Il Settecento – L'opera

Dei delitti e delle pene

Quelli che oggi consideriamo i capisaldi della nostra civiltà giuridica – il rifiuto di uno Stato poliziesco e repressivo, la condanna della tortura e della pena di morte, il rispetto della dignità personale e l’uguaglianza davanti alla legge – li dobbiamo anche a un trattato considerato, al momento della sua pubblicazione, rivoluzionario. Con Dei delitti e delle pene, Cesare Beccaria pone infatti le basi del moderno concetto di “garantismo”, distinguendo per la prima volta la sfera della giustizia da quella della morale.

1 I contenuti

Le idee di fondo

Scritto in un anno circa, tra il marzo del 1763 e l’inizio del 1764, Dei delitti e delle pene è pubblicato a Livorno nel 1764. L’obiettivo fondamentale del trattato è mostrare come i codici e le procedure penali del tempo diano luogo a un insieme di abusi dovuti alla superstizione religiosa, alla violenza sociale e politica, alla crudeltà dei costumi («Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon essere patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi»). Nell’intento di eliminare i privilegi, dare spazio ai diritti soggettivi e ridurre l’influenza della religione sulla società, Beccaria propugna una completa laicizzazione del diritto penale che, nella sua visione, deve occuparsi di reati, anziché di peccati.
Ai reati devono inoltre corrispondere pene definite, secondo una proporzione fondata su basi razionali, e i cittadini, uguali di fronte alla legge, devono essere sottoposti alle stesse pene, quale che sia la loro condizione sociale. Garante di questi princìpi deve essere il giudice, che non può agire secondo il proprio arbitrio o la volontà di un sovrano, ma esclusivamente in forza dell’ordinamento giuridico.

Il fondamentale presupposto teorico – tipicamente illuminista – su cui poggia l’argomentazione di Beccaria è che gli esseri umani siano riuniti in società sulla base di un patto, in virtù del quale hanno ceduto una parte della loro libertà («la minima porzione possibile» di essa) in cambio della sicurezza personale: la società, quindi, ha sì il diritto di punire coloro che violano le sue regole, mettendo a repentaglio la sicurezza degli altri; ma le pene non devono mai arrivare a superare il vincolo con il quale i suoi membri si sono associati.

 >> pag. 267 

La pena di morte, in questo senso, è un sopruso, perché nessuno, aderendo al patto istitutivo della società, ha alienato il proprio diritto alla vita, che non rientra, evidentemente, nella «minima porzione possibile» di libertà ceduta dagli individui al governo in cambio della protezione personale. Ciò che non è lecito al privato cittadino (uccidere una persona) non può essere lecito neppure allo Stato, che è la somma dei cittadini.
Lo stesso discorso vale per le pene disumane e sproporzionate, come la tortura. Fra le garanzie che la società deve dare ai suoi membri, conformemente al patto originario, c’è inoltre quella che i cittadini non debbano essere trattati come condannati finché non sia stata provata la loro colpevolezza (“presunzione d’innocenza”).

La struttura del testo

L’opera possiede una precisa struttura espositiva e argomentativa, scandita dalla successione di 47 paragrafi di varia lunghezza.

Il trattato si apre con un appello rivolto «A chi legge», che, insieme alla successiva «Introduzione», rappresenta uno dei brani fondamentali dell’Illuminismo italiano ed europeo. L’eredità di più di un millennio di tradizione giuridica è sottoposta a una critica radicale, con un’energia e una passione straordinarie; la legislazione vigente viene equiparata ad «alcuni avanzi […] di un antico popolo conquistatore», a «uno scolo [residuo] de’ secoli i più barbari», da cancellare e ricostruire lottando contro i privilegi, con la speranza e la volontà di giungere alla «massima felicità divisa nel maggior numero».
Beccaria indica anche la via politica per mettere in pratica questi princìpi: l’alleanza dei filosofi con i sovrani assoluti, indispensabile per abbattere le resistenze delle forze più conservatrici e aprire così il campo alle riforme. Facendo poi appello agli «oscuri e pacifici seguaci della ragione» e mirando a suscitare in loro «quel dolce fremito con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl’interessi della umanità», lo scrittore si addentra nell’esposizione della sua materia, sostenendo che è tempo di dare inizio alla lotta contro «la crudeltà delle pene» e l’arbitrarietà delle procedure criminali.

Esaminando il «Diritto di punire» (par. 2), l’autore polemizza contro magistrati e giudici, che dovrebbero, a suo modo di vedere, applicare letteralmente la legge, non interpretarla, giacché l’interpretazione conduce all’incertezza e all’arbitrio, e l’arbitrio al dispotismo (par. 4). È parimenti necessario lottare contro l’«Oscurità delle leggi» (par. 5), che ne consente la comprensione soltanto a poche persone: se le leggi sono conosciute da molti, i delitti saranno meno frequenti, e la chiarezza del codice renderà più difficile l’interpretazione arbitraria delle norme.

