Al cuore della letteratura - volume 2

Umanesimo e Rinascimento – L'opera: Il Principe

 T10 

Quanto possa la fortuna nelle cose umane e in che modo sia possibile arginarla

Il Principe, XXV


Siamo nell’ultima parte del Principe, quella in cui si analizzano le cause della crisi italiana. Nell’approfondire la questione, l’autore si sofferma su un tema caro alla trattatistica umanistico- rinascimentale: il rapporto tra la virtù e la fortuna.

QUANTUM FORTUNA IN REBUS HUMANIS POSSIT ET QUOMODO ILLI SIT
OCCURRENDUM
E’ non mi è incognito1 come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose
del mondo sieno in modo governate, da la fortuna e da Dio, che li uomini con la
5 prudenza loro non possino correggerle,2 anzi non vi abbino remedio alcuno; e per
questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi
governare alla sorte.3 Questa opinione è suta4 più creduta ne’ nostri tempi per
la variazione grande5 delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni
umana coniettura.6 A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato
10 nella opinione loro.7 Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia
spento,8 iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni
nostre, ma che etiam9 lei ne lasci governare l’altra metà, o presso,10 a noi. E assimiglio
quella11 a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano,12 allagano
e’ piani, rovinano13 li arbori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono
15 da quella altra:14 ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza
potervi in alcuna parte ostare.15 E, benché sieno così fatti,16 non resta17 però che
gli uomini, quando sono tempi queti,18 non vi potessino19 fare provedimento e
con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o egli andrebbono per uno
canale 20 o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso.21 Similmente
20 interviene22 della fortuna, la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata23
virtù a resisterle: e quivi volta e’ sua impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini
né e’ ripari a tenerla. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia di queste variazioni
e quella che ha dato loro il moto,24 vedrete essere una campagna25 sanza argini
e sanza alcuno riparo: che, s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come è la 

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25 Magna,26 la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatto le variazioni grande
che la ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti aver detto, quanto allo
opporsi alla fortuna, in universali.27
Ma ristringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi questo principe
felicitare 28 e domani ruinare, sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna;
30 il che credo che nasca, prima, da le cagioni che si sono lungamente per lo addreto
discorse: cioè che quel principe, che si appoggia tutto in su la fortuna, rovina
come quella varia.29 Credo ancora che sia felice quello che riscontra30 il modo del
procedere suo con la qualità de’ tempi:31 e similmente sia infelice quello che con il
procedere suo si discordano e’ tempi. Perché si vede gli uomini, nelle cose che gli
35 conducono al fine quale ciascuno ha innanzi,32 cioè gloria e ricchezze, procedervi
variamente: 33 l’uno con rispetto,34 l’altro con impeto; l’uno per violenzia, l’altro
con arte;35 l’uno con pazienza,36 l’altro col suo contrario; e ciascuno con questi
diversi modi vi può pervenire. E vedesi ancora dua respettivi,37 l’uno pervenire al
suo disegno, l’altro no; e similmente dua equalmente felicitare con diversi studii,38
40 sendo l’uno respettivo e l’altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non da la
qualità de’ tempi che si conformano, o no, col procedere loro. Di qui nasce quello
ho detto,39 che dua, diversamente operando, sortiscono40 el medesimo effetto: e
dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro no. Da questo
ancora depende la variazione del bene; perché se uno, che si governa41 con rispetti
45 e pazienza, e’ tempi e le cose girono in modo che il governo suo sia buono, e’
viene felicitando: ma se e’ tempi e le cose si mutano, rovina, perché e’ non muta
modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente che si sappia accommodare a
questo:4243 perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina,44
etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può
50 persuadere che sia bene partirsi45 da quella. E però l’uomo respettivo, quando e’ gli
è tempo di venire allo impeto,46 non lo sa fare: donde e’ rovina; che se si mutassi
natura con e’ tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna.47
Papa Iulio II48 procedé in ogni sua azione impetuosamente, e trovò tanto e’ tempi
e le cose conforme a quello suo modo di procedere che sempre sortì felice fine.
55 Considerate la prima impresa ch’e’ fe’ di Bologna,49 vivendo ancora messer Giovanni
Bentivogli. Viniziani non se ne contentavano; el re di Spagna, quel medesimo; con
Francia aveva ragionamenti di tale impresa.50 E lui nondimanco con la sua ferocità51

