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La morigerata Lucrezia dunque si è convinta a sostituire la virtù con l’astuzia. Senza alternativa, alla fine ha preferito anche lei soggiacere alle leggi dominanti e fare buon viso a cattivo gioco.
L’artefice principale della sua metamorfosi è fra’ Timoteo. Lo conosciamo già dal suo monologo; solo, sulla scena, lo vediamo analizzare con acutezza ciò che è accaduto in precedenza, l’inganno orditogli da Ligurio: un inganno che, però, lo ha visto non vittima, ma, diremmo, complice (questo giunto è con mio utile, rr. 7-8). Per la sua disinvolta morale, questo basta e avanza. L’unica contromisura necessaria è il silenzio. Così chiede il mondo; e al mondo e ai suoi pseudo-valori, ipocrisia e malafede, il frate sceglie di adeguarsi con cinico opportunismo e, soprattutto, senza scrupoli di sorta.
Il suo nome, che in greco significa “colui che onora Dio”, concorre anch’esso a mistificare la realtà. Ciò che il frate onora è tutt’altro: il denaro e il guadagno. Il ruolo che le convenzioni sociali gli hanno attribuito è quello di confessore e dispensatore di consigli: un ruolo che il frate piega ai propri interessi. Ma Lucrezia non vuole sottomettere il proprio corpo a questo vituperio (rr. 26-27) ed essere responsabile della morte di un uomo: non è nemmeno convinta che l’adulterio sarebbe eticamente lecito se fosse la sola
rimasa nel mondo e da lei avessi a risurgere l’umana natura (rr. 28-29).