L’età della Controriforma e del Manierismo – L'autore: Torquato Tasso

LETTURE critiche

Tasso, poeta del conflitto

di Franco Fortini

Hanno ancora un significato per noi le inquietudini dei personaggi di Tasso? Ci dicono qualcosa sulla nostra sensibilità, sulla nostra psicologia? Il poeta e critico Franco Fortini (1917-1994) ravvisa nella «passività eroica» dell’autore della Gerusalemme liberata il segno di un’angoscia e di una crisi permanente dell’uomo con sé stesso: una crisi che Tasso ha registrato e vissuto come un male, un logoramento, un patimento privati, senza comprenderne a fondo le motivazioni storiche e collettive.

Due le parole tematiche della Gerusalemme: «orrore» e «languore». «Orrore» è la paura e il desiderio della paura, la voluttà dei fantasmi e del passato; sono la notte, le fiamme, le selve, gli spazi delle caverne e dei cieli, le catastrofi naturali, le lontananze nordiche, le antichità di Giudea e d’Egitto. «Languore» è il desiderio e la paura del desiderio, il serpeggiare della morte, la caducità della giovinezza e dei fiori, la nostalgia dell’età dell’oro.
Il mondo creato è per il Tasso un teatro. La falsità scenica non contraddice al verosimile del poema; la contraddizione è fra la nobiltà solenne della scenografia epica e il lirismo angoscioso e febbrile fra il cerimoniale e i sentimenti, contraddizione che certo il Tasso soffrì acuta nella sua vita di cortigiano e che è la fonte stessa della sua poesia anche nelle sue pagine più alte: l’invocazione di Erminia alle tende latine, l’alba che gela sul sangue di Clorinda, e sul mantello di Rinaldo le tenebre della foresta dove Tancredi è sviato dalle malie.
Le passioni amorose o le diaboliche potenze che disviano i cavalieri non erano che l’involontaria allegoria del sogno di dolcezza o d’angoscia, di orrore e di languore che disvia il poeta dalla costruzione del proprio monumento epico. E in realtà si potrebbe dire che, per il Tasso, volto al raggiungimento della poesia come «poema», la lotta per conquistare Gerusalemme fu tutt’uno con la lotta per l’alloro poetico. All’interno del poema si rifrange più volte quella contraddizione vitale, per cui la felicità è il peccato, e quindi anche il canto è peccato, vedi il simbolico percorso dei due guerrieri verso Rinaldo, attraverso le tentazioni del giardino d’Armida; e tutto il sublime sedicesimo canto (le delizie di Armida e il ravvedersi di Rinaldo), che è un canto di sirene. […]
Se si dovesse dunque concludere con un giudizio di stile tradizionale, si dovrebbe dire che la Gerusalemme è, se non tutta, in gran parte opera di poesia lirica, situata sul percorso che dal Petrarca porta al Foscolo e al Leopardi; e tuttavia non è, come il Petrarca e l’Ariosto o lo Shakespeare, inesauribile. Perché la coscienza formale e la sicurezza letteraria del Tasso, mentre mai vengono meno nell’esecuzione dei particolari, e tutto fa, e vinta è la materia del lavoro, non dominano però i momenti di più emotiva ispirazione: che insomma la sua più alta poesia, quella che più ci commuove e ci turba, proprio perché coincide con i momenti mistici e subconsci del suo animo, finisce a essere, almeno in parte, una nostra aggiunta. Parrebbe insomma che la sorte di quella poesia dovesse essere legata per sempre alla interpretazione romantica. Nei momenti supremi della tristezza, della sensualità, del languire e dell’orrore, Tasso è agito dai suoi fantasmi, al di là delle stesse possibilità della poesia.

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«Quello del Tasso», fu scritto, «non è il mondo delle forme – come nell’Ariosto – ma il mondo delle emozioni». Di qui un non risolto equivoco morale che avvertiamo ovunque diffuso, e può renderci fraterna, non maestra, questa poesia. La passività, che è di tanti suoi eroi, è del Tasso di fronte alle angosce e ai desideri propri, ed è la sua incapacità a comprendere realmente (come un Cervantes, ad esempio) il male del suo secolo, quella che gli permette di registrarne i brividi. Dalla corte di Alfonso egli non vedeva o non comprendeva quali immense e anticipatrici forze agitassero l’Europa. Gli mancava un termine di cultura e di intelletto, che potesse trasformare in coscienza d’una tragedia storica o religiosa quel che era piaga di un patimento privato. Ma il secolo della musica e del teatro, e più tardi quello della passione e della storia, si riconobbero nella Gerusalemme. «Martire inconscio» lo chiamò, con appena una esagerazione nel sostantivo, il De Sanctis. E se Erminia e Armida hanno generato innumeri sorelle alla letteratura romantica, il loro poeta è divenuto l’immagine stessa di un conflitto infelice dell’uomo con sé medesimo, che i nostri anni continuano, più che non si creda, ad esemplificare.


