Al cuore della letteratura - volume 3

Il Settecento – L'opera: Vita

 T7 

La fuga da Parigi

Continuazione della quarta epoca, cap. 22


Nell’ultima epoca della Vita Alfieri appare un uomo diverso da quello delle parti precedenti. Nel racconto della sua fuga da una Parigi agitata dai rivoluzionari si può notare come il carattere dello scrittore sia diventato ancor più sdegnoso, essendosi egli attestato su posizioni fortemente reazionarie che lo spingono a una furiosa invettiva contro la Rivoluzione del 1789.

Fuga di Parigi, donde per le Fiandre e tutta la Germania tornati in Italia ci fissiamo in Firenze.
Impiegati, o perduti circa due mesi in cercare, ed ammobiliare una nuova casa,
nel principio del ’92 ci tornammo1 ad abitare; ed era bellissima e comodissima. Si
sperava ogni giorno, che verrebbe quello di un qualche sistema di cose soffribile;2
5 ma più spesso ancora si disperava che omai sorgesse un tal giorno. In questo stato
di titubazione,3 la mia donna4 ed io (come anche tutti, quanti n’erano allora in
Parigi ed in Francia, o ci aveano che fare pe’ loro interessi), andavamo strascinando
il tempo.5 Io fin da due anni e più innanzi, avea fatto venir di Roma tutti i miei
libri lasciativi nell’83, e da allora in poi li avea anche molto accresciuti sì6 in Parigi,
10 che in quest’ultimo viaggio di Inghilterra, e d’Olanda. Onde per questa parte poco
mi mancava ad avere ampiamente tutti i libri, che mi potessero esser utili o necessarj
nella ristretta mia sfera letteraria. Onde tra i libri, e la cara compagna, nessuna
consolazione domestica mi mancava; solamente mancavaci la speranza viva, e la
verisimiglianza che ciò potesse durare. Questo pensiero mi sturbava7 da ogni occupazione,
15 e mi tiravo innanzi per traduttore nel Virgilio e Terenzio,8 non potendo far
altro. Frattanto, né in quest’ultimo, né all’anteriore9 mio soggiorno in Parigi io non
volli mai né trattare, né conoscere pur di vista nessuno di quei tanti facitori di falsa
libertà,10 per cui mi sentiva la più invincibile ripugnanza, e ne aveva il più alto disprezzo.
Quindi anche sino a questo punto, in cui scrivo da più di quattordici anni
20 che dura questa tragica farsa,11 io mi posso gloriare di esser vergine di lingua di orecchi,
e d’occhi perfino, non avendo mai né visto, né udito, né parlato con qualunque
di codesti schiavi dominanti francesi, né con nessuno dei loro schiavi serventi.
Nel marzo di quell’anno ricevei lettere di mia madre, che furon l’ultime: ella vi
esprimeva con caldo e cristiano affetto molta sollecitudine di vedermi,12 diceva, «in
25 paese,13 dove sono tanti torbidi;14 dove non è più libero l’esercizio della cattolica 
religione, e dove tutti tremano sempre, ed aspettano continui disordini e disgrazie».
Pur troppo bene diceva, e presto si avverò; ma quando mi ravviai verso l’Italia,
la degnissima e veneranda matrona non esisteva più. Passò di questa vita il dì 23
aprile 1792, in età di anni settanta compiuti.
30 Erasi frattanto rotta la guerra coll’imperatore,15 che poi divenne generale e funesta.

