Il Settecento – L'autore: Carlo Goldoni

LETTURE critiche

La ricchezza del mondo goldoniano

di Giorgio Strehler

Giorgio Strehler (1921-1997) è il regista teatrale che, nella seconda metà del Novecento, ha maggiormente contribuito a rinnovare l’interesse per le commedie di Goldoni in Italia e all’estero. Egli presenta qui il rapporto tra il commediografo e il mondo come caratterizzato dalla verità e dalla sincerità. Rivela inoltre la grande lezione che egli stesso ha tratto dalla sua opera: il riconoscimento dell’immensa ricchezza che ogni essere umano ha in sé e del valore dei rapporti tra le persone.

La chiave veramente importante per capire Goldoni è contenuta in una semplice frase, nel VI tomo delle edizioni Pasquali,1 cioè nel cuore delle sue memorie italiane, opera rimasta incompiuta: «Le due guide alla vita, io le ho studiate sui miei due libri: mondo e teatro». Credo che non ci sia una dichiarazione più chiara di un programma. Il mondo. Cos’è il mondo? La vita concreta. I rapporti fra le creature umane. L’esistenza di una coralità di azioni e di reazioni nel movimento incessante delle creature che lo popolano. La cosa più straordinaria è la ricchezza del suo cosmo: uomini, giovani, vecchi, di cui alcuni non tanto importanti, né sconvolgenti. Tutti insieme, però, costituiscono una specie di cosmo meraviglioso della vita umana, con i suoi difetti, le sue cose belle, le tenerezze, le asprezze, le incapacità di capire, le capacità di capire, di amare, di non amare. Insomma, questo mondo variegato e diverso è «il mondo». Naturalmente è il suo mondo, quello che ha vissuto, ha visto, e che non può essere racchiuso in una sola persona. In questo senso, nulla è più lontano da Molière di quanto non lo sia Goldoni. Molière è stato un genio che ha saputo darci alcuni caratteri fondamentali, immortali figure dell’avventura umana. Intorno a questi, altri personaggi che agiscono e che hanno qualcosa da dire. Ma in fondo l’avaro è l’avaro, come il misantropo è il misantropo e il malato immaginario non è altri che se stesso: poi vengono tutti gli altri. In Goldoni questo protagonista drammatico, tragico, comico, comico, tragico, drammatico, intorno al quale ruota un piccolo mondo, non esiste: c’è il mondo di tanti altri e in più il suo. Il teatro, per Goldoni, è un mezzo d’arte preso per vocazione e vissuto implacabilmente come missione: la missione di comunicare con il mondo attraverso il teatro e i suoi interpreti. Così Goldoni considera il suo destino di autore di teatro come quello di chi parla del mondo soltanto con il teatro e vive il teatro soltanto come parabola o parafrasi del mondo. Goldoni fu un autore di teatro, un letterato, uno che scriveva per il teatro e nel medesimo tempo faceva teatro. Le due cose andavano insieme. […]
Nell’arte, il messaggio, la comunicazione, il senso dell’opera e il suo godimento sono in un rapporto strettamente dialettico. Senza questo rapporto, non esiste arte. La mancata comprensione di questo rapporto ha creato un equivoco sempre più penalizzante per l’opera di Carlo Goldoni. L’equivoco, per esempio, del moralismo, della piacevolezza sempre sorridente, del gioco comico musicale e di tutta la sua teatralità. Queste sono posizioni errate. Se si pensa che nella dedica alla Donna di governo si dice: «Il vero non si può nascondere», e ne I rusteghi: «Ma più di tutto mi accertai che sopra del meraviglioso la vince nel cuore dell’uomo il semplice ed il naturale». Non ho mai capito perché non si sia voluto, ed in parte ancora non si voglia, non accettare il vero significato di questo «onestamente» che riguarda l’unica possibilità e l’unica onestà possibile per l’artista, cioè «la sincerità». Che cos’è l’onestà dell’artista? La sincerità. Capire il reale, innalzarlo a fatto d’arte, per divertire, cioè per far amare, con sincerità, senza artifici, senza ricorrere ai vari meravigliosi, ma cercando la semplicità, la naturalezza del calore, della partecipazione affettuosa, del destino degli altri, che è il carattere fondamentale del lato creativo. E qual è dunque la filosofia, di cui mi sono servito: «Quella che abbiamo impressa nell’anima, quella che dalla ragione viene insegnata, quella che dalla lettura e dalle osservazioni si perfeziona, quella che infine dalla vera poesia deriva, non già bassa poesia che chiamasi versificazione, ma della poesia sublime che consiste nell’immaginare, nell’inventare, nel vestire le favole di allegria, di metafore e di mistero», dice Goldoni.