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e impeto si mosse personalmente a quella espedizione. La qual mossa fece stare
sospesi e fermi Spagna e viniziani, quegli per paura e quell’altro52 per il desiderio
60 aveva53 di recuperare tutto el regno di Napoli; e da l’altro canto si tirò dietro il re di
Francia perché, vedutolo quel re mosso54 e desiderando farselo amico per abbassare55
e’ viniziani, iudicò non poterli negare gli eserciti sua sanza iniuriarlo manifestamente.56
Condusse 57 adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro
pontefice, con tutta la umana prudenza, arebbe condotto. Perché, se egli aspettava di
65 partirsi da Roma con le conclusioni ferme e tutte le cose ordinate,58 come qualunque
altro pontefice arebbe fatto, mai gli riusciva:59 perché il re di Francia arebbe avuto
mille scuse e li altri li arebbono messo60 mille paure. Io voglio lasciare stare le altre
sua azioni, che tutte sono state simili e tutte gli sono successe bene:61 e la brevità della
vita non li ha lasciato sentire62 il contrario; perché, se fussino sopravvenuti tempi
70 che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua rovina: né mai arebbe
deviato da quegli modi alli quali la natura lo inclinava.
Concludo adunque che, variando la fortuna e’ tempi e stando li uomini ne’
loro modi ostinati,63 sono felici mentre concordano insieme e, come64 e’ discordano,
infelici. Io iudico bene questo,65 che sia meglio essere impetuoso che respettivo:
75 perché la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto,66 batterla e
urtarla.67 E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quegli che freddamente68
procedono: e però69 sempre, come70 donna, è amica de’ giovani, perché
sono meno respettivi, più feroci71 e con più audacia la comandano.

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I contenuti tematici

Il capitolo si struttura in due parti evidenziate dallo stesso autore: nella prima, egli ragiona in una prospettiva universale affermando in teoria la fondatezza del suo ragionamento; nella seconda, invece, intende restringersi a’ particulari (r. 28). È questo un caso in cui Machiavelli sceglie il metodo deduttivo: la teoria generale serve a spiegare il particolare.

La prima parte inizia subito con un’opposizione al giudizio dominante. L’opinione comune (a cui Machiavelli riconosce di aver aderito qualche volta, r. 9) è che la sorte e Dio governino la vita degli uomini senza che questi ultimi possano modificarla. Tale fatalismo si traduce nella passività, nel lasciarsi governare alla sorte (rr. 6-7), che è quanto accade da tempo in Italia, dove l’inerzia è la causa prima della rovina. Proprio in contrapposizione con tale abulia, il consueto nondimanco (r. 10) introduce il punto di vista dell’autore, il quale, sulla scia tracciata dal pensiero umanistico, rivaluta il libero arbitrio e considera la fortuna arbitra della metà delle azioni nostre (rr. 11-12). Fortuna e virtù sono dunque sullo stesso piano, dividendosi il potere di incidere sulla vita e sulle azioni dell’uomo.

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A sostegno della tesi, Machiavelli introduce una metafora: la fortuna è assimilata a uno di questi fiumi rovinosi (r. 13) capaci di abbattere ogni cosa; fiumi che tuttavia, quando le condizioni esterne siano propizie, cioè nei tempi queti (r. 17), possono essere incanalati e resi inoffensivi. La metafora non ha in Machiavelli una funzione di semplice abbellimento del discorso; rivelandosi funzionale all’argomentazione, essa viene infatti spiegata e per così dire glossata ai fini di una maggiore incisività e chiarezza: la fortuna dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle (rr. 20-21).
Seguono poi l’esempio della realtà storica e il confronto tra i grandi paesi europei, Germania, Spagna e Francia, che, grazie alle loro salde monarchie, si sono dotati degli argini per far fronte alla violenza della fortuna (e quindi alle turbolenze politiche), e l’Italia, che è invece campagna […] sanza alcuno riparo (rr. 23-24), cioè inerte dinanzi alle scorrerie degli stranieri.

