Al cuore della letteratura - volume 3

Il Settecento – L'opera: Dei delitti e delle pene

 T2 

Contro la pena capitale

Par. 28


Il paragrafo, di cui riportiamo le prime pagine, è giustamente celebre: a partire dalla sua concezione delle pene – da intendersi non come vendetta della società sul colpevole, ma come disincentivo ai delitti, in virtù del loro effetto dissuasivo – Beccaria condanna senza appello l’istituto della pena di morte.

28. Della pena di morte
Questa inutile prodigalità di supplicii,1 che non ha mai resi migliori gli uomini, mi
ha spinto ad esaminare se la morte2 sia veramente utile e giusta in un governo bene
organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare
5 i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non
sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno;3 esse
rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai
colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai
nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra
10 tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che
l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo
diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre4 ho dimostrato che tale5
essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria
15 o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte
né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.
La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il
primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza
che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre
20 una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche
cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà,
o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi;
ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i
voti della nazione siano riuniti,6 ben munita7 al di fuori e al di dentro dalla forza8
25 e dalla opinione,9 forse più efficace della forza medesima, dove il comando10 non
è che presso il vero sovrano,11 dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità,12
io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui
morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti,
secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte.
30 Quando la sperienza di tutt’i secoli,13 nei quali l’ultimo supplicio14 non ha
mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio
dei cittadini romani,15 e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di

 >> pag. 277 

Moscovia,16 nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio, che equivale
almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria,17 non persuadessero
35 gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed
efficace quello dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la
verità della mia assersione.18
Non è l’intensione19 della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma
l’estensione20 di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente
40 mossa da minime ma replicate21 impressioni che da un forte ma passeggiero movimento.
L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente,22 e come
l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni23 col di lei aiuto, così l’idee
morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse.24 Non
è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e
45 stentato25 esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio,26
ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte
contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno27 sopra di noi
medesimi, io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti,
è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon28 sempre
50 in una oscura29 lontananza.
La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta
dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose più essenziali, ed accelerata
dalle passioni. Regola generale: le impressioni violenti30 sorprendono gli uomini,
ma non per lungo tempo, e però31 sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini
55 comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni;32 ma in un libero e tranquillo
governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti.
La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di
compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più
l’animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare.33
60 Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo34 perché è
il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere
nel sentimento di compassione,35 quando comincia a prevalere su di ogni
altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio più fatto per essi che per il reo.36

 >> pag. 278 

Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che
65 bastano a rimuovere gli uomini dai delitti;37 ora non vi è alcuno che, riflettendovi,
scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso
possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua38
sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo
determinato;39 aggiungo che ha di più:40 moltissimi risguardano la morte41 con
70 viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna
l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non
vivere o di sortir di miseria;42 ma né il fanatismo né la vanità stanno43 fra i ceppi o
le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non
finisce i suoi mali, ma gli44 comincia. L’animo nostro resiste più alla violenza ed
75 agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed all’incessante noia;45 perché egli
può per dir così condensar tutto se stesso per un momento per respinger i primi,46
ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei
secondi.47 Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone48 un
delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli
80 esempi, e se egli49 è importante che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le
pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono
la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio sia utile bisogna che
non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e
non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa
85 quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti
i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, ma questi sono stesi
sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo
il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre;
perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è
90 dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono
nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non
conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità
all’animo incallito dell’infelice. […]

 >> pag. 279 

      Dentro il testo

I contenuti tematici

In queste pagine – le più famose del trattato – viene sviluppata un’autorevole ed efficace critica alla pena di morte, di cui si auspica esplicitamente l’abolizione. Idee contrarie alla pena capitale erano state manifestate fin dal Medioevo in circoscritti ambiti teologici e filosofici, ma le posizioni abolizioniste avevano sempre avuto scarsa risonanza. Gli stessi ispiratori del pensiero di Beccaria, pur lamentando l’arretratezza degli ordinamenti penali loro contemporanei, non avevano palesato una particolare ostilità nei confronti della pena capitale: nello Spirito delle leggi (1748) Montesquieu aveva affermato che l’omicida merita la morte, mentre nel Contratto sociale (1762) Jean-Jacques Rousseau aveva giustificato il ricorso alla pena capitale nei confronti degli assassini o dei «nemici pubblici».
Negli stessi anni, tuttavia, compaiono anche prese di posizione diverse. Nel 1760 il giurista fiorentino Giuseppe Bencivenni Pelli (1729-1808) è autore di una dissertazione nella quale contesta la validità della pena capitale con motivazioni umanitarie e contrattualiste che anticipano quelle di Beccaria, mentre nel 1764 l’illuminista austriaco Joseph von Sonnenfels (1733-1817) nega che la pena di morte risponda agli specifici scopi preventivi che devono essere propri delle pene. È però soltanto grazie alla pubblicazione del trattato di Beccaria che l’istanza abolizionista penetra in modo definitivo nel dibattito culturale. Un dibattito ancora aperto: a oltre due secoli e mezzo di distanza dalla pubblicazione di Dei delitti e delle pene, il problema della pena di morte resta drammaticamente attuale, essendo essa tuttora prevista non solo da numerosi regimi totalitari, ma anche da alcuni ordinamenti democratici.

