Come scriveva Alfieri?
Molti scrittori custodiscono gelosamente, come un segreto, il proprio
metodo di scrittura. Non è il caso di Alfieri, che nella sua autobiografia
racconta nel dettaglio le fasi di composizione delle tragedie
Le tre fasi della scrittura
Alfieri definisce «respiri» i tre passaggi della sua scrittura teatrale: «ideare», «stendere», «verseggiare». Il primo momento consiste nel suddividere la storia in atti e in scene; poi viene fissato il numero dei personaggi; quindi, come afferma con piglio autoironico e schietto, «in due paginucce di prosaccia si fa quasi l’estratto a scena per scena di quel che diranno e faranno».
Lo «stendere» è la fase in cui la prosa diventa dialogo e in cui si aggiungono i pensieri dei personaggi, dando spessore psicologico alla tragedia. In questo momento, ciò cui Alfieri bada è l’«impeto» della scrittura, quasi per il timore di farsi sfuggire i concetti che più gli stanno a cuore, «senza punto badare al come», cioè alla forma. È solo nel terzo e ultimo «respiro», il «verseggiare», che l’autore condensa le idee velocemente appuntate sulla pagina, selezionando i pensieri e i dialoghi essenziali.
La tecnica dopo l’ispirazione
Ma qual è la disposizione d’animo migliore per verseggiare? Secondo Alfieri, bisogna lasciar passare del tempo, in modo da far «riposare l’intelletto», così appassionato nella folgorazione dell’idea e nella successiva furia della prima scrittura. Solo in questa maniera si potrà imprimere alla tragedia il ritmo ideale.
A questo punto il testo è diventato poesia. Resta l’ultimo e forse più difficile compito, quello di «successivamente limare, levare, mutare», ossia perfezionare, cancellare e continuamente ricercare la parola più adatta.