La seconda parte si apre con un’affermazione che sembra negare in partenza ogni possibilità umana di indirizzare il corso degli eventi: dico come si vede oggi questo principe felicitare e domani ruinare, sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna (rr. 28-29). Il successo e l’insuccesso dipenderebbero quindi da circostanze esterne e fortuite, indipendenti dalla volontà umana. Tuttavia, un rimedio, anche se parziale e probabilmente fallibile, esiste ancora: il saper “riscontrare”, cioè adattarsi. Diremmo oggi: la capacità di essere camaleontici, di mutare indole a seconda della convenienza, accordandosi a come e’ tempi e le cose girono (r. 45). Le circostanze possono consigliare di avere ora un atteggiamento respettivo, cioè prudente e guardingo, ora impetuoso (r. 40). A quest’ultima condotta si è ispirato papa Giulio II, che proprio grazie alla sua natura impetuosa ha potuto accordarsi con successo allo spirito del suo tempo.

Nella conclusione del capitolo, Machiavelli raccoglie le fila del discorso per preparare il terreno alla conclusione militante del trattato. Infatti, dopo aver sottolineato la necessità di adeguare alle situazioni contingenti i comportamenti da adottare per contrastare la fortuna, dichiara apertamente di propendere per l’azione energica del principe. Riprendendo una diffusa tradizione misogina che identifica nella donna una creatura irrazionale, istintiva e capricciosa, l’autore afferma che la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla (rr. 75-76). Dunque l’aggressività virile si fa preferire alla cautela e alla misura: una conclusione che si spiega del tutto solo dopo aver letto il capitolo finale del Principe, nel quale Machiavelli esorta i Medici a liberare l’Italia dall’oppressione straniera. Per far ciò, non era più possibile temporeggiare: solo l’impeto avrebbe permesso di raggiungere l’obiettivo.

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      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Spiega le grandi immagini metaforiche della fortuna come un fiume in piena e come una donna.


2 Perché l’Italia è senza argini e riparo?


3 Il capitolo si divide in due parti: alla parte iniziale, che si sofferma in universali (“in generale”) su come opporsi alla fortuna, subentra poi quella sui particulari. Riassumi in 10 righe il contenuto di ciascuna delle due parti.

ANALIZZARE

4 Individua le strategie retoriche (verbi, sostantivi, congiunzioni, connettivi ecc.) utilizzate da Machiavelli per rendere il suo stile così perentorio.


5 Fai l’analisi del periodo dell’ultimo paragrafo (da Concludo a comandano, rr. 72-78).

INTERPRETARE

6 Perché è opportuno legare la preferenza finale accordata da Machiavelli per l’impetuosità alla finalità pratica e operativa del Principe?

PRODURRE

La tua esperienza

7 Machiavelli è convinto che la fortuna sia, almeno in parte, ancora indirizzabile dalla virtù. Sulla base della tua esperienza personale, riponi anche tu la medesima fiducia sulle possibilità dell’uomo di determinare il corso della propria esistenza? Spiegalo in un testo argomentativo di circa 20 righe.


8 Forzare o temporeggiare? Il dilemma è antico: tu sei un sostenitore del coraggio o della prudenza? In quali occasioni ti sei servito dell’uno o dell’altra? Scrivi un testo di circa 20 righe.


 T11 

Esortazione a conquistare l’Italia e a liberarla dalle mani dei barbari

Il Principe, XXVI


Il Principe si chiude con un’appassionata e vibrante esortazione rivolta ai Medici affinché riscattino l’Italia dalla schiavitù cui l’ha condotta l’ignavia dei principi italiani.

EXHORTATIO AD CAPESSENDAM ITALIAM IN LIBERTATEMQUE A BARBARIS
VINDICANDAM
Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse,1 e pensando meco medesimo
se al presente in Italia correvano tempi da onorare uno nuovo principe,2 e se ci era
5 materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma3 che facessi
onore a lui e bene alla università4 delli uomini di quella, mi pare concorrino
tante cose in benefizio5 di uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi
più atto a questo. E se, come io dissi,6 era necessario, volendo vedere7 la virtù di
Moisè, che il populo d’Isdrael fussi stiavo8 in Egitto; e a conoscere la grandezza dello
10 animo di Ciro, che ’ Persi fussino oppressati9 da’ Medi; e la eccellenzia di Teseo,
che li Ateniesi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno
spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi ne’ termini10 presenti, e che

