Il secondo argomento, di tipo utilitaristico, rappresenta la parte maggiormente articolata del discorso di Beccaria, con cui l’autore intende dimostrare che la pena di morte risulta meno efficace – sempre nell’ottica della deterrenza, vero scopo delle pene – della detenzione perpetua (ossia dell’ergastolo). Il ragionamento prende le mosse dall’individuazione di due situazioni ipotetiche nelle quali la morte di un cittadino può credersi (r. 17) utile o necessaria, e cioè quando – nei periodi di guerra civile e di anarchia – un soggetto, pur privato della libertà, abbia relazioni e potenza tali da rappresentare una minaccia per la sicurezza della nazione e per la forma di governo stabilita (rr. 18-20); oppure quando, anche in una situazione di normalità (durante il tranquillo regno delle leggi, r. 23), tale pena costituisca l’unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti (r. 28). La formulazione di queste due ipotesi ha indotto alcuni studiosi a ritenere la posizione di Beccaria contraddittoria e non pienamente abolizionista. In realtà, il ripetuto e sapiente ricorso all’espressione può credersi indica come Beccaria non preveda, nell’ambito dello Stato di diritto, alcun caso in cui la pena di morte possa essere giusta, utile e necessaria. Del resto, la prima delle due ipotesi configura una situazione di assenza o di sospensione delle leggi (quando i disordini stessi tengon luogo di leggi, r. 22), e non può dunque essere utilizzata per dimostrare la necessità della pena di morte in una società civile; quanto alla fondatezza della seconda ipotesi, essa è smentita sia dall’esperienza storica, sia dall’esame della natura umana.
In ordine a questo secondo punto, Beccaria ricorda che la storia (la sperienza di tutt’i
secoli, r. 30) dimostra come la pena capitale (l’ultimo supplicio, r. 30) non abbia mai costituito un utile deterrente (cioè non abbia distolti gli uomini determinati dall’offendere la
società, r. 31). A questo scopo, molto più efficace dell’intensità della pena è la sua estensione nel tempo (Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma
l’estensione di essa, rr. 38-39). Il massimo effetto dissuasivo non discende dallo spettacolo
terribile ma passeggiero (r. 44) della morte di un criminale, che impressiona gli animi per breve tempo, ma dall’esempio di un soggetto privato della propria libertà per lungo tempo (dal lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio,
ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, rr. 44-46). La schiavitù perpetua (rr. 67-68), cioè appunto la reclusione a vita, deve dunque sostituire la pena di morte, la cui presunta esemplarità ha addirittura effetti contraddittori, arrivando a suscitare la solidarietà dei cittadini nei confronti del condannato (divenendo oggetto di compassione
mista di sdegno per alcuni, rr. 57-58).