Questo piccolo pezzo di confessione estetica di Goldoni è di una complessità tremenda, perché da una parte spiega che bisogna partire dal vero, ma il vero soltanto non basta, bisogna innalzarlo, ma innalzarlo con forza poetica per arrivare a immaginare, inventare, a vestire le favole. Le favole sono le trame, le storie di allegorie, di metafora e di mistero. Voi capite, quando facciamo Il campiello, ogni sera sentiamo qualcosa che pochi sentono: c’è una zona di mistero nell’opera di Goldoni, una traccia poetica non definibile. Sentiamo che c’è una estrema verità di rapporti ma anche qualcosa di più. Pensate sia un caso che Le baruffe chiozzotte si svolgano in un piccolo paese di mare, vicino a Venezia, dove la gente continua a litigare e continua ad amarsi, non amarsi, capirsi, non capirsi, dove tutto è incerto? No, tutto questo mobilitarsi si svolge stranamente in un giorno, in una città completamente avvolta dal mare, dalla natura, dal vento, e voi capite che questa è una simbologia: una piccola isola come Mondo in cui gli uomini vivono la nostra vita, sempre fatta di incertezza. Ci sarà sempre una lite, ci sarà sempre un’incomprensione, ci sarà sempre un incontro d’amore, ci sarà sempre una persona che non capiremo. Ci sarà sempre tutto quello che c’è nelle Baruffe chiozzotte: la variabilità eterna degli animi umani che si amano, non si amano, si capiscono, si vogliono bene, non si vogliono bene, senza mai fine. In Goldoni esiste sempre una grande proiezione simbolica del destino dell’uomo. Ecco perché il piccolo Goldoni che parla di questa coralità dell’uomo, che parla con la gente dell’uomo nella sua verità, a poco a poco finisce per innalzare queste piccole verità alle soglie dell’universalità. Gozzi e gli altri nemici del Goldoni non capirono assolutamente niente di tutto ciò. Dicevano che copiava la verità, stenografava il dialogo della povera gente e che la sua non era poesia.
[…]
Goldoni mi ha insegnato che la vita è sorprendente, che non bisogna mai aspettarsi le cose immutabili, perché nella vita tutto cambia: mai nessuno è cattivo fino in fondo, mai nessuno è buono fino in fondo. Occorre sempre vivere con estrema attenzione, con estrema comprensione degli altri, perché siamo tutti in movimento, un moto molte volte impercettibile, che ci fa modificare e ci modifica. Goldoni mi ha dato questa sensazione. Mi ha insegnato anche il coraggio, il coraggio della missione e della vocazione, che non deve essere un programma scritto, ma un programma interiore: fai questo perché non puoi fare altro. Questa è una cosa molto importante, sapere che siamo tutti importanti, anche se non riusciamo a esserlo abbastanza, anche se non abbiamo la grande luce dei riflettori sopra di noi; sapere che una società decente non è fatta da sette grandi uomini e da sette grandi donne, ma da milioni di uomini e donne per bene, intelligenti abbastanza, colti abbastanza, umani abbastanza. Da questi nascerà qualcuno che andrà avanti più di altri. Nessuno nasce nel vuoto, così, in un paese senza cultura, dove non ci sia amore, dove non ci sia entusiasmo, dove non ci sia nulla. Non aspettiamoci mai il genio che risolve. A me Goldoni ha insegnato soprattutto questo e quindi mi ha riscaldato il cuore, con la certezza che vi può essere altro, ma non ci può essere teatro, non ci può essere rappresentazione, non ci può essere niente senza che il valore dell’umano non regga e non illumini continuamente il nostro cammino. Senza quella luce non c’è niente.