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la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch’e Persi, più dispersa11 che gli Ateniesi:
sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa,12 e avessi sopportato
15 d’ogni sorte ruina.13
E benché insino a qui si sia mostro14 qualche spiraculo15 in qualcuno,16 da
potere iudicare ch’e’ fussi ordinato da Dio per sua redenzione, tamen17 si è visto
come di poi, nel più alto corso delle azioni sua,18 è stato da la fortuna reprobato.19
In modo che, rimasa come sanza vita, aspetta quale possa20 essere quello che sani21
20 le sue ferite e ponga fine a’ sacchi22 di Lombardia, alle taglie23 del Reame e di Toscana,
e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite.24 Vedesi come
la priega Iddio che li mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà e insolenzie
barbare.25 Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che
ci sia uno che la pigli. Né ci si vede al presente in quale lei possa più sperare che
25 nella illustre Casa vostra,26 la quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e da
la Chiesa, della quale è ora principe,27 possa farsi capo di questa redenzione. Il che
non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita de’ sopra nominati;28
e benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, nondimeno furno uomini, ed
ebbe ciascuno di loro minore29 occasione che la presente: perché la impresa loro
30 non fu più iusta di questa, né più facile, né fu Dio più amico loro che a voi. Qui è
iustizia grande: iustum enim est bellum quibus necessarium et pia arma ubi nulla
nisi in armis spes est.30 Qui è disposizione grandissima:31 né può essere, dove è
grande disposizione, grande difficultà, pure che quella pigli delli ordini di coloro
che io ho preposti per mira.32 Oltre a di questo, qui si veggono estraordinari sanza
35 esemplo,33 condotti da Dio: el mare si è aperto; una nube vi ha scorto il cammino;
la pietra ha versato acque; qui è piovuto la manna.34 Ogni cosa è concorsa nella
vostra grandezza. El rimanente dovete fare voi: Dio non vuole fare ogni cosa, per
non ci tòrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi.
E non è maraviglia se alcuno de’ prenominati35 italiani non ha possuto fare
40 quello che si può sperare facci la illustre Casa vostra, e se, in tante revoluzioni36 di
Italia e in tanti maneggi di guerra, e’ pare sempre che in Italia la virtù militare sia
spenta; perché questo nasce che gli ordini antichi di quella non erono buoni,37 e

 >> pag. 361 

non ci è suto38 alcuno che abbia saputo trovare de’ nuovi. E veruna cosa fa tanto
onore a uno uomo che di nuovo surga,39 quanto fa le nuove legge ed e’ nuovi ordini
45 trovati da lui: queste cose, quando sono bene fondate e abbino in loro grandezza,
lo fanno reverendo40 e mirabile. E in Italia non manca materia da introdurvi
ogni forma: qui è virtù grande nelle membra,41 quando la non mancassi ne’ capi.
Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’ pochi,42 quanto gli italiani sieno superiori
con le forze, con la destrezza, con lo ingegno; ma come e’ si viene alli eserciti,
50 non compariscono.43 E tutto procede da la debolezza de’ capi: perché quegli che
sanno non sono ubbiditi e a ciascuno pare sapere, non ci essendo insino a qui suto
alcuno che si sia rilevato tanto, e per virtù e per fortuna, che li altri cedino.44
Di qui nasce che in tanto tempo, in tante guerre fatte ne’ passati venti anni,
quando gli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova:45 di che è
55 testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna, Mestri.46
Volendo adunque la illustre Casa vostra seguitare quelli eccellenti uomini che
redimerno47 le provincie loro, è necessario innanzi a tutte le altre cose, come vero
fondamento d’ogni impresa, provedersi d’arme proprie, perché non si può avere
né più fidi, né più veri, né migliori soldati: e benché ciascuno di essi sia buono,
60 tutti insieme diventeranno migliori quando si vedessino comandare dal loro
principe, e da quello onorare e intrattenere.48 È necessario pertanto prepararsi a
queste arme,49 per potersi con la virtù italica defendere da li esterni. E benché la
fanteria svizzera e spagnuola sia esistimata terribile, nondimanco in ambedua è
difetto50 per il quale uno ordine terzo51 potrebbe non solamente opporsi loro, ma
65 confidare52 di superargli. Perché gli spagnuoli non possono sostenere e’ cavagli,53
e li svizzeri hanno ad avere paura de’ fanti quando gli riscontrino nel combattere
ostinati come loro: donde54 si è veduto e vedrassi, per esperienza, li spagnuoli non
potere sostenere una cavalleria franzese e li svizzeri essere rovinati da una fanteria
spagnuola. E benché di questo ultimo non se ne sia visto intera esperienza,55
70 tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna,56 quando le fanterie
spagnuole si affrontorno con le battaglie tedesche, le quali servano el medesimo
ordine che li svizzeri: dove li spagnuoli, con la agilità del corpo e aiuto de’ loro
brocchieri,57 erano entrati, tra le picche58 loro, sotto e stavano sicuri a offendergli
sanza che li tedeschi vi avessino remedio; e se non fussi59 la cavalleria, che gli urtò,

 >> pag. 362 

75 gli arebbono consumati60 tutti. Puossi adunque, conosciuto il difetto dell’una e
dell’altra di queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a’ cavalli e non
abbia paura de’ fanti: il che lo farà la generazione delle armi e la variazione delli
ordini;61 e queste sono di quelle cose che, di nuovo ordinate, danno reputazione e
grandezza a uno principe nuovo.
80 Non si debba adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia vegga
dopo tanto tempo apparire uno suo redentore. Né posso esprimere con quale
amore e’ fussi62 ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni63
esterne, con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con
che lacrime. Quali porte se li serrerebbono?64 Quali populi gli negherebbono la
85 obbedienza? Quale invidia se li opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe lo ossequio?
A ognuno puzza65 questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre Casa
vostra questo assunto,66 con quello animo e con quella speranza che si pigliono67
le imprese iuste, acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata e,
sotto e’ sua auspizi,68 si verifichi quel detto del Petrarca, – quando disse:

90 Virtù contro a furore
prenderà l’armi, e fia el combatter corto,
che l’antico valore
nelli italici cor non è ancor morto
.69

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Nell’epilogo del Principe Machiavelli esprime palesemente la vitalità appassionata della sua partecipazione politica e la tensione intellettuale con cui la sua opera, soltanto apparentemente analitica e imparziale, si cala nella bruciante attualità del tempo. L’autore fa appello a sentimenti e ideali di norma banditi nella sua analisi: chiama in causa l’amore, la fede, la pietà, la speranza, la patria, la giustizia. Cita il nome di Dio (sei volte solo nel secondo paragrafo), accenna a missioni, redenzioni, predestinazioni. Abbandonato l’andamento argomentativo dei capitoli precedenti, egli non si accontenta più della teoria e ricorre alla fede per acquistare efficacia e forza di convincimento. A prima vista, insomma, anche alla luce dell’icasticità del lessico e dell’alta tensione espressiva, sembrerebbe un discorso non di Machiavelli, ma di Savonarola.
L’invito che egli formula – lo chiarisce subito – non nasce da un generico auspicio o da un’astratta proposizione di intenti. A renderlo concreto e praticabile, infatti, ci sono le circostanze: c’è l’occasione propizia per un principe, prudente e al tempo stesso virtuoso (r. 5), di redimere finalmente l’Italia. La convinzione è suffragata dagli esempi del passato: i grandi fondatori di Stati del tempo antico – e si ricorderà che i nomi proposti(Mosè, Ciro e Teseo) erano già stati presi a modello nel capitolo VI – hanno saputo cogliere l’opportunità di liberare i propri popoli quando erano nella più tragica condizione di oppressione. A maggior ragione, attende il suo liberatore l’Italia, che è più stiava che li Ebrei, più serva ch’e Persi, più dispersa che gli Ateniesi (r. 13), ha sopportato d’ogni sorte ruina (rr. 14-15) ed è pronta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli (rr. 23-24).

 >> pag. 363 

Nella parte centrale e finale del capitolo, Machiavelli si rivolge a quelli che egli ritiene gli unici salvatori possibili d’Italia, i Medici, ai quali anche il disegno divino pare fornire un aiuto significativo con l’elezione di papa Leone X. Ora sta a loro mettere in pratica ciò che tutte le circostanze contingenti sembrano favorire. Per poterlo fare, devono provedersi d’arme proprie (r. 58) e cementare la virtù italica (r. 62), troppo spesso dispersa dalla debolezza de’ capi (r. 50), contro li esterni (r. 62).
L’intervento di un redentore (r. 81), una sorta di messia che non lasci passare questa occasione (r. 80), è invocato con accenti drammatici alla fine dell’esortazione, che poi si distende rievocando la speranza già espressa nei versi di Petrarca.

Le scelte stilistiche

Nel confrontare questo capitolo con i precedenti, si può notare subito una differenza sostanziale nello stile e nel tono dell’argomentazione. Il motivo sta innanzitutto nella peculiarità di questo epilogo, che appartiene a un genere retorico specifico, quello appunto dell’esortazione, caratterizzato dall’enfasi e dalla vibrante carica emotiva con cui si cerca di coinvolgere il lettore.
E dire che l’inizio della riflessione sembrerebbe contrassegnato dalla pacatezza. Considerato, pensando, se al presente (rr. 3-4): il ritmo lento di un’articolata sintassi conferisce all’incipit del capitolo un tono meditativo, che è però immediatamente contraddetto dalla commossa impennata che prende il discorso quando si introducono le motivazioni dell’esortazione: mi pare concorrino tante cose in benefizio di uno principe nuovo (rr. 6-7).

Poi, nella parte restante del capitolo, il pathos ricercato da Machiavelli è felicemente ottenuto grazie all’adozione di una serie di espedienti retorici. Si veda innanzitutto come viene ritratta l’Italia: attraverso immagini quali sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa (r. 14) si esprime l’indignazione per una condizione di servitù disonorevole. Rimasa come sanza vita, nella speranza che intervenga qualcuno che sani le sue ferite […] e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite (rr. 19-21): con questa rappresentazione cruda e quasi espressionistica, Machiavelli dipinge l’Italia, personificandola come una malata che esibisce la cancrena morale della propria carne corrotta.
Accrescono poi la tensione le anafore* (Vedesi… Vedesi, rr. 21 e 23; Qui… Qui… qui, rr. 30, 32 e 34; Quali… Quali… Quale… Quale, rr. 84-85) e le domande retoriche (Quali populi gli negherebbono la obbedienza? Quale invidia se li opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe lo ossequio?, rr. 84-86), fino all’accorata esclamazione con cui Machiavelli manifesta in forma immediata e popolaresca l’indignazione collettiva: A ognuno puzza questo barbaro dominio (r. 86).

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Quale condizione dell’Italia del momento appare a Machiavelli estremamente propizia per una sua redenzione? Perché Lorenzo di Piero de’ Medici è l’uomo giusto al momento giusto per compiere questa impresa?


2 Quale testo viene citato in chiusura? Qual è il suo contenuto?

 >> pag. 364 

ANALIZZARE

3 Fai l’analisi del periodo da Considerato adunque a più atto a questo (rr. 3-8).


4 Individua tutte le metafore presenti nel capitolo e spiegane il significato.

INTERPRETARE

5 Per temperamento Machiavelli sembrerebbe essere un autore “dantesco”, eppure conclude il trattato con una citazione di Petrarca: motiva questa scelta.

PRODURRE

6 La citazione latina tratta dallo storico Tito Livio, riportata da Machiavelli alle rr. 31-32, evidenzia la convinzione che esistano guerre giuste. Facendo riferimento ai tempi moderni e contemporanei, tu approvi il punto di vista dell’autore? Illustra il tuo pensiero con un testo argomentativo di circa 30 righe.


7 Machiavelli offre un ritratto spietato dell’Italia del suo tempo. E oggi? Come appare ai tuoi occhi il nostro paese? Scrivi un testo di circa 30 righe.


