L’urbanistica e l’organizzazione del territorio

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L'urbanistica e l'organizzazione del territorio

Lo schema urbanistico

Roma, così come le grandi città dell’Etruria arcaica, non aveva un impianto urbanistico regolare, che invece viene adottato sia dagli Etruschi sia dai Romani nella fondazione di nuove città e colonie. Uno schema che, già utilizzato in Grecia e in Età ellenistica, in ambito etrusco assume carattere sacrale: secondo gli Etruschi, infatti, sono gli dèi stessi a indicare, con segni interpretati da sacerdoti e indovini, la posizione e la struttura di ogni nuova città, così come l’orientamento dei due assi centrali perpendicolari che la suddividono in quadranti.

Questo impianto si trova già in alcune antiche città romane, come Ostia, Cosa o Minturnae (Lazio), e diventa una costante nelle colonie di nuova fondazione. Come negli accampamenti militari, i castra (1), si sfrutta di norma un tratto rettilineo di una grande via consolare preesistente, che prende il nome di decumano massimo (cioè principale), spesso con orientamento est-ovest; poi in un punto preciso, deciso sulla base di auspici religiosi, lo si fa intersecare da una via perpendicolare che corre in direzione nord-sud, il cardo o cardine massimo. Il punto d’intersezione tra i due assi costituisce il centro dell’intero sistema urbano: di norma, è in questo punto che viene collocata la piazza, chiamata foro. Da qui il cardine e il decumano si estendono fino al recinto delle mura, dove quattro porte permettono l’ingresso in città. Alle due strade principali si allinea una serie di strade parallele che dividono in isolati regolari lo spazio interno alle mura stesse (2) .

Le mura

Nelle città romane il circuito murario corrisponde generalmente al pomerio, cioè al limite sacro e giuridico oltre il quale la città cessa di esistere e inizia la campagna. Il reticolo ortogonale si estende però spesso anche alle zone agricole, suddivise secondo il sistema della centuriazione. Tale sistema prevedeva la suddivisione del territorio in settori quadrati, i cui confini erano stabiliti dagli agrimensori grazie all’uso di un particolare strumento, la groma, che permetteva di tracciare linee ortogonali. All’interno di questi settori venivano individuati poi cento lotti regolari di terra, da assegnare ciascuno a una famiglia di coloni.

Nel 387 a.C., dopo l’invasione dei Galli, anche Roma fu cinta da una cerchia di mura, che però è tradizionalmente ritenuta più antica, tanto da essere conosciuta con il nome di “mura serviane” (dal re Servio Tullio, che regnò nel VI secolo a.C.). La città, tuttavia, continuò a espandersi molto al di fuori di questo limite. Sopravvivono ancora, nel contesto urbano moderno, alcuni tratti di queste mura (3), costruite con grandi blocchi di tufo secondo la tecnica detta opus quadratum .

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La fondazione delle colonie

Mentre Roma acquisisce l’egemonia su gran parte dell’Italia peninsulare, va estendendosi la deduzione di colonie nei nuovi territori conquistati. Il termine "deduzione" deriva dalla parola latina deductio e indica l’arruolamento e il trasferimento di forza lavoro nelle nuove colonie. Le colonie servono dunque a dare nuove case e nuove terre ai cittadini romani, ma svolgono anche una fondamentale funzione di controllo e di "romanizzazione" delle aree appena conquistate, diventando presto il fulcro dell’organizzazione agricola del territorio.
Alcuni coloni godono del diritto romano e rimangono sotto il diretto controllo di Roma, altri sono sottoposti al diritto civile dei Latini e hanno quindi maggiore autonomia, ma anche meno privilegi e l’obbligo della leva militare.
Le colonie di diritto romano sono insediamenti di piccole dimensioni, formati da circa 300 coloni, posti soprattutto a protezione della costa. La più antica colonia romana è Anzio, dedotta nel 338 a.C., alla fine della guerra di Roma contro i Latini; risale probabilmente al IV secolo a.C. anche la fondazione di Ostia (4-5). Date le dimensioni di questi centri, l’impianto urbanistico è in genere molto semplice, basato sull’incrocio dei due assi perpendicolari, il cardo e il decumano.
Le colonie di diritto latino sono invece insediamenti molto più grandi, che arrivano spesso a contare 6000 coloni e che modificano fortemente non solo il popolamento, ma anche l’identità culturale dei territori in cui si trovano. La loro struttura urbana è più complessa: ai due assi perpendicolari si allinea infatti uno schema a isolati regolari. Durante lo svolgimento della Seconda guerra sannitica (326-304 a.C.), nell’attuale Puglia viene fondata la colonia latina di Lucera, nel 314 a.C. Nel 273 a.C., dopo la spedizione condotta dai Romani contro Pirro nell’Italia meridionale, nascono invece Paestum, in Campania, e Cosa, nell’attuale Toscana, presso la costa vicino a Orbetello (6); qualche anno più tardi, nel 268 a.C., è la volta di Benevento e Rimini. Con la fondazione di quest’ultima, Roma si affaccia per la prima volta nella Pianura Padana.

