2 - Il pensiero e la visione della realtà

Umanesimo e Rinascimento – L'opera: Ricordi

2 Il pensiero e la visione della realtà

Escluso ogni impianto ideologico, l’obiettivo che si propone Guicciardini è fare ordine nella complessità del reale, cercare di rintracciare di volta in volta, caso per caso, un filo di Arianna per uscire dal confuso labirinto dei comportamenti umani. Le antiche certezze sono svanite per sempre ma questo non implica la rinuncia alla conoscenza o un abbandono al fatalismo: al contrario, tale consapevolezza lo induce a registrare l’aspetto mutevole della realtà («la varietà delle circunstanze»), ad analizzarlo senza sovrastrutture per quello che è, e a coglierne la natura specifica attraverso singole ricognizioni, per frammenti, tenendo presente che forze ingovernabili (la «fortuna») esercitano il proprio dominio sulle cose umane.

Anche sul piano etico-religioso, Guicciardini si basa su una prospettiva personale. Egli non nega l’esistenza di Dio, ma la religione rappresenta per lui una serie di dogmi incontrollabili: la Provvidenza divina non può essere afferrata dalla nostra mente; Dio rimane sullo sfondo, artefice di un disegno che occorre accettare senza farsi domande.
Le poche parole che Guicciardini dedica a tematiche religiose sono di aspra critica alla Chiesa, giudicata colpevole di aver tradito il messaggio evangelico: «Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie [corruzione] de’ preti: sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da [consacrata a] Dio, e ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado [i compiti politici] che ho avuto con più pontefici [Leone X e Clemente VII, di cui Guicciardini fu collaboratore] m’ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto [se non ci fosse stato questo motivo], arei amato Martino Luther quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti [alle dovute proporzioni], cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità» (ricordo 28).
L’importanza sociale e politica che Machiavelli affidava alla religione viene meno del tutto. Come tutti gli altri modelli ideali di riferimento, anche l’orizzonte spirituale finisce con Guicciardini per ridursi a una problematica tutta individuale.

In questo ripiegamento nella sfera privata, la missione decisiva per l’individuo è salvaguardare la propria identità e dignità. Per riuscirvi, l’uomo deve sapersi orientare sulla base della «discrezione», un insieme di concretezza e moderazione, qualità che non si ricava dalla lettura dei libri, ma dalla «prudenza naturale», cioè da una disposizione innata, a sua volta esercitata e rafforzata grazie all’esperienza. La «discrezione» permette di cogliere lo sviluppo e il modificarsi degli avvenimenti senza proiezioni ideali nel futuro, ma solo attraverso un serrato confronto con il presente.
È senza dubbio un atteggiamento difensivo, che vuole evitare i rischi e le avventure e invita invece a soppesare le circostanze, a impedire forzature, a far coincidere «saviezza » con «prudenza» e oculatezza.

In assenza di ideali collettivi, Guicciardini esorta a inseguire il «particulare», l’altro concetto chiave del suo pensiero. Tale concezione non consiste nell’egoistica ricerca del beneficio personale e materiale, ma nel tentativo di salvaguardare, in mezzo a una realtà caotica, la capacità di «mantenersi la riputazione e el buono nome» (ricordo 218). Anche se questo non esclude la possibilità di cogliere vantaggiose opportunità di cariche, onori e retribuzioni, Guicciardini nobilita il concetto del «particulare» facendo sì che convenienza e benefici privati non siano in contrapposizione con gli interessi della comunità e il bene dello Stato. Ciò non toglie che una tale visione abbia poco o nulla di epico: lo stesso autore, per esempio, ammette senza remore di aver fatto carriera nello Stato pontificio seguendo il proprio «particulare», pur sognando un mondo affrancato dalla «tirannide di questi scelerati preti».
Una prassi opportunistica? Forse, ma fare politica per Guicciardini significa accettare anche il compromesso e non disdegnare di collaborare con il potere tirannico, sia esso rappresentato dai Medici o dai «preti». È questo lo scotto, inevitabile, da pagare per agire davvero nel proprio tempo, senza condannarsi all’irrilevanza o a una sterile testimonianza.

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3 Un lucido pessimismo

Nel 1869 il critico Francesco De Sanctis, da uomo del Risorgimento qual era, diede un giudizio molto severo sul pensiero di Guicciardini. Cogliendovi le tracce di una malattia morale che avrebbe contagiato gli italiani fino all’Ottocento, egli condannava Guicciardini come l’emblema del dissidio tra pensiero e azione e come degno rappresentante italico di un’atavica tendenza al compromesso e al conformismo. Al generoso Machiavelli, profeta e anticipatore dell’Unità d’Italia (con tutte le forzature del caso), veniva contrapposto il Guicciardini freddo calcolatore e abile trasformista.
Ciò che ripugnava a De Sanctis (e, con lui, a un’intera generazione di patriottici idealisti) era lo scetticismo verso ogni ipotesi di cambiamento, nonché la mancanza di slancio appassionato e di carattere: «La razza italiana», scriveva il critico, «non è ancora sanata da questa fiacchezza morale, e non è ancora scomparso dalla sua fronte quel marchio che ci ha impresso la storia di doppiezza e di simulazione. L’uomo del Guicciardini […] lo incontri ad ogni passo. E quest’uomo fatale ci impedisce la via, se non abbiamo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza».