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Venuto il giugno, in cui si tentò già di abbattere intieramente il nome del Re,16
che altro più non rimaneva; la congiura di quel giorno 20 giugno17 essendo andata
fallita, le cose strascinarono ancora malamente sino al famoso dieci d’agosto,18 in cui
la cosa scoppiò come ognuno sa.
35 Accaduto quest’avvenimento, io non indugiai più neppure un giorno, e il mio
primo ed unico pensiero essendo di togliere da ogni pericolo la mia donna, già
dal dì 12 feci in fretta in fretta tutti i preparativi per la nostra partenza. Rimaneva
la somma difficoltà dell’ottenere passaporti per uscir di Parigi, e del regno. Tanto
c’industriammo19 in quei due o tre giorni, che il dì 15, o 16, già gli avevamo ottenuti
40 come forestieri, prima dai Ministri di Venezia io, e di Danimarca la Signora,
che erano quasi che i soli Ministri esteri rimasti presso quel simulacro di Re.20
Poi con molto più stento si ottenne dalla sezione nostra comunitativa21 detta du
Montblanc degli altri passaporti, uno per ciascheduno individuo, sì per noi due,
che ogni servitore, e cameriera, con la pittura22 di ciascuno, di statura, pelo,23 età,
45 sesso, e che so io. Muniti così di tutte queste schiavesche patenti,24 avevamo fissato
la partenza nostra pel lunedì 20 agosto; ma un giusto presentimento, trovandoci
allestiti,25 mi fece anticipare, e si partì il dì 18, sabato, nel dopo pranzo. Appena
giunti alla Barrière Blanche, che era la nostra uscita la più prossima per pigliar
la via di San Dionigi per Calais,26 dove ci avviavamo per uscire al più presto di
50 quell’infelice paese; vi ritrovammo tre o quattro soli soldati di guardie nazionali,
con un uffiziale, che visti i nostri passaporti, si disponeva ad aprirci il cancello di
quell’immensa prigione,27 e lasciarci ire a buon viaggio.28 Ma v’era accanto alla
Barriera una bettolaccia,29 di dove sbucarono fuori ad un tratto una trentina forse
di manigoldi della plebe, scamisciati, ubriachi, e furiosi. Costoro, viste due carrozze
55 che tante n’avevamo, molto cariche di bauli, e imperiali,30 ed una comitiva
di due donne di servizio, e tre uomini, gridarono che tutti i ricchi se ne voleano
fuggir di Parigi, e portar via tutti i loro tesori, e lasciarli essi nella miseria e nei
guai. Quindi ad altercare31 quelle poche e tristi guardie con quei molti e tristi birbi,32
esse per farci uscire, questi per ritenerci.33 Ed io balzai di carrozza fra quelle
60 turbe,34 munito di tutti quei sette passaporti, ad altercare, e gridare, e schiamazzar
più di loro; mezzo col quale sempre si vien a capo dei Francesi. Ad uno ad uno si
leggevano, e facevano leggere da chi di quelli legger sapeva, le descrizioni delle nostre
rispettive figure. Io pieno di stizza e furore, non conoscendo in quel punto,35
o per passione sprezzando l’immenso pericolo, che ci soprastava, fino a tre volte
65 ripresi in mano il mio passaporto, e replicai ad alta voce: «Vedete, sentite; Alfieri

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è il mio nome; Italiano e non Francese; grande, magro, sbiancato; capelli rossi,
son io quello, guardatemi; ho il passaporto; l’abbiamo avuto in regola da chi lo
può dare; e vogliamo passare, e passeremo per Dio». Durò più di mezz’ora questa
piazzata, mostrai buon contegno, e quello ci salvò. Si era frattanto ammassata più
70 gente intorno alle due carrozze, e molti gridavano: «Diamogli il fuoco a codesti
legni». Altri: «Pigliamoli a sassate». Altri: «Questi fuggono; son dei nobili e ricchi,
portiamoli indietro al Palazzo della Città,36 che se ne faccia giustizia». Ma insomma
il debole ajuto delle quattro guardie nazionali, che tanto qualcosa diceano per
noi, ed il mio molto schiamazzare, e con voce di banditore replicare e mostrare i
75 passaporti, e più di tutto la mezz’ora e più di tempo, in cui quei scimiotigri37 si
stancarono di contrastare,38 rallentò l’insistenza loro; e le guardie accennatomi di
salire in carrozza, dove avea lasciato la Signora, si può credere in quale stato, io
rientratovi, rimontati i postiglioni39 a cavallo si aprì il cancello, e di corsa si uscì,
accompagnati da fischiate, insulti e maledizioni di codesta genia. E buon per noi
80 che non prevalse di essere ricondotti40 al Palazzo di Città, che arrivando così due
carrozze in pompa stracariche, con la taccia41 di fuggitivi, in mezzo a quella plebaccia
si rischiava molto; e saliti poi innanzi ai birbi della Municipalità, si era certi
di non poter più partire, d’andare anzi prigioni,42 dove se ci trovavano nelle carceri
il dì 2 settembre, cioè quindici giorni dopo, ci era fatta la festa43 insieme con tanti
85 altri galantuomini che crudelmente vi furono trucidati. Sfuggiti di un tale inferno,
in due giorni e mezzo arrivammo a Calais, mostrando forse quaranta e più volte
i nostri passaporti; ed abbiamo saputo poi che noi eramo stati i primi forestieri
usciti di Parigi, e del regno dopo la catastrofe del 10 agosto. […]