Giorgio Strehler, Goldoni ed il Teatro, in “Quaderns d’Italià” (Universitat Autònoma de Barcelona), 2, 1997

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Ridolfo, il vero maldicente della Bottega del caffè

di Roberto Alonge

Roberto Alonge (n. 1942) offre una lettura della Bottega del caffè alternativa a quella consueta. Nel suo saggio, di cui riportiamo alcuni tra i passi più significativi, il critico mostra come Ridolfo, tradizionalmente considerato il personaggio virtuoso e riservato, non sia in realtà molto diverso dal maldicente Don Marzio, cui lo legherebbe una certa complicità.

La commedia è stata letta (a torto) come incentrata sul personaggio di don Marzio, il maldicente, cui si contrapporrebbe l’eroe positivo, il caffettiere Ridolfo. Don Marzio «siede al caffè, guardando la pellegrina coll’occhialetto». È curioso il paradosso di questo voyeur che è miope, che ha bisogno di guardare con l’occhialetto per compensare un manco di visus1 (è lo stesso personaggio a riconoscerlo: «È vero, che ho corta vista, ma la memoria mi serve»).2 E in realtà il voyeur è sempre, per definizione, di corta vista, può persino essere cieco. Perché è chiaro che guarda con l’occhio della mente, ossessionato innanzitutto dai propri fantasmi interiori. Ma, al di là di questa piccola e geniale invenzione del voyeur-miope, don Marzio resta figura schematica, che funziona semmai – più suggestivamente – quale capro espiatorio di un’intera comunità, colta in termini critici, che non risparmiano nessuno, e tanto meno il caffettiere Ridolfo.
Accostiamoci con attenzione all’inizio della commedia. Atto primo, scena prima. Inizia a parlare il protagonista, Ridolfo: «Animo, figliuoli, portatevi bene; siate lesti, e pronti a servir gli avventori, con civiltà, con proprietà: perché tante volte dipende il credito d’una bottega, dalla buona maniera di quei che servono». Fa tutto lui, l’animatore, il coordinatore, con giusto piglio paternalistico («figliuoli»). Il paternalismo tempera comandi e imperativi («portatevi bene; siate lesti»). Il moralismo di cui Ridolfo ha piene le tasche distilla la prima sentenza che chiude con forte impressività la battuta introduttiva: «tante volte dipende il credito d’una bottega, dalla buona maniera di quei che servono». […]
S’intende che Ridolfo è anche il portavoce di un mondo industrioso, fatto di dinamismo, di lavoro, di viaggi («A buon’ora vengono quelli che hanno da far viaggio, i lavoranti, i barcaruoli, i marinai, tutta gente che si alza di buon mattino»). C’è in lui una moralità di fondo sana, l’orgoglio di fare un mestiere pulito, socialmente utile, deontologicamente corretto (si rifiuta di fare il caffè con gli avanzi del giorno prima). Ma il punto interessante è che in Ridolfo emergono risvolti più ambigui. Trappola osserva che nella bisca «hanno fatto nottata», e Ridolfo commenta pungentemente: «Buono. A messer Pandolfo averà fruttato bene». Trappola compatisce Eugenio, attaccando il biscazziere Pandolfo («Quel povero signor Eugenio! Lo ha precipitato»), ma Ridolfo attacca la vittima di Pandolfo: «Guardate anche quello, che poco giudizio! Ha moglie, una giovane di garbo, e di proposito, e corre dietro a tutte le donne, e poi di più giuoca da disperato». E si noti che critica Eugenio non solo in quanto giocatore, frequentatore della bisca, ma anche in quanto donnaiolo: che è una aggiunta di maldicenza non pertinente e non richiesta (che è poi proprio la caratteristica della maldicenza). Si è sempre insistito sulla malignità di don Marzio, ma non si è visto che c’è una malignità di Ridolfo. […]
