propria rivolta mediante il linguaggio, per giunta appropriandosi dei significati ricevuti e distorcendoli: segno, questo, di un’evidente vocazione all’elaborazione formale personale. Vediamo quindi come la puerizia del piccolo Vittorio provi davvero la sua vocazione poetica; mostrandoci, però, come questa vocazione si articoli in un contesto repressivo, un po’ come quei popoli costretti dall’oppressione straniera ad elaborare una propria letteratura esortativa e oratoria.
Vi è spesso, in effetti, un elemento parenetico2 negli scritti di Alfieri: non a caso si poté fare di lui, prima e dopo la sua morte, un “profeta”. Ma questo elemento entra in gioco anche nei momenti più alti, nella forma di un’esortazione a se stessi; giacché l’ossessione del dichiararsi, del divenire se stessi, è al cuore della scrittura alfieriana. In ogni caso questa ossessione o vocazione stimolata dalla repressione ci viene descritta (anche, ma non solo, per non spiacere alla madre) in termini prepolitici, semplicemente psicologici:
Da questi sì fatti effetti d’amore ignoto intieramente a me stesso, ma pure tanto operante nella mia fantasia, nasceva, per quanto ora credo, quell’umor malinconico, che a poco a poco si insignoriva di me, e dominava poi sempre su tutte le altre qualità dell’indole mia.
Le successive «storiette» (così Alfieri chiama i suoi aneddoti infantili) sviluppano in vario modo le premesse di questa iniziale diagnosi di malinconia. La prima storietta racconta per esempio la messa in scena di un suicidio. Vittorio, oppresso da queste sue «disposizioni malinconiche», di nascosto dagli adulti (come nel primo episodio) fugge in un prato e si getta a mangiarne l’erba: nella speranza, spiega, di trovare tra di essa un po’ di cicuta. È ancora attraverso i libri che Vittorio esprime, sia pur disperatamente, una sua identità. Qui infatti entra chiaramente in gioco un ricordo socratico, forse una versione da Platone, e pare probabile che alla cicuta si associ la colpa di «corruzione dei giovani» (di Atene o del Carmine). Il rapporto privilegiato con il linguaggio è sempre esclusivo e trasgressivo: a esso corrisponde, nelle relazioni con gli adulti, il silenzio (altro tratto malinconico) e la reclusione. Alla fine dell’episodio, Vittorio si sente male a tavola; dopo una prolungata resistenza confessa i motivi del suo malore e viene confinato in camera.
Non occorre, in questa sede, dilungarsi in una lettura dettagliata di ciascuna storietta. Lo scenario ricorrente è quello che abbiamo descritto. Da una parte, il legame intenso con una figura maschile idealizzata, che assume diverse identità (in origine il padre, poi in diversi episodi i novizi del Carmine, infine, come vedremo, il cugino Antonio) ma serve comunque soprattutto da specchio dell’io; dall’altra, un’autorità materna repressiva (oppure divenuta tale dopo il tradimento delle seconde nozze). Tra questi due poli, un luogo privato in cui il bambino va silenziosamente e segretamente elaborando un proprio alfabeto simbolico profondo, sotto la suggestione di un istintivo interesse per la parola scritta, ma anche, paradossalmente, a causa dell’oppressione di un potere adulto e pubblico che vuole imporre l’accesso normalizzante al linguaggio comune. Si può aggiungere che Vittorio costruisce, in questo modo, un ventaglio abbastanza ampio di emblemi privati, come i famosi capelli rossi; e che al tempo stesso i suoi rapporti con il potere si organizzano in forme che preconizzano le opere future. Quando Alfieri ricorda, per esempio, che l’imposizione pubblica di una reticella che gli copriva i capelli (fuor di metafora, una restrizione alla sua indole) lo gettava nell’angoscia più cupa, e che «l’effetto straordinario in me cagionato da quel gastigo avea riempito di gioia i miei parenti e il maestro», abbiamo già a che fare con uno studio del tiranno.
Episodio dopo episodio, Vittorio si rinchiude in un isolamento sempre più allarmante. A ogni stimolo esterno, a ogni parola rivoltagli dai grandi (madre nonna maestri preti che interrogano ordinano rimproverano), risponde con il silenzio. Il momento di svolta si ha quando viene in visita il fratellastro Vittorio Antonio di Cacherano. I due stringono un’amicizia brusca ma intensa. Un giorno, mentre giocano, Vittorio cade sull’alare di un camino e si procura un taglio alla fronte; viene medicato e messo a letto per più giorni, al buio (si teme per l’occhio). Quando finalmente il bambino può rialzarsi, con la testa completamente bendata, ci aspetteremmo una crisi nervosa come quelle che seguivano l’imposizione della reticella. È Alfieri stesso a suggerire implicitamente che un tale esito sarebbe prevedibile. Ma lo suggerisce sottolineando l’esito contrario, raccontando cioè di essere andato «con molto piacere alla messa del Carmine», e parlando addirittura di «civetteria».
La benda infatti ha rivelato una valenza semantica inattesa, non è la traccia di un’umiliazione ma un segno di onore. A partire da questo punto la socializzazione di Vittorio (che finora ricordava per certi versi il «ragazzo selvaggio» di Itard3) è avviata. L’anno dopo andrà a studiare a Torino, accedendo così a quello spazio pubblico a cui la sua nascita lo destina. Il bambino-poeta non può rimanere chiuso nel suo privato linguaggio di emblemi, deve aprirsi alla comunicazione.
Tommaso Giartosio, Doppio ritratto, Fazi, Roma 1998