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Il capitolo descrive la fuga rocambolesca e drammatica di Alfieri da Parigi, insieme all’amata contessa d’Albany. Lo scrittore mostra tutto il suo disprezzo per i rivoluzionari francesi, che reputa, con un ossimoro*, schiavi dominanti (r. 22), indicando con l’espressione una condizione di subalternità plebea da cui essi non si potranno liberare mai, nemmeno prendendo le leve del potere. Da questi facitori di falsa libertà (rr. 17-18) Alfieri dichiara di essersi tenuto sempre alla larga, rifugiandosi nelle consolazioni dell’amore e dello studio. Pieno di stizza e furore (r. 63), egli intende abbandonare la Francia, che non rappresenta più ai suoi occhi una fucina di libertà, ma una terra di violenza, teatro di un regime politico fondato sul terrore.
La condanna alfieriana degli eventi che hanno scosso la Francia dopo il 1789 mostra come lo spirito antitirannico che aveva animato la riflessione politica (e il temperamento) dello scrittore fin dalla giovinezza non si rivolga soltanto contro i regimi monarchici e assolutisti, ma anche verso forme di governo democratiche e radicali che, ai suoi occhi, costituiscono una nuova forma di oppressione. Ma il cambiamento di giudizio sulla Rivoluzione francese deriva anche da un mutamento della sua visione del mondo, che lo porta su posizioni sempre più reazionarie.

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La descrizione di sé che Alfieri grida ai rapitori, sfidandoli a viso aperto, ricorda il ritratto che, in forma poetica, compare nel sonetto Sublime specchio di veraci detti► T4, p. 460), e che costituisce il filo rosso della narrazione autobiografica. In realtà, la personalità e il carattere dello scrittore si sono evoluti rispetto ai tempi descritti nelle prime due parti dell’opera: egli non è più un uomo in perenne fuga verso paesaggi estremi; non più l’amante insoddisfatto che passa da una donna all’altra, ma un uomo ormai appagato dai suoi affetti e dalle consolazioni domestiche (rr. 12-13).
Eppure, nonostante la presenza della contessa d’Albany rassereni l’animo indomito di Alfieri, la percezione della noia e di un’inquietudine di fondo continuano ad accompagnarlo, anche nell’ultima epoca della Vita. Ad acuire tale stato d’animo si aggiungono qui le difficoltà legate alle circostanze: l’incertezza, l’impossibilità di partire, l’attesa dei passaporti, lo sdegno per la piega presa dagli eventi rivoluzionari.

Le scelte stilistiche

Sul piano stilistico il brano presenta un originale impasto di eroismo avventuroso e abbassamento ironico. Il racconto, pur drammatico, non è infatti privo di momenti quasi comici: tale è per esempio l’atteggiamento dello scrittore durante la discussione con i birbi (rr. 58-59) che lo vorrebbero derubare, quando egli si vede costretto a schiamazzare, e con voce di banditore replicare (r. 74), immagine più ridicola che drammatica. Lo stesso piglio retorico che egli usa con i banditi («Vedete, sentite; Alfieri è il mio nome; Italiano e non Francese; […] vogliamo passare, e passeremo per Dio», rr. 65-68) contrasta con il contesto tutt’altro che solenne in cui viene adottato. Ironico – o meglio sarcastico – è anche il commento secondo cui altercare, e gridare, e schiamazzar più di loro (rr. 60-61) è il mezzo col quale sempre si vien a capo dei Francesi (r. 61).

A creare vivacità e turbamento contribuiscono lo stile vibrante, le battute brevi, le esclamazioni (per Dio, r. 68), il ricorso a parole dall’accentuata espressività (piazzata, r. 69; schiamazzare, r. 74, e così via) e il procedimento sintattico di coordinazione per asindeto*, che conferisce alle scene un ritmo concitato.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Riassumi in circa 10 righe il contenuto del passo.


2 Dividi il brano in sequenze e assegna un titolo a ciascuna di esse.


3 Perché Alfieri fugge da Parigi?

ANALIZZARE

4 Quali registri linguistici sono presenti nel brano antologizzato? Individua per ciascun registro alcune parole o espressioni che ritieni significative.


5 Da quali elementi emerge la vena ironica di Alfieri?

INTERPRETARE

6 Perché Alfieri definisce la Rivoluzione francese una tragica farsa (r. 20)?


7 I popolani vengono definiti scimiotigri (r. 75): che cosa vuole sottolineare l’autore con questo epiteto?


8 Delinea la visione politica di Alfieri che emerge dal brano.


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