Su un punto almeno possiamo concordare con De Sanctis: Guicciardini non è in grado di concepire alternative positive né di lanciare un messaggio di risoluto antagonismo; atti di fede o gesti eroici non correggono, secondo lui, il corso degli eventi. Nella civiltà umana, tutto è destinato a cambiare e a perire («con la lunghezza del tempo si spengono le città e si perdono le memorie delle cose», scrive nel ricordo 143), ma la sostanza del mondo rimane immodificabile: «El mondo fu sempre di una medesima sorte; e tutto quello che è e sarà, è stato in altro tempo, e le cose medesime ritornano, ma sotto diversi nomi e colori».
Tuttavia, questo pessimismo che lo pervade non comporta la rinuncia a operare. Anzi, è avvertibile, nei Ricordi, l’autoritratto di un intellettuale sospinto dalla ricerca dell’«onore», della «riputazione», della «degnità». L’ambizione non è «dannabile» e non è biasimevole l’«ambizioso» se, stimolato da «appetito» di «gloria», a questa punta con «mezzi onesti e onorevoli». Non solo legittima, l’ambizione è persino virtuosa quando è connotata da una forte valenza civica; diventa invece riprovevole se chi detiene il potere non si fa scrupolo, per realizzare i propri scopi, di calpestare i valori fondamentali dell’uomo, quali la coscienza, l’onore e l’umanità.
Per Guicciardini, però, le possibilità di incidere sulla realtà e modificarla sono pressoché nulle. Da qui si alimentano una dolorosa percezione della vanità della vita e uno sconsolato esame dei comportamenti umani, in cui dominano egoismi e interessi personali. A differenza di Machiavelli, che lo reputava spregevole per natura, Guicciardini ritiene che l’uomo sia «inclinato» al bene, ma che la sua coscienza debole finisca per deviarlo verso il male.

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La perentorietà di questo pensiero è dettata anche dal contesto politico in cui matura. La tragica condizione italiana e gli alti e bassi della propria carriera politica accentuano il senso di sfiducia e di fallimento insito nel suo pensiero. La riflessione amara e disincantata dello storico, del politico e dell’analista dell’agire umano finiscono per coincidere.
Guicciardini è convinto che la crisi politico-militare italiana sia irreversibile; ha conosciuto in prima persona gli uomini che hanno dominato la scena politica del tempo; ha assistito a quella sconvolgente tragedia che è stato il sacco di Roma: come potrebbe condividere ancora la foga eroica e vibrante di Machiavelli?

Rifiutando ogni prospettiva rivoluzionaria, a Guicciardini non rimane che cercare una condizione di dignitoso equilibrio, affidando lo scettro del comando agli «ottimati» (cioè ai cittadini di rango), a quegli uomini della sua stessa classe sociale che oggi definiremmo conservatori e che a suo giudizio sono gli unici dotati di esperienza e capacità amministrativa. Salvaguardare l’ordine e il buon senso, conoscendo dall’interno la macchina dello Stato: a questo programma, per quanto esclusivamente tecnico, Guicciardini è rimasto coerente per tutta la vita.

4 Lo stile

La tradizione a cui l’autore si ricollega è quella, tipicamente fiorentina, dei “ricordi domestici”, testi miscellanei (cioè composti da elementi eterogenei: dai resoconti patrimoniali a riflessioni generali sulla vita) con i quali i grandi mercanti fiorentini tramandavano alle generazioni future la narrazione delle proprie esperienze. Non si tratta certamente di una scelta stilistica solo esteriore: la forma del “ricordo” (oggi diremmo della massima o dell’aforisma, genere piuttosto raro nella letteratura italiana) è infatti congeniale, nella sua secca frammentarietà, a esprimere una visione del mondo del tutto aliena da teorizzazioni schematiche.

I lanzichenecchi a Roma

Johannes Lingelbach, nato in Germania, ma naturalizzato olandese, trascorse a Roma tre anni, dal 1644 al 1650, sviluppando uno stile che lo rese popolare in Italia e all’estero: grandi raffigurazioni di piazze affollate, marine, scene di genere con mendicanti o contadini. In questa tela evoca la tragedia che aveva flagellato Roma un secolo prima, con i lanzichenecchi accampati alle mura della città. Accanto a un poderoso bastione, si scorge in lontananza la rovina di un tempio, a evocare le antichità classiche di cui l’Urbe era ancora ricca nel XVI secolo. Sotto le tende i soldati giocano a dadi o cucinano: in primo piano giacciono le loro armature scintillanti, e accanto, in casse e forzieri, il bottino di oro, argento, pietre preziose e suppellettili razziato dalla città nel 1527.