Beccaria affronta il tema della pena di morte nel paragrafo 28 del trattato, dopo avere discusso, in quello precedente, della «Dolcezza delle pene». Su quest’ultimo punto l’autore osserva come l’atrocità dei supplizi sia contraria ai princìpi di umanità, leda il principio di proporzionalità tra delitto commesso e punizione inflitta, e risulti per di più inefficace, in quanto ciò che conta affinché una pena ottenga il suo effetto (vale a dire la deterrenza) non è la crudeltà dei castighi, ma la loro infallibilità (cioè la certezza della pena). È proprio a partire dalla constatazione dell’inutilità di questa prodigalità di supplicii (r. 2) che l’autore giunge a discutere se la pena di morte sia veramente utile e giusta. Egli sviluppa essenzialmente due argomenti, che, basati sui princìpi del contrattualismo e dell’utilitarismo, intendono dimostrare l’illegittimità e l’inutilità della pena di morte.

Il primo argomento afferma che la pena di morte è giuridicamente illegittima in quanto non prevista dal patto con cui si è costituita la società e dal quale discendono le leggi e la sovranità stessa. Il diritto di punire si basa sì su una delega contenuta in tale patto, ma con questa delega il singolo non ha affatto concesso ad altri l’arbitrio di ucciderlo (r. 8). Le leggi che attuano il diritto di punire, infatti, sono costituite dalla somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno (r. 6), e in questo minimo sacrificio della libertà (r. 9) non è compreso quello massimo tra tutti i beni (rr. 9-10), la vita.
Nella concezione di Beccaria, d’altra parte, la vita costituisce un diritto naturale indisponibile (tanto che l’uomo non è padrone di uccidersi, r. 11), e di conseguenza nessuno può avere ceduto il diritto alla vita, dal momento che non si può cedere una cosa di cui non si dispone.

 >> pag. 280 

Il secondo argomento, di tipo utilitaristico, rappresenta la parte maggiormente articolata del discorso di Beccaria, con cui l’autore intende dimostrare che la pena di morte risulta meno efficace – sempre nell’ottica della deterrenza, vero scopo delle pene – della detenzione perpetua (ossia dell’ergastolo). Il ragionamento prende le mosse dall’individuazione di due situazioni ipotetiche nelle quali la morte di un cittadino può credersi (r. 17) utile o necessaria, e cioè quando – nei periodi di guerra civile e di anarchia – un soggetto, pur privato della libertà, abbia relazioni e potenza tali da rappresentare una minaccia per la sicurezza della nazione e per la forma di governo stabilita (rr. 18-20); oppure quando, anche in una situazione di normalità (durante il tranquillo regno delle leggi, r. 23), tale pena costituisca l’unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti (r. 28). La formulazione di queste due ipotesi ha indotto alcuni studiosi a ritenere la posizione di Beccaria contraddittoria e non pienamente abolizionista. In realtà, il ripetuto e sapiente ricorso all’espressione può credersi indica come Beccaria non preveda, nell’ambito dello Stato di diritto, alcun caso in cui la pena di morte possa essere giusta, utile e necessaria. Del resto, la prima delle due ipotesi configura una situazione di assenza o di sospensione delle leggi (quando i disordini stessi tengon luogo di leggi, r. 22), e non può dunque essere utilizzata per dimostrare la necessità della pena di morte in una società civile; quanto alla fondatezza della seconda ipotesi, essa è smentita sia dall’esperienza storica, sia dall’esame della natura umana.
In ordine a questo secondo punto, Beccaria ricorda che la storia (la sperienza di tutt’i secoli, r. 30) dimostra come la pena capitale (l’ultimo supplicio, r. 30) non abbia mai costituito un utile deterrente (cioè non abbia distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, r. 31). A questo scopo, molto più efficace dell’intensità della pena è la sua estensione nel tempo (Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa, rr. 38-39). Il massimo effetto dissuasivo non discende dallo spettacolo terribile ma passeggiero (r. 44) della morte di un criminale, che impressiona gli animi per breve tempo, ma dall’esempio di un soggetto privato della propria libertà per lungo tempo (dal lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, rr. 44-46). La schiavitù perpetua (rr. 67-68), cioè appunto la reclusione a vita, deve dunque sostituire la pena di morte, la cui presunta esemplarità ha addirittura effetti contraddittori, arrivando a suscitare la solidarietà dei cittadini nei confronti del condannato (divenendo oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni, rr. 57-58).

Le scelte stilistiche

Nelle argomentazioni qui esaminate il presupposto utilitarista ha una decisa prevalenza sugli altri elementi ideali – a cominciare da quello umanitario, pur presente – che concorrono a formare il pensiero di Beccaria. Anche le scelte stilistiche contribuiscono a sostenere l’uno o l’altro approccio. Come si è già visto, una prosa asciutta e sobria caratterizza lo stile del trattato nei passaggi in cui la concatenazione logica degli argomenti è più serrata e puntuale. Ciò non toglie che la scrittura di Beccaria sappia allontanarsi dall’oggettività propria della prosa filosofica e giuridica, per esprimere invece il punto di vista soggettivo del condannato, attraverso l’evocazione viva e concreta della sua situazione. È il caso della descrizione dello stato di schiavitù perpetua (rr. 67-68), in cui il reo è paragonato a una bestia di servigio (r. 45) destinata a trascorrere la vita fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro (rr. 72-73). Gli oggetti propri dell’ambiente di detenzione sono quasi uno specchio della condizione psicologica ed esistenziale del condannato, e il suo punto di vista emerge chiaramente quando l’autore ricorda come la condanna non rappresenti la fine, ma l’inizio dei suoi mali, delineando un regime potenzialmente più crudele della pena capitale (anche se tale condizione, in realtà, spaventa più chi la vede che chi la soffre, r. 88, dal momento che chi la subisce finisce per concentrarsi sull’infelicità del momento presente, perdendo di vista l’assenza di prospettive future).

 >> pag. 281 

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Perché, secondo Beccaria, l’applicazione della pena di morte non può essere un diritto dello Stato?


2 In quali circostanze secondo Beccaria si potrebbe essere portati a ritenere ammissibile la pena capitale?


3 Che cosa significa che in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti (rr. 55-56)? A quale argomento è riferita la frase?

ANALIZZARE

4 Quale figura retorica riconosci nella frase il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell’autorità (rr. 35-36)?

  •   A   Litote.
  •     Anafora.
  •     Anastrofe.
  •     Chiasmo.

INTERPRETARE

5 Spiega la seguente affermazione: perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo (rr. 82-84).


 T3 

Prevenzione ed educazione

Parr. 41 e 45


Dai temi della repressione e della punizione, che veniva concepita tradizionalmente (ma non da Beccaria) come espiazione di colpe morali e religiose, l’accento passa, negli ultimi paragrafi del trattato, a quelli della prevenzione dei delitti e dell’educazione dei cittadini.

41. Come si prevengano i delitti
È meglio prevenire i delitti che punirgli.1 Questo è il fine principale d’ogni buona
legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo
d’infelicità possibile, per parlare secondo tutt’i calcoli dei beni e dei mali della
5 vita.2 Ma i mezzi impiegati fin ora sono per lo più falsi3 ed opposti al fine proposto.
Non è possibile il ridurre la turbolenta attività degli uomini ad un ordine
geometrico senza irregolarità e confusione. Come le costanti e semplicissime leggi
della natura non impediscono che i pianeti non si turbino nei loro movimenti,
così nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono
10 impedirsene dalle leggi umane i turbamenti ed il disordine.4 Eppur questa è la chimera5
degli uomini limitati,6 quando abbiano il comando in mano. Il proibire una