Franco Fortini, Ventiquattro voci, Mondadori, Milano 1968

Una lettura della Gerusalemme liberata in chiave figurale

di Sergio Zatti

Secondo la lettura critica fornita dallo studioso Sergio Zatti (n. 1950), il capolavoro di Tasso va interpretato come un conflitto di codici culturali da legare strettamente alla situazione storica contemporanea al poeta.

La mia analisi è rivolta a verificare la legittimità di una chiave di lettura figurale dello scontro militare tra Cristiani e Pagani, che costituisce la materia narrativa del poema. Secondo tale prospettiva la guerra per la conquista di Gerusalemme rinvierebbe ad una lotta per l’egemonia che si instaura fra due codici diversi, fra due sistemi di valori antitetici. Dell’uno sono campioni i Pagani e, potremmo dire, schematizzando, che esso si richiama agli ideali di un umanesimo laico, materialista e pluralista; l’altro, di cui sono portatori i Crociati, dà voce alle istanze religiose autoritarie della cultura della Controriforma.
Se la materia storica della narrazione, che il Tasso desume dai cronisti delle Crociate, propone lo scontro tra due religioni e culture contrapposte, è un fatto che, nella concreta vicenda poetica, lo scontro assume piuttosto i connotati di un conflitto tra due codici, divenuti incompatibili, che si genera all’interno di una medesima cultura e di una medesima società, entrambe occidentali e cristiane: tanto è vero che a misurarsi nella guerra, parallela a quella terrena, che si combatte in cielo non sono Dio e «Maometto», bensì Dio e Satana, la verità cristiana trovando come proprio antagonista non già una verità pagana ad essa alternativa, bensì piuttosto i principi di negazione ad essa connaturati, cioè l’errore, il male, l’eresia. Proprio come tali, infatti, cioè come negativi, erronei o quantomeno insufficienti, si configurano nella GL quei valori cavallereschi che la tradizione recente del genere aveva rifondato in senso umanistico: ovviamente secondo uno soltanto dei codici, anche se si tratta di quello ideologicamente privilegiato – è il punto di vista di Dio, dei Cristiani, di Goffredo – e di fatto storicamente il vincente.

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Ed è per questo che soltanto sulla bocca di personaggi pagani è possibile ascoltare l’affermazione degli ideali eroici di virtù e di onore, fatta con orgogliosa fierezza e in assenza di qualsiasi ottica religiosa o soprannaturale, sia pure pagana: Argante (VI, 8; X, 37); Solimano (IX, 99; X, 24; XIX, 41); Ismeno («Ciascun qua giù le forze e ’l senno impieghi / per avanzar fra le sciagure e i mali, / ché sovente adivien che ’l saggio e ’l forte / fabro a se stesso è di beata sorte», X, 20). E non manca un richiamo a questi ideali neppure nel discorso in cui Satana rievoca la ribellione degli angeli caduti al Dio cristiano, esaltando il «valor primiero», la «virtute», l’«invitto ardire» che animarono quella nobile e sfortunata impresa (IV, 15). Sono dichiarazioni in cui ritornano motivi tipici di un sistema di valori storicamente definiti: mito dell’homo faber, antagonismo fortuna/virtù; e sono dichiarazioni che invano cercheremmo di ritrovare sul versante cristiano, e non già perché tra le file dei crociati manchino grandi eroi, ma perché essi ispirano (o dovrebbero ispirare) la loro azione a un complesso di moventi e di ideali entro cui la dimensione umanistica individuale, quando non è assente, è pur tuttavia subordinata alle finalità di una collettiva missione di fede. Nei discorsi dei guerrieri cristiani il riconoscimento della positività dei valori cavallereschi si accompagna invariabilmente a un principio superiore che tali valori integri, senza il quale non è lecito sperare nella vittoria. Se Clorinda, contestando il ricorso alle arti magiche di Ismeno da parte del suo re Aladino, fa l’invito: «trattiamo il ferro pur noi cavalieri: / quest’arte è nostra, e ’n questa sol si speri» (II, 51), Goffredo ricorda ai crociati dimentichi che «Turchi, Persi, Antiochia (illustre suono / e di nome magnifico e di cose) / opre nostre non già, ma del Ciel dono / furo, e vittorie fur meravigliose» (I, 26).
Ma importa soprattutto rilevare il fatto che lo scontro tra i codici indicati si apre in coincidenza con l’esordio stesso dell’azione narrativa, così da porsene legittimamente quale chiave di lettura privilegiata: Goffredo di Buglione, uno dei principi cristiani fra cui è diviso il potere militare e politico, è sollevato per volontà divina a capo supremo dell’esercito crociato. Si stabilisce da questo momento un processo di subordinazione gerarchica denso di conseguenze – sia sul piano del dato narrativo immediato, sia sul piano etico e ideologico in senso lato – agli effetti dello sviluppo ulteriore dell’azione e dei suoi connotati semantici: l’intervento divino determina infatti la netta distinzione politica e morale fra Goffredo e i «compagni erranti», che egli è chiamato a riunificare nel nome del fine militare cristiano, e contemporaneamente segna la cessazione della compresenza paritetica di codici diversi, la sanzione dell’opera repressiva di un codice – quello incarnato dal Buglione – sugli altri avvertiti come devianti e «pagani», l’abolizione insomma della tolleranza nei confronti dell’altro e del diverso. In questa prospettiva torna chiaro allora come lo scontro militare fra Pagani e Cristiani, letto nei termini di un conflitto fra codici, ricalchi da un lato gli eventi di una storia soprannaturale (rievocata nel canto IV) realizzatasi come autoritaria imposizione della legge di Dio sulla libertà di Satana, dall’altro rinnovi sulla terra la fisionomia di una lotta, in tutto simile a quella combattuta contro gli infedeli, che i rappresentanti del codice cristiano repressivo, Goffredo e Pier l’Eremita, ingaggiano contro i traviamenti erotici di Rinaldo e Tancredi e la condotta aberrante di altri crociati.
[…]
La distribuzione del conflitto fra i codici in tre ambiti distinti, si badi bene, non è occasionale; è sottesa invece al generale svolgimento dell’opera del codice repressivo cristiano, intollerante della diversità, nel contesto dell’intero poema. Quest’opera si configura infatti come un processo dinamico di riduzione dal vario all’uno, dal discorde al corale, dalla dispersione alla concentrazione, che si svolge appunto su tre piani differenti:

  1. 1. come condanna eterna degli angeli ribelli alla legge divina;
  2. 2. come sconfitta storica degli infedeli ad opera dei crociati;

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  1. 3. come subordinazione politica dei «compagni erranti» all’imperio di Goffredo.
Tale distinzione di livelli è del resto stabilita fin dalla prima ottava del poema, in posizione dunque di forte rilievo semantico:
  1. 1. il «Ciel» contro l’«Inferno»;
  2. 2. le «armi pietose» contro il «popol misto»;
  3. 3. il «capitano» contro i «compagni erranti».

Ora, se l’azione del poema effettivamente si svolge nei modi e nelle direzioni indicati – ed è quanto mi propongo di mostrare – è consentito formulare l’ipotesi di più concreti legami fra tale intreccio narrativo e la situazione storica contemporanea, che vede l’ortodossia cattolica impegnata in una lotta su due fronti: contro gli infedeli fuori d’Europa e contro gli eretici entro i confini d’Europa. Una simile analogia tra situazione poetica e situazione storica non è certo passibile di verifiche puntuali; è sufficiente tuttavia per restituire la GL a una dimensione di bruciante sintonia con i tempi che troppo spesso è stata sottovalutata.

Se di conflitto fra codici si tratta, come io credo, esso è potentemente radicato nel seno della società italiana tardorinascimentale in cui è entrato in crisi quel complesso di valori umanistici che aveva fatto da supporto alla riforma ariostesca del genere cavalleresco.
Il nuovo sistema ideologico si era espresso in un codice letterario caratterizzato – secondo la mirabile definizione del De Sanctis – dalla «individualità, quella forza d’iniziativa che fa di ogni cavaliere l’uomo libero, che trova il suo limite in se stesso, cioè a dire nelle leggi dell’amore e dell’onore, a cui ubbidisce volontariamente». Nel clima di restaurazione cattolica si afferma prepotente un’istanza integralista repressiva che confina progressivamente in una zona di sospetto quella dialettica di valori che si esprimeva nel Furioso sotto il segno della «varietà». Ora questa deve fare i conti con una tendenza totalizzante che «contro la dispersione delle energie e la molteplicità dei punti di vista proprie della cultura laica, cerca di far valere alcuni principi unificanti, ai quali ricondurre l’insieme e ciascuna delle attività umane socialmente impegnate».


Sergio Zatti, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano. Saggio sulla «Gerusalemme liberata», il Saggiatore, Milano 1983

Al cuore della letteratura - volume 2
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Il Quattrocento e il Cinquecento