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Guicciardini sottopone i Ricordi a un continuo lavoro di limatura e revisione, come dimostrano le varianti e le correzioni apportate ai singoli testi. La struttura dell’aforisma è per sua natura veloce e sintetica, e infatti le frasi guicciardiniane si contraddistinguono per uno stile vivace e immediato, che non rinuncia a incursioni nella lingua popolaresca. Non mancano i latinismi, ma ciò non rientra in una strategia di elevazione stilistica, bensì nella pratica abituale della scrittura burocratica, usata nelle cancellerie per dare ai documenti un carattere di dignità e solennità.

5 I testi

I ricordi che antologizziamo conservano il numero e l’ordine che hanno nella raccolta, ma vengono qui raggruppati secondo un criterio tematico.

Temi e motivi dei brani antologizzati
T1 Empirismo e senso pratico
Ricordi, 35; 81; 110; 117; 125; 187; 207
• il distacco fra teoria e pratica
• la negazione della Storia come fonte di insegnamento
• la necessità di considerare ogni aspetto della realtà
T2 I concetti chiave del pensiero di Guicciardini
Ricordi, 6; 30; 66; 118; 186; 218
• la comprensione dei fatti umani attraverso la valutazione caso per caso
• l’impossibilità di elaborare regole di condotta universali
• la ricerca dell’interesse personale quale scopo dell’uomo saggio
• il peso decisivo della fortuna nelle vicende umane
T3 La natura umana
Ricordi, 5; 15; 17; 24; 32; 41; 134; 145; 161
• la fragilità dell’uomo alla base delle contraddizioni del suo comportamento
• l’ambizione e la convenienza quali motori delle azioni umane

PER APPROFONDIRE

Quando il saggio sentenzia: la fortuna dell’aforisma

La parola aforisma viene dal greco aphorismós, che significa “definizione”. È una proposizione che riassume in modo chiaro il risultato di una precedente riflessione. In origine, l’aforisma concentrava ideali di saggezza riferiti soprattutto al campo medico: la prima raccolta di queste brevi massime fu attribuita al famoso medico greco Ippocrate di Cos (ca 460-377 a.C.), autore di una serie di precetti nati dalla sua diretta esperienza.
Un carattere etico, più in linea con i contenuti dell’aforisma moderno, hanno gli scritti dell’imperatore romano Marco Aurelio (121-180): i suoi Ricordi (noti anche con il titolo di Pensieri o Colloqui con sé stesso) godettero di una fortuna ininterrotta e, a partire dalla prima edizione a stampa, del 1559, ispirarono predicatori, pensatori, moralisti e uomini di Stato, i quali aspiravano a riprodurre l’ideale di “filosofo sul trono” che vedevano realizzato in Marco Aurelio.
La scrittura aforistica si diffonde negli ambiti più diversi soprattutto nel Seicento e nel Settecento. Oltre all’esperienza guicciardiniana, vanno ricordati gli Aforismi dell’arte bellica (1670) del condottiero italiano Raimondo Montecuccoli (1609-1680), letti e amati, tra gli altri, da Ugo Foscolo, che ne curò un’edizione nel 1808. Non all’ambito tecnico-scientifico ma a quello della morale appartengono i Pensieri di Blaise Pascal (1623-1662), le Massime di François de La Rochefoucauld (1613-1680) e, alla fine del Settecento, le Massime e pensieri di Sébastien-Roch-Nicolas de Chamfort (1741-1794), che per il sarcasmo dei suoi pensieri finì in carcere, durante il periodo del Terrore della Rivoluzione francese.
Poco prima, e poi nel corso dell’Ottocento, l’aforisma diviene anche lo strumento per esprimere in modo immediato il carattere soggettivo di un’illuminazione improvvisa: per frammenti, pensieri o aforismi scrivono i romantici tedeschi Friedrich Schlegel (1772- 1829) e Novalis (1772-1801), oltre a Giacomo Leopardi (1798-1837), che fa dei Pensieri e in parte anche dello Zibaldone l’officina in cui riversare riflessioni e meditazioni. Maestro dell’aforisma, elevato a genere letterario vero e proprio, è però soprattutto il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), che si vanta di poter dire «in dieci proposizioni quel che ogni altro dice in un libro, quel che ogni altro non dice in un libro».
Infine, nel Novecento, il successo – anche commerciale – dell’aforisma diventa costante: maestri del genere, in Italia, sono stati Leo Longanesi (1905-1957) ed Ennio Flaiano (1910-1972).

Al cuore della letteratura - volume 2
Al cuore della letteratura - volume 2
Il Quattrocento e il Cinquecento