Insomma, a ben ragionare, Ridolfo ha in sé una dose di moralità che nasconde poi, in definitiva, una solida pratica di calcolo. Pandolfo pretende un caffè gratis per i clienti che indirizza alla bottega, ma Ridolfo vuole i clienti e vuole anche il caffè pagato da Pandolfo. Preferisce la sua bottega del caffè alla bottega del gioco d’azzardo, ma unicamente per un attento bilanciamento dei vantaggi e degli svantaggi: «No, no, caffè, caffè; giacché col caffè si guadagna il cinquanta per cento, che cosa vogliamo cercar di più?». Il cinquanta per cento di profitto in un commercio pulito è meglio di un profitto maggiore in un commercio pericoloso, che può portare a finire in carcere.
Ma c’è di più. Non possiamo nemmeno fermarci a questa impressione di un Ridolfo pronto al dialogo quotidiano con Pandolfo per puro interesse professionale, al fine di garantirsi la clientela della bisca. Basta registrare la martellante sequela di punti interrogativi lanciati instancabilmente da Ridolfo, uno dopo l’altro, sin da 1, 2 («Giocano ancora in bottega? [...] Così presto? [...] A che giuoco? [...] E come va? [...] Vi siete divertito anche voi a giuocare? [...] Il signor Eugenio ha giuocato questa notte? [...] Quanto avrà perduto? […] Con chi giuoca? [...] Con quello sì fatto? [...] E con chi altri?»), per capire che c’è in Ridolfo una curiosità pungente e pettegola, che sta bene alla pari di quella di don Marzio. Diciamola in modo svelto e un po’ provocatorio: don Marzio è il maldicente, ma la sua maldicenza si alimenta alla bottega del caffè, che è lo spazio istituzionale che fa circolare ogni pettegolezzo. Don Marzio è solo il bouc émissaire di un clima e di una complicità collettivi.
Con la scena seguente, 1, 3, fa finalmente il suo ingresso don Marzio, il protagonista cattivo. Ma basta sentirlo parlare in duetto con Ridolfo per comprendere una volta di più che c’è un maldicente più maldicente di don Marzio. «Sarà in casa a carezzare la moglie. [...] Sempre moglie, sempre moglie», dice quest’ultimo di Eugenio, «bevendo il caffè», e Ridolfo in pronta risposta: «Altro che moglie! È stato tutta la notte a giuocare qui da messer Pandolfo». La bottega del caffè è davvero il luogo geometrico da cui si dipartono le indiscrezioni. Insieme al caffè don Marzio beve le ultime notizie, ed è Ridolfo a propalarle, anche se naturalmente occulta la sua vocazione alla malignità sotto l’apparenza della riservatezza. Ha appena finito di regalare a don Marzio la novità di Eugenio che ha passato la notte a giocare, che subito si mostra scandalizzato perché don Marzio racconta di aver prestato dieci zecchini allo stesso Eugenio («Tutti gli uomini sono soggetti ad avere qualche volta bisogno; ma non hanno piacere poi che si sappia, e per questo sarà venuto da lei, sicuro che non dirà niente a nessuno»). Don Marzio non deve dire niente a nessuno di Eugenio, ma Ridolfo è libero di dire a don Marzio di Eugenio. In verità Ridolfo ripete troppo spesso «Voglio badare a’ fatti miei» perché non si comprenda facilmente che la sua ossessione personale è di occuparsi troppo dei fatti degli altri.


Roberto Alonge, Ma è Ridolfo, e non Don Marzio, il vero maldicente della Bottega del caffè, in Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese, Garzanti, Milano 2004

Al cuore della letteratura - volume 3
Al cuore della letteratura - volume 3
Il Seicento e il Settecento