Le leggi penali dovrebbero fondarsi sulla «Proporzione fra i delitti e le pene» (par. 6), tale per cui a un delitto più grave corrisponde una pena più severa; se questa proporzione viene meno, cade anche la funzione deterrente della pena e la sua «utilità comune»: infatti, di fronte a due possibili delitti puniti nello stesso modo, il reo opterà per quello che gli dà maggior vantaggio, cioè il più grave per la società.

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Il criterio utilitaristico  dà vita a una nuova «Divisione dei delitti» (par. 8), cioè a una classificazione dei reati relativa al «danno della società» che essi causano. Tutto ciò sulla base del presupposto fondamentale per cui il «Fine delle pene» (par. 12) «non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali»: in altre parole, la prevenzione dei delitti.

Tra le pagine più chiare e persuasive di Beccaria vi è il paragrafo «Della tortura» (par. 16), che con la sua carica appassionata colpisce profondamente il lettore. La tortura, questa «crudeltà consacrata», sopravvissuta in un mondo incamminato sulla via del progresso, è definitivamente e radicalmente rifiutata. La passione della polemica non impedisce un estremo rigore dell’esposizione, grazie al quale l’autore, facendo ricorso ad argomenti in parte già noti (derivanti da Montesquieu) e in parte originali, confuta uno dopo l’altro i sofismi che per secoli avevano giustificato l’uso di tale pratica.

Dopo essersi soffermato su diverse forme di giudizio e di pena giudicate antiquate, come i compensi pecuniari e i giuramenti (par. 17 e par. 18), Beccaria presenta il fondamentale concetto di «Prontezza della pena» (par. 19), ossia della rapidità con cui un delitto è giudicato e punito. Tale rapidità rappresenta un fatto di giustizia (mentre si svolge il processo, l’imputato è detenuto in carcere, che è già di per sé una punizione: è dunque essenziale che questo tempo sia il minore possibile, per evitare che un innocente venga sottoposto a una pena che non meriterebbe), ma è anche la garanzia dell’utilità delle pene come elemento deterrente: solo se la condanna segue rapidamente il delitto la maggioranza delle persone assocerà i due eventi in una relazione di causa-effetto.

Dopo aver esposto l’esame particolareggiato dei diversi delitti e delle varie categorie di rei – «Violenze» (par. 20), «Furti» (par. 22), «Infamia» (par. 23), «Oziosi» (par. 24), «Bando e confische» (par. 25) –, nel paragrafo intitolato la «Dolcezza delle pene» (par. 27) Beccaria torna al suo argomento principale: la definizione degli scopi delle pene e la loro modalità di attuazione.
L’autore tratta il proprio tema sulla base di due presupposti, quello umanitario e quello utilitaristico: le pene non devono essere eccessivamente dure per un fatto di umanità («Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti che da uomini, che si chiamano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti?») ma anche per una questione di utilità generale. L’esagerata crudeltà delle pene rende impossibile la loro proporzionalità (se a un delitto minimo corrisponde già una pena atroce, quale pena potrà essere comminata per un reato davvero grave?); inoltre, la ferocia delle pene abitua la società alla violenza, facendo aumentare i delitti; bisogna poi considerare che poiché l’essere umano tende a temere una pena lieve ma certa più di una pena dura ma incerta (quale la morte, di cui ogni individuo ha un’idea soltanto vaga e indefinita), invece di scongiurare i reati, la durezza delle pene li incentiverà: di fronte alla prospettiva di un castigo spietato, il reo tenderà infatti a commettere più delitti, per approfittare di maggiori vantaggi fintanto che riesca a sfuggire alla condanna.

 >> pag. 269 

A questo punto, Beccaria può dedicarsi al problema più grave di tutto il trattato: «Della pena di morte» (par. 28). Qui l’autore, riprendendo le fila di tutte le argomentazioni accumulate nei paragrafi precedenti, espone la propria lucida e sentita perorazione contro «il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili». Di fronte alla logica stringente della ragione – che dimostra appunto come sia illegittimo attribuire a qualcuno il diritto di morte su qualcun altro – nulla pesano, dice Beccaria, gli esempi dei secoli e dei millenni passati, in cui la pena capitale è stata quasi costantemente utilizzata: la storia, infatti, non è altro che un susseguirsi di errori, che rivelano la loro inconsistenza «in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione».

L’autore può ormai avviarsi alla conclusione, inserendo la trattazione del tema generale nel quadro della sua concezione della società. Nei paragrafi «Come si prevengano i delitti» (par. 41), «Delle scienze» (par. 42) e «Dell’educazione» (par. 45), Beccaria approfondisce la sua visione della condotta sociale degli esseri umani, riflettendo su come sia impossibile – e quindi inutile – reprimere tutti gli istinti che, se mal diretti, conducono ai delitti. Molto più utile alla prevenzione dei reati è la lotta all’ignoranza, la diffusione del sapere e della scienza, l’educazione alla virtù attraverso il disciplinamento delle passioni.
Nella «Conclusione» (par. 47), l’autore può così tornare alla formulazione riassuntiva di una nitida regola d’azione: «perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi».