PER APPROFONDIRE

Un protagonista del male: Machiavelli personaggio d’invenzione

L’antimachiavellismo, cioè la corrente di pensiero che si afferma in Italia e in Europa dalla metà del Cinquecento in opposizione alle teorie politiche di Machiavelli, non si limita alla censura morale e ideologica della sua opera. Non vengono combattute aspramente solo le sue idee: anche il loro artefice, ritenuto responsabile delle peggiori malvagità, viene presto assimilato a un figlio di Satana, all’eroe diabolico di una leggenda nera. Non a caso l’aggettivo derivato dal suo nome, “machiavellico”, finisce presto per designare un comportamento subdolo, cinico, spregiudicato.
Prototipo e incarnazione del male, l’autore del Principe diventa perfino un personaggio d’invenzione, un fantasma che si muove sulla scena del teatro, della poesia e del romanzo. Specie in Inghilterra, durante l’epoca elisabettiana, Machiavelli è il simbolo della frode, l’italiano sanguinario e mefistofelico, nemico del genere umano: Old Nick (come viene ribattezzato con un misto di attrazione e repulsione) appare nei drammi di Christopher Marlowe (1564- 1593), di William Shakespeare (1564-1616), di Ben Jonson (1572-1637).
Un gioco analogico permette di trasformare il nome Machiavelli adattandolo alla sua supposta immoralità. Così, ecco l’accostamento per assonanza di devil (“diavolo”) ed evil (“male”) con il suo nome attraverso il binomio Match-evil: «Erano dunque possibili frasi come Machevill that evil none can match, “Machiavelli a cui nessun male è pari”, o scomposizioni analitiche dell’aggettivo Machiavellian come Match e villain, traducibile su per giù con “pari a un villano”» (Motolese).
Dunque non stupisce che l’abnorme consigliere del male proliferi nei teatri secenteschi inglesi. Lo scrittore Robert Daborne (ca 1580-1628) mette in scena nel 1613 una commedia dal titolo Machiavel and the Devil. Due anni prima, nel 1611, il più grande poeta inglese del Seicento, John Donne (1572-1631), scrive una strana satira in inglese e latino dal titolo Ignatius His Conclave (1611). Naturalmente lo spirito di Machiavelli è all’inferno, dove, nelle vesti di cortigiano di Lucifero, ingaggia una gara di malvagità con sant’Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù. Alla fine è costretto alla resa, ma il suo insegnamento della menzogna e del tradimento rimane invincibile.
Chi pensa che l’immagine sinistra di Machiavelli sia stata archiviata nei tempi moderni (una volta, insomma, che la sua opera inizi a essere letta senza preconcetti e strumentalizzazioni) è fuori strada. Ancora oggi basta scorrere i cataloghi delle principali case editrici e si scopre che non di rado ricompaiono le fattezze di Niccolò. Magari con ruoli diversi, ma sempre tagliati su misura per esaltarne l’inquietante intelligenza. E, allora, troviamo un Machiavelli detective, in thriller dove realtà e fantasia si mescolano, secondo una ricetta narrativa di grande presa sul pubblico, come nei romanzi del fiorentino Leonardo Gori, Le ossa di Dio (2007) e La città del sole nero (2008), o dell’americano Michael Ennis, che in La congiura Machiavelli (2013) escogita una specie di Criminal Minds rinascimentale. In fondo, se Niccolò nelle sue opere aveva dato prova di eccezionali doti di ingegno nel capire i sentimenti e i motivi delle azioni umane, perché stupirsi se oggi indossa i panni del profiler, capace di tracciare l’identikit degli assassini?
Tra crimini e cospirazioni Machiavelli insomma sta a meraviglia, tuttavia chi non ama la fiction e magari sogna un futuro – meno avventuroso ma più redditizio – da imprenditore potrebbe leggere le opere del segretario fiorentino come quelle di un guru dell’alta finanza. Così almeno consigliano due manuali per aspiranti manager (li firmano Antony Jay e Gerald R. Griffin, con i titoli, rispettivamente, Management and Machiavelli, 1967, e Machiavelli on Management, 1991), in cui si sostiene che i suggerimenti dati al principe per impossessarsi del potere e mantenerlo possano valere anche per un capo d’azienda disposto a tutto o quasi pur di farsi largo nella giungla del capitalismo.

Al cuore della letteratura - volume 2
Al cuore della letteratura - volume 2
Il Quattrocento e il Cinquecento