Al cuore della letteratura - volume 2

Umanesimo e Rinascimento – L'opera: Il Principe

 T9 

In che modo la parola data debba essere mantenuta dai principi

Il Principe, XVIII


È questo il capitolo che ha legittimato la falsa attribuzione a Machiavelli dell’espressione “il fine giustifica i mezzi”. Infatti, qui l’autore ribalta il punto di vista etico tradizionale, mettendo in discussione la necessità che il principe sia fedele e leale.

QUOMODO FIDES A PRINCIPIBUS SIT SERVANDA
Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede1 e vivere con integrità2
e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco3 si vede per esperienzia ne’
nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco
5 conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare4 e’ cervelli delli uomini: e alla fine
hanno superato quelli che si sono fondati in su la realtà.5
Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere:6 l’uno, con
le leggi;7 l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle
bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto
10 a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte
è suta8 insegnata alli principi copertamente9 da li antichi scrittori, e’ quali scrivono
come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire10 a Chirone
centauro,11 che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere
per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe
15 sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile.12
Sendo dunque necessitato13 uno principe sapere bene usare la bestia, debbe
di quelle pigliare la golpe e il lione:14 perché el lione non si difende da’ lacci, la
golpe non si difende da’ lupi;15 bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci,
e lione a sbigottire16 e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se
20 ne intendono.17 Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare18 la
fede quando tale osservanzia gli torni contro19 e che sono spente le cagioni20 che
la feciono promettere. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe
buono: ma perché e’ sono tristi21 e non la osserverebbono a te,22 tu etiam23
non l’hai a osservare24 a loro; né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di
25 colorire la inosservanzia.25 Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e

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mostrare quante pace, quante promisse sono state fatte irrite26 e vane per la infidelità
de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato.27
Ma è necessario questa natura saperla bene colorire ed essere gran simulatore e dissimulatore:
e sono tanto semplici28 gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità
30 presenti,29 che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
Io non voglio delli esempli freschi30 tacerne uno. Alessandro sesto31 non fece
mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini, e sempre trovò subietto32
da poterlo fare: e non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare,
e con maggiori iuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno;33 nondimeno
35 sempre gli succederno gl’inganni ad votum,34 perché conosceva bene questa
parte del mondo.
A uno principe adunque non è necessario avere in fatto35 tutte le soprascritte36
qualità, ma è bene necessario parere37 di averle; anzi ardirò di dire questo:
che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono
40 utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero,38 religioso, ed essere: ma stare
in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia
diventare il contrario.39 E hassi a40 intendere questo, che uno principe e massime
uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini
sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare
45 contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione.41 E
però bisogna42 che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti
della fortuna e la variazione delle cose gli comandano; e, come di sopra dissi, non
partirsi 43 dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato.44
Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca
50 cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo,
tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa
più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità.45 E li uomini in universali46
iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a
sentire a pochi:47 ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’;
55 e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà
dello stato che gli difenda;48 e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi,
dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine.49

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Facci50 dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre
fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso51
60 con quello che pare e con lo evento della cosa:52 e nel mondo non è se non
vulgo, e’ pochi53 non ci hanno luogo54 quando gli assai55 hanno dove appoggiarsi.
Alcuno principe de’ presenti tempi,56 il quale non è bene nominare, non predica
mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra,
quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Secondo Machiavelli, l’etica deve essere subordinata alle leggi della politica. Il principe infatti, per mantenere saldo il potere, non deve ricorrere a qualità morali: importante è dare l’impressione di averle, sempre che tale simulazione sia utile alla sua causa. Il modello ideale, prefigurato dalla trattatistica medievale e umanistica, è ormai superato: i sentimenti, i valori nobili, la bontà e infine la lealtà possono rappresentare perfino degli ostacoli per conservare lo Stato.

Sono le circostanze a consigliare la condotta giusta. Il discrimine non è costituito dal bene né dal male, ma dall’utile e dal dannoso ai fini del successo, cioè il mantenimento del potere. Il realismo impone a Machiavelli di evitare le ambiguità e di affermare la necessità anche di strumenti “non buoni”, ma indispensabili per reggere lo Stato. Il principe pronto a combattere ha a disposizione due armi, le leggi e la forza (rr. 7-8): le prime adatte all’uomo, le seconde alle bestie. Per questo, egli deve sapere bene usare la bestia e lo uomo (r. 10). L’esempio del centauro Chirone, mitico essere metà uomo e metà cavallo, educatore di principi ed eroi come Achille, ha la funzione di mostrare come queste due nature possano e anzi debbano coesistere.
Come sempre, Machiavelli ragiona seguendo il suo schema “dilemmatico”, qui proposto nella rappresentazione del lione, vale a dire della forza, e della golpe, cioè dell’astuzia (rr. 16-20). Infine, l’esempio concreto attinto dalla Storia, anche quella più recente (la vicenda di Alessandro VI), accredita il postulato teorico.