2 Le fonti e lo stile

Il trattato si basa per lo più su fonti del Seicento e del Settecento. Accanto ai più importanti testi dell’Illuminismo francese, dall’Enciclopedia alle opere di Montesquieu e Rousseau, rilevante è l’influenza delle opere filosofiche dell’inglese John Locke (in particolare il Secondo trattato sul governo, in cui si trova esposta la teoria contrattualistica dello Stato) e dello scozzese David Hume, esponenti della corrente empirista ( ► p. 194). Beccaria, tuttavia, rielabora le sue fonti in modo originale, sviluppando i concetti fondamentali in esse contenuti.

Dal punto di vista dello stile, il trattato è caratterizzato dal continuo avvicendamento di una componente razionale e di un afflato sentimentale, perfettamente uniti nei punti più alti dell’opera, come quelli dedicati alla tortura e alla pena di morte. In questi passi, Beccaria sa cristallizzare in formule razionali l’orrore della violenza, del sangue, della morte, mostrando così la possibilità di affermare la preminenza della ragione e della filosofia sulle angosce e le paure che caratterizzano la società d’antico regime.
Dominio della ragione non significa peraltro che il ritmo dell’opera sia sempre improntato alla compostezza e alla misura, come prescriveva un certo canone classicista; né la padronanza della materia induce l’autore a esercitarsi in una prosa segnata dai tecnicismi del linguaggio giuridico del tempo. Come giustamente notato da Diderot, il valore dell’opera è in primo luogo legato a un andamento in cui «la calma segue improvvisamente al furore, e il furore alla calma, senza che ci sia alcun movimento che prepari e che determini tali dissonanze di tono».
Ciò che più resta impresso nella mente del lettore è proprio la carica appassionata dello scritto, la tensione di una prosa che sa trovare «un punto d’incontro tra il calcolo razionale ed utilitaristico e la comprensione profonda, umanitaria, sentimentale» (Venturi), secondo una modernità stilistica che l’autore teorizza nel 1770 nelle sue Ricerche intorno alla natura dello stile.

 >> pag. 270 

3 La ricezione

Il successo del trattato è enorme e immediato, tanto che nello spazio di due anni dalla prima pubblicazione si contano sei nuove edizioni. Accolta con grande favore dalle più importanti personalità del tempo, l’opera viene tradotta rapidamente in francese, inglese, tedesco e spagnolo e ottiene gli elogi di Voltaire, Diderot e d’Alembert, che contribuiscono ad accrescere la fama europea del suo autore.
L’influenza dell’opera non è peraltro riscontrabile soltanto sul piano del pensiero filosofico e giuridico del tempo, ma anche su quello dell’applicazione pratica dei suoi assunti. L’imperatrice Caterina II di Russia (che invita Beccaria a Mosca, dove egli però non andrà) promuove una riforma del codice penale ispirata ai suoi princìpi, e anche in altri Stati italiani ed europei, negli anni successivi alla pubblicazione del testo, gli ordinamenti giuridici verranno riformati sulla base di alcune idee in esso contenute.

Considerata la modernità dell’opera, non stupisce che, alla sua pubblicazione, si sollevino peraltro anche voci critiche nei suoi confronti. All’inizio del 1765 escono anonime, a Venezia, le Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene, scritte dal monaco Ferdinando Facchinei (1725-1814 ca). Sulla base di una visione fortemente conservatrice della società, Facchinei intende colpire con durezza i fondamenti stessi dell’opera di Beccaria, ritenendo che i princìpi di uguaglianza e tolleranza – ma anche il criterio del calcolo utilitaristico – non possano che portare rovine e danni. Il pensatore milanese, secondo il monaco, è foriero di una gran «tempesta», che solo la censura potrà scongiurare. Gli replicano Pietro e Alessandro Verri in una Risposta ad uno scritto che s’intitola Note ed osservazioni sul libro Dei delitti e delle pene, uscita ai primi di febbraio del 1765. Con garbo e ironia, essi riescono a controbattere ai detrattori di Beccaria, portando dalla sua parte gran parte degli intellettuali e della nobiltà più illuminata.
Ciò non impedisce, comunque, che la Chiesa cattolica condanni il libro del giurista milanese, tanto che, nonostante esso trovi un certo favore anche in alcuni ambienti religiosi, Dei delitti e delle pene viene messo all’Indice nel 1766.
Queste critiche e queste censure, in ogni caso, non impediscono l’ampia diffusione del trattato, che non cesserà di esercitare la sua profonda influenza fino ai giorni nostri.

Al cuore della letteratura - volume 3
Al cuore della letteratura - volume 3
Il Seicento e il Settecento