 >> pag. 282 

moltitudine di azioni indifferenti7 non è prevenire i delitti che ne possono nascere,
ma egli8 è un crearne dei nuovi, egli è un definire a piacere la virtù ed il vizio, che ci
vengono predicati eterni ed immutabili. A che saremmo ridotti, se ci dovesse essere
15 vietato tutto ciò che può indurci a delitto? Bisognerebbe privare l’uomo dell’uso
de’ suoi sensi. Per un motivo che spinge gli uomini a commettere un vero delitto,
ve ne son mille che gli9 spingono a commetter quelle azioni indifferenti, che
chiamansi delitti dalle male leggi;10 e se la probabilità dei delitti è proporzionata
al numero dei motivi,11 l’ampliare la sfera dei delitti è un crescere la probabilità di
20 commettergli. La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo
di tutti al comodo di alcuni pochi.
Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la
forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata
a distruggerle.
25 Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi.
Fate che gli uomini le temano, e temano esse sole. Il timor delle leggi è salutare, ma
fatale e fecondo di delitti è quello di uomo a uomo. Gli uomini schiavi sono più
voluttuosi,12 più libertini,13 più crudeli degli uomini liberi. Questi meditano sulle
scienze, meditano sugl’interessi della nazione, veggono grandi oggetti,14 e gl’imitano;
30 ma quegli contenti del giorno presente cercano fra lo strepito del libertinaggio
una distrazione dall’annientamento in cui si veggono; avvezzi all’incertezza dell’esito
di ogni cosa, l’esito de’ loro delitti divien problematico per essi,15 in vantaggio
della passione che gli determina. Se l’incertezza delle leggi cade su di una nazione
indolente per clima,16 ella mantiene ed aumenta la di lei indolenza e stupidità. Se
35 cade in una nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde l’attività in un infinito
numero di piccole cabale17 ed intrighi, che spargono la diffidenza in ogni cuore e
che fanno del tradimento e della dissimulazione la base della prudenza. Se cade
su di una nazione coraggiosa e forte, l’incertezza vien tolta alla fine, formando18
prima molte oscillazioni19 dalla libertà alla schiavitù, e dalla schiavitù alla libertà.

40 45. Educazione
Finalmente il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare
l’educazione, oggetto troppo vasto e che eccede i confini che mi sono
prescritto, oggetto, oso anche dirlo, che tiene troppo intrinsecamente alla natura
del governo perché non sia sempre fino ai più remoti secoli della pubblica felicità
45 un campo sterile, e solo coltivato qua e là da pochi saggi.20 Un grand’uomo,
che illumina l’umanità che lo perseguita,21 ha fatto vedere in dettaglio quali sieno
le principali massime di educazione veramente utile agli uomini, cioè consistere
meno in una sterile moltitudine di oggetti22 che nella scelta e precisione di essi,

 >> pag. 283 

nel sostituire gli originali alle copie nei fenomeni sì morali che fisici che il caso o
50 l’industria23 presenta ai novelli24 animi dei giovani, nello spingere alla virtù per la
facile strada del sentimento, e nel deviarli dal male per la infallibile della necessità
e dell’inconveniente,25 e non colla incerta del comando, che non ottiene che una
simulata e momentanea ubbidienza.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

L’approccio di Beccaria parte sempre da un’osservazione diretta e pratica della realtà, anziché da una visione idealizzante o utopica: di fronte alla complessità e al disordine che caratterizzano le passioni degli esseri umani (nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, r. 9), il legislatore non può avere la pretesa di codificare e di normare nei minimi dettagli i comportamenti dei singoli, vietando ogni azione potenzialmente pericolosa o dannosa per il corpo sociale, poiché quest’ultimo non costituisce affatto un ordine geometrico (rr. 6-7) che renda prevedibile il suo evolversi. Al contrario, se un simile tentativo riuscisse, il suo effetto sarebbe quello di negare la stessa natura umana (privare l’uomo dell’uso de’ suoi sensi, rr. 15-16). L’autore, d’altra parte, sostiene che spesso l’affastellamento di leggi e norme irrazionali nasconde la volontà dei potenti di proteggere i propri privilegi di classe (La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi, rr. 20-21).

La ricetta beccariana per la prevenzione dei delitti è precisa e fondata su saldi presupposti razionali: occorrono leggi chiare e semplici (r. 22), tese a proteggere non gli interessi particolari di una classe o di un gruppo specifico, ma la libertà di tutti gli individui (Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi, r. 25). Soltanto la legge deve suscitare timore nei cittadini, perché quando si teme un individuo particolare, sia pure il più potente della nazione, si entra nel regno dell’arbitrio. Ma la mancanza di libertà e l’incertezza delle leggi (r. 33) determinano la corruzione morale della società, anticamera dei comportamenti criminali.