Ma quale immagine deve dare di sé all’esterno il principe? Come può ottenere e conservare il consenso dei suoi sudditi? Per rispondere a tali domande, Machiavelli riafferma il contrasto tra realtà e apparenza: quest’ultima conta, almeno in politica, più della prima.
Ciò non significa che egli esalti la finzione, la slealtà o il doppiogiochismo. Ma, per chi vuole guardare all’effettiva realtà dei fatti, tali condotte si rivelano talvolta – dolorosamente – inevitabili. Machiavelli immagina in anticipo i rilievi e le critiche che i difensori dell’etica pubblica potranno riservare a un indirizzo politico così disincantato e apparentemente cinico. Infatti usa una congiunzione tipica del suo argomentare, fatto di tesi e antitesi: nondimanco (r. 3). L’autore riconosce che sarebbe auspicabile che il principe si attenesse alla parola data e si comportasse lealmente con i sudditi: ciò sarebbe giustificabile se li uomini fussino tutti buoni (r. 22), un’ipotesi che il pessimismo machiavelliano esclude. Tuttavia (ecco il significato di quel nondimanco) l’esperienzia (r. 3) dice il contrario: nella lotta politica, a prevalere è sempre chi è capace di essere falso, doppio e ingannatore.

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La conclusione “scandalosa” richiede coraggio intellettuale. Machiavelli infatti sceglie di andare fino in fondo al ragionamento (ardirò di dire questo, r. 38), distinguendo ciò che vale per gli uomini chiamati buoni e ciò che vale per un principe, e massime uno principe nuovo (rr. 42-43): per quest’ultimo è doveroso parere pietoso e religioso, ed essere, ma, se le circostanze lo richiedono, diventare il contrario (rr. 40-42).
Il principe non deve agire secondo un codice precostituito, ma assecondare e’ venti della fortuna e la variazione delle cose (rr. 46-47): conclusione, certo, amara, ma inevitabile, data la vera realtà degli uomini, ribadita ancora alla fine del capitolo. Per la maggior parte essi, secondo Machiavelli, iudicano più alli occhi che alle mani (r. 53): non sono altro che vulgo (r. 61), cioè una massa informe senza discernimento e perciò incline a essere soggiogata dalla propaganda.

Le scelte stilistiche

La perentorietà delle affermazioni contenute in questo capitolo va di pari passo con la chiarezza con cui sono esposte. Non a caso Machiavelli sceglie di appellarsi direttamente ai lettori, chiamandoli in causa con il “voi” (Dovete adunque sapere, r. 7). L’espediente serve a esprimere l’urgenza degli assunti e la razionale logicità dei passaggi del discorso. Ecco spiegati l’uso di periodi brevi e secchi, caratterizzati dal tono definitivo e indiscutibile di una massima proverbiale (non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato, rr. 47-48; e nel mondo non è se non vulgo, rr. 60-61), e il ricorso a congiunzioni con valore conclusivo (dunque, adunque, però con il significato di “perciò”, “pertanto”). Del resto, verbi, termini e nessi sintattici esprimono il senso della necessità e del dovere (è necessario, bisogna; presenza di imperativi e di esortativi). In questa direzione va anche l’immagine metaforica del centauro, che esprime l’obbligo per un principe di coniugare la natura umana e quella animalesca della politica (bisogna a uno principe saper usare l’una e l’altra natura, rr. 14-15). Quest’ultima, secondo lo schema “dilemmatico” caro all’autore, si esplica in un’altra coppia, anch’essa metaforica: il leone e la volpe, simboli rispettivamente della forza e dell’astuzia.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Dopo aver letto il capitolo, rispondi alla domanda che lo introduce: in che modo la parola data deve essere mantenuta dai principi?


2 Perché il principe deve essere al tempo stesso volpe e leone?


3 Quali sono i limiti all’uso della crudeltà e della durezza?


4 Quale immagine deve cercare di dare di sé un principe accorto e saggio?

ANALIZZARE

5 Rintraccia nel testo i termini (verbi, sostantivi, aggettivi) che rimandano all’area semantica della necessità.

INTERPRETARE

6 Spiega e commenta le seguenti espressioni contenute nel testo:

si vede per esperienzia (r. 3);
a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo (r. 10);
E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono (rr. 22-23);
non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato (rr. 47-48);
Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati (rr. 58-59).

PRODURRE

7 Nella sua analisi realistica, Machiavelli sostiene che il principe è spesso necessitato a venir meno alla parola data. Spostando l’attenzione sulla dimensione privata, rifletti se esistano dei casi in cui è possibile, se non approvare, almeno giustificare l’assenza di lealtà. Scrivi un testo argomentativo di circa 20 righe.


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CONSONANZE
DISSONANZE

Foscolo legge Machiavelli

Tra il Seicento e il Settecento cadono i presupposti su cui si muoveva la critica preconcetta all’opera machiavelliana. Venuta meno la spinta dell’intolleranza religiosa, Il Principe viene fatto oggetto di un’interpretazione “obliqua”, che tenta cioè di rintracciare i significati impliciti e indiretti dell’opera, letta ora non più come un vademecum, cioè come una guida a uso dei tiranni, ma come un trattato grazie al quale capire i torbidi meccanismi del potere. Specie durante l’Illuminismo, una tale lettura incontra molti favori. Basta citare ciò che scrive Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) nel Contratto sociale: «Fingendo di dare lezione ai re, ne ha date di grandi ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani». Lo scrittore che meglio esprimerà questa visione politica nella propria opera è Ugo Foscolo (1778-1827), a cui spetta il merito di aver ricreato in Italia un mito positivo di Machiavelli che, già in parte abbozzato da Vittorio Alfieri (1749-1803) nel trattato Del principe e delle lettere (1786), avrà grande eco nel pensiero risorgimentale. Nel carme Dei sepolcri (1807), mentre passa in rassegna i grandi italiani sepolti nella basilica fiorentina di Santa Croce, il poeta si sofferma dinanzi alla tomba di Machiavelli (vv. 154-158):


« […] Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande
che temprando lo scettro a’ regnatori
gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue »


L’autore del Principe è dunque designato come il grande uomo che, mentre istruisce i governanti nell’arte del potere (temprando lo scettro a’ regnatori), ne mostra il lato più occulto, il tragico retroscena di lacrime e sangue che lo accompagna.
Questa lettura foscoliana non rappresenta un’eccezione o una estemporanea invenzione poetica. Una simile interpretazione ritorna infatti anche in sede critica. La vediamo in una poco nota edizione (1807) degli aforismi del militare, politico e scrittore Raimondo Montecuccoli (1609-1680) curata da Foscolo, in cui quest’ultimo loda Machiavelli per aver squarciato le illusioni e svelato le piaghe dell’umanità, ricavando insegnamento da «ciò che hanno fatto gli uomini in tutti i secoli».
Il merito storico di Machiavelli è aver compiuto un’operazione pedagogica, dando al popolo la consapevolezza degli ingranaggi, sottili e indecifrabili, che garantiscono il potere politico. In alcuni frammenti critici sul Principe, Foscolo sintetizza il principio guida dell’operato machiavelliano in questa sentenza dello scrittore fiorentino: «Dalle cose che gli uomini in altri secoli hanno fatto, imparate ciò che nel vostro secolo dovete fare». E aggiunge a mo’ di commento: «Diremo inoltre che pendiamo a credere che una delle mire del Machiavelli nel Principe si fu di svelare a’ popoli italiani, e specialmente a’ Fiorentini, tutte le sciagure a cui soggiacciono le città rette da principi deboli, poveri e malfermi nel loro trono; i quali, in difetto d’armi e di leggi, son obbligati, per mantenersi, a pagare il più forte col denaro de’ propri sudditi, ed a reggersi colla frode».
Secondo Foscolo, mentre la riflessione politica tradizionale è guidata da assiomi astratti o aprioristici, Machiavelli, invece che «mostrare il bene che dovrebb’essere, ha mostrato il bene e il male che necessariamente si trovano nel mondo, e l’utilità che si può ricavare tanto dal bene quanto dal male».

Al cuore della letteratura - volume 2
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Il Quattrocento e il Cinquecento