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Le infrastrutture

Il termine “infrastrutture” indica l’insieme delle realizzazioni tecniche (come strade, acquedotti, fognature, opere igieniche e sanitarie), che costituiscono la base dello sviluppo economico-sociale di un territorio.

Sin dalle origini, i Romani realizzano grandi infrastrutture e opere pubbliche, sia civili sia militari. Architetti e ingegneri collaborano a questo scopo, sviluppando conoscenze necessarie all’organizzazione di un territorio in continua espansione: è soprattutto nella progettazione e nell’edificazione di strade, ponti e acquedotti che i costruttori romani dimostrano abilità tecniche e ingegneristiche.

Le strade

La rete viaria (7) assume un ruolo fondamentale nella circolazione delle persone, dei soldati e delle merci, ed è proprio grazie a essa che Roma manterrà i rapporti dapprima con gli altri centri della Penisola, poi con quelli dell’Europa, dell’Oriente e dell’Africa, diffondendo il proprio sistema economico e amministrativo e il sempre più ricco patrimonio culturale. La strada romana (8), larga dai 4 ai 6 metri, è solitamente composta da tre strati: il più profondo (statumen) è costituito da ciottoli e funge da solida base; quello intermedio (rudus) è formato da sabbia e ghiaia; l’ultimo strato, infine, consiste in una pavimentazione realizzata con grandi pietre che permettevano il passaggio dei carri e che, disposte in modo da formare una superficie convessa, garantivano il deflusso delle acque. Anche la progettazione dei tracciati è all’avanguardia.

La più antica delle principali arterie extraurbane è la via Appia (9), il cui primo tratto, che andava da Roma a Capua e che risale al 312 a.C., si deve al censore Appio Claudio Cieco (il tragitto fu in seguito prolungato, fino a raggiungere la città di Brindisi).

La strada delle Gallie (10-11) attraversava invece le Alpi: un ramo collegava la Pianura Padana con la valle del Rodano e l’altro con l’attuale Svizzera. La costruzione del segmento alpino, che si snoda sulle tracce di sentieri preesistenti, può essere messa in relazione con la conquista del territorio che corrisponde all’attuale Valle d’Aosta, nel 25 a.C. Molti tratti erano intagliati nella roccia; presso Donnas si conserva un pezzo del lastricato originario e un grandioso arco di 4 metri di altezza ricavato in uno sperone roccioso .

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I ponti

Poco dopo la costruzione delle prime strade, vengono edificati anche i primi ponti in pietra, ex novo o in sostituzione delle originarie strutture in legno. Il più antico dei ponti che attraversano il Tevere è il ponte Sublicio, situato a valle dell’isola Tiberina, cui seguirà il ponte Emilio (12), forse della metà del III secolo a.C., ma ricostruito nel 179 a.C. Il terzo in ordine cronologico, il ponte Milvio, anch’esso realizzato in legno alla fine del III secolo a.C., viene ricostruito in muratura intorno al 110 a.C.

A partire dal II secolo a.C. i ponti sfruttano il sistema costruttivo dell’arco. Le parti strutturali vengono realizzate in pietra o in laterizio, quelle di riempimento in conglomerato cementizio (► p. 219). Le arcate sono in genere a tutto sesto e vengono rette da pilastri di sostegno; quando il ponte doveva attraversare un fiume, la realizzazione dei pilastri, unitamente alla gettata delle fondazioni, costituiva la parte più complessa del lavoro.

Gli acquedotti

Con la costante crescita della città emerge anche l’esigenza di fornire la popolazione di acqua: nascono così i primi grandi sistemi di conduzione delle acque dalle sorgenti alle realtà urbane, gli acquedotti. Il primo acquedotto della città di Roma, quello dell’Aqua Appia, fu realizzato nel 312 a.C. e prende nome dal censore Appio Claudio Cieco che lo fece costruire: esso sfruttava sorgenti situate a circa 13 chilometri da Roma, nei pressi della via Prenestina. Il condotto era quasi completamente sotterraneo e correva a considerevole profondità, per una lunghezza complessiva di circa 17 chilometri. Anche il secondo acquedotto, l’Anio, detto poi Vetus, aveva un percorso sotterraneo, scavato nella roccia: costruito tra il 272 e il 270 a.C. grazie al bottino della vittoria contro Pirro e i Greci di Taranto, era lungo oltre 60 chilometri. Il terzo acquedotto, chiamato Aqua Marcia, risale al 144 a.C. ed è il primo a presentare un tratto su arcate (che diventeranno presto una costante). In età imperiale Roma potrà contare su undici acquedotti, di cui alcuni sono ancora oggi in attività.

Gli acquedotti romani prelevavano l’acqua direttamente dalla sorgente, per poi convogliarla in condotti leggermente pendenti che, sfruttando la forza di gravità e il principio dei vasi comunicanti, permettevano un deflusso regolare e costante delle acque. I condotti, realizzati in pietra, in piombo o in terracotta, correvano spesso all’interno di gallerie, mentre per oltrepassare gole, alvei fluviali o valli venivano realizzati lunghi tratti sopraelevati grazie ad arcate sorrette da piloni in muratura, una tecnica che consentiva di alleggerire la struttura (13-14-15). Il tratto finale del percorso era dotato di vasche di decantazione e di sistemi di purificazione attraverso cui passavano le acque prima di giungere in ambito urbano.

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Le terme

Alla fine dell’età repubblicana risalgono le prime terme, stabilimenti per il bagno pubblico che assumono un’importante funzione sociale come luoghi di ritrovo, non solo nelle grandi città ma anche nelle province, nei santuari e negli accampamenti militari. Spesso vengono costruite anche delle terme annesse alle ville: si distinguono perciò terme pubbliche, private e militari.

Le prime terme di Roma furono quelle di Agrippa, genero di Augusto, che erano alimentate da un acquedotto appositamente costruito. Un precedente può essere indicato nella piscina pubblica che si trovava al termine dell’Aqua Appia.

Lo schema di base delle terme romane comprendeva un apodyterium (spazio non riscaldato adibito a spogliatoio), un frigidarium con acqua fredda, talvolta un tepidarium con acqua tiepida e un calidarium con acqua calda. In origine l’acqua era riscaldata con grandi bracieri; già tra la fine del II secolo e l’inizio del I a.C. venne realizzato l’ipocausto, cioè un sistema di riscaldamento sotterraneo (16). Un focolare (praefurnium), in funzione nel sottosuolo e alimentato dall’esterno, spandeva il calore al di sotto di una pavimentazione sospesa (suspensura), che poggiava su pilastrini, di solito formati da mattoni quadrati. In questo modo erano riscaldate dal basso non solo l’acqua delle vasche, ma anche le pareti dell’ambiente, lungo cui il calore risaliva attraverso intercapedini create da mattoni con sporgenze addossati alla muratura (tegulae mammatae) o da tubi di terracotta a sezione rettangolare (tubuli).

A questi ambienti principali se ne potevano aggiungere altri, come una palestra o il thermopolium adibito alla somministrazione di bevande e cibi, anche caldi (da cui deriva il nome). La presenza di giochi d’acqua o di decorazioni dipinte o scolpite, nonché di stucchi e mosaici, dipendeva dall’importanza dell’impianto o dalle disponibilità finanziarie del donatore.

I Romani furono anche i primi a sfruttare le proprietà terapeutiche di alcune sorgenti e a costruire terme curative, generalmente poste fuori delle aree urbane.

Altre opere idrauliche

I Romani seppero esprimere le proprie grandi capacità tecniche nel campo dell’idraulica anche nella costruzione di efficienti impianti di drenaggio delle acque urbane (fognature) in molte delle loro città. Come sottolinea il geografo greco Strabone, vissuto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., era proprio il sistema idrico la differenza più rilevante tra le città romane e quelle greche.

Nei piccoli borghi o nelle città di antica fondazione le acque delle latrine erano smaltite per mezzo di tubi in terracotta in una fossa o, come nel caso di Pompei, direttamente sul selciato (tranne nel Foro, dotato di fognature). Nelle città romane sorte ex novo il progetto urbanistico prevedeva invece una capillare rete fognaria, le cui canalizzazioni in genere correvano lungo i tracciati delle strade. Le gallerie dell’impianto (solitamente larghe circa 50 centimetri e alte circa un metro) erano raggiungibili attraverso pozzetti e avevano una copertura costituita da una volta, o da due tegole o due lastre poste a doppio spiovente oppure ancora da una sola lastra messa di piatto. Generalmente le varie canalizzazioni terminavano in un collettore principale che conduceva le acque fuori dall’abitato.

A Roma il sistema fognario sfociava nella Cloaca Maxima (17), la cui conduttura coperta a volta sbocca ancora oggi nel Tevere con un arco a triplice ghiera. Fu realizzata a Roma alla fine del periodo monarchico, prima ancora della più antica pavimentazione del Foro, e poi restaurata alla fine del II secolo a.C. La sua funzione non era solo lo smaltimento dei rifiuti liquidi, ma anche la canalizzazione delle acque superficiali. Furono infatti prosciugate le zone paludose del Foro e delle immediate vicinanze.

Dossier Arte plus - volume 1
Dossier Arte plus - volume 1
Dalla Preistoria all'arte romana