Fondamentale per la creazione dello spirito civile di un popolo è l’educazione (par. 45), giacché essa pone le premesse per l’azione del legislatore. Beccaria mutua dal filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau – e dal suo romanzo pedagogico Emilio (1762), in cui si descrive l’autoeducazione del protagonista a contatto con la natura – l’idea che nella vita di un popolo, come in quella di un individuo, nessun insegnamento potrà mai veramente radicarsi e incidere sui comportamenti se ha la pretesa di affermarsi attraverso la strada incerta del comando (r. 52): l’autoritarismo è capace infatti di ottenere soltanto un’ubbidienza simulata e momentanea (r. 53). Molto più efficace nel volgere i giovani al bene è il sentimento (r. 51), cioè l’insieme delle passioni e dei desideri che rappresentano la via maestra con cui l’essere umano esprime la propria vitalità; affinché non si rivolga al male, però, esso va disciplinato con lo strumento della ragione e, appunto, dell’educazione.

 >> pag. 284 

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Qual è la chimera degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano (rr. 10-11)?


2 A quale condizione l’educazione può essere efficace?


3 Sintetizza i capisaldi del programma pedagogico di Beccaria.

ANALIZZARE

4 In aumenta la di lei indolenza (r. 34) quale figura retorica riconosci?

  •   A   Anafora.
  •     Antitesi.
  •     Climax.
  •     Anastrofe.

INTERPRETARE

5 Beccaria usa frequentemente l’infinito sostantivato. Rintraccia qualche esempio e spiega il motivo di tale scelta espressiva.

PRODURRE

6 È meglio prevenire i delitti che punirgli (r. 2): alla luce delle tue conoscenze, nella società attuale questo principio è ancora valido e viene perseguito con convinzione, oppure no? Qual è la tua opinione al riguardo? Discuti questa affermazione di Beccaria in un testo argomentativo di circa 30 righe.


invito ALLA VISIONE

Cinema e impegno civile: la pena di morte secondo Patrice Leconte

Nel 2000 il francese Patrice Leconte (n. 1947) dirige L’amore che non muore, il cui titolo originale è La Veuve de Saint-Pierre, laddove veuve (“vedova”) ha un antico e macabro significato per designare la ghigliottina. Il film s’ispira a un fatto di cronaca verificatosi nel 1920, sebbene il regista ambienti la vicenda a metà Ottocento.

Delitto e castigo
Nel 1849, sull’isola di Saint-Pierre, piccola e sperduta colonia francese al largo delle coste del Canada, il marinaio Neel Auguste viene condannato alla pena capitale per aver ucciso un uomo dopo una notte di bagordi. Sull’isola, però, non è mai stato giustiziato nessuno, e non ci sono né un boia né la ghigliottina: in attesa che lo strumento di morte giunga dalla madrepatria, Neel viene dato in custodia a Jean, il capitano della guarnigione locale. Madame La, moglie del capitano, prende a cuore il destino del criminale e, con l’appoggio del marito, tenta di riabilitarlo agli occhi della comunità. Con dignità e dedizione Neel si rende utile, mettendosi al servizio di Madame La e svolgendo lavori anche per le vedove di pescatori di Saint-Pierre. Quando la ghigliottina arriva, il governatore e i notabili dell’isola, per riaffermare il loro potere, pretendono l’esecuzione del condannato, ma il capitano Jean si oppone.

Un tema sempre attuale
L’emozionante e suggestivo film di Leconte s’interroga sull’equità e sull’utilità della pena di morte, mostrando come sia possibile il ravvedimento del reo e il suo recupero. La forza umana e morale dell’opera si coglie soprattutto nella contrapposizione tra i notabili di Saint-Pierre da una parte, e Madame La e il capitano dall’altra: come sottolineato dal critico Roberto Escobar, per i primi la ghigliottina «è lo strumento necessario non tanto a uccidere un uomo (cosa che, in sé, stimano di ben scarso rilievo), quanto a tener pubblica fede a una loro decisione, e dunque a confermare il loro ruolo», mentre per Jean e la moglie «è lo strumento e il simbolo della barbarie che vince».
Paradossalmente, l’ambientazione lontana nello spazio e nel tempo rende ancor più contemporanea la vicenda, perché spinge lo spettatore a riflettere sul significato di “civiltà” e di “giustizia” anche attraverso il confronto tra il passato e il presente. Colpisce in particolare la figura di Madame La, donna appassionata e anticonvenzionale, moderna per la sua capacità di opporsi con coraggio e tenacia a chi non crede si possa combattere la violenza con l’arma della compassione.

Al cuore della letteratura - volume 3
Al cuore della letteratura - volume 3
Il Seicento e il Settecento