Al cuore della letteratura - volume 2

Umanesimo e Rinascimento – L'autore: Niccolò Machiavelli

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L’epistola a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513

Epistolario


È la lettera più nota dell’Epistolario machiavelliano: vi ritroviamo un quadro vivace e colorito della vita semplice che l’autore, estromesso dalla politica, è costretto a condurre nella sua casa di campagna, all’Albergaccio, nel piccolo borgo di contadini vicino a San Casciano. Tuttavia, pur a contatto con gente rozza e incolta, non si è esaurita la passione intellettuale di Machiavelli, che annuncia all’amico (ambasciatore di Firenze a Roma) l’avvenuta stesura del Principe.

Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine.1 Dico questo, perché
mi pareva haver perduta no, ma smarrita2 la grazia vostra, sendo3 stato voi assai
tempo senza scrivermi; ed ero dubbio donde potessi nascere la cagione.4 E di tutte
quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io
5 dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi,5 perché vi fussi suto scritto6 che io
non fussi buon massaio7 delle vostre lettere; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo in
fuora,8 altri per mio conto9 non le haveva viste. Hònne rihaùto per l’ultima vostra
de’ 23 del passato,10 dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e
quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico;11 e io vi conforto a seguire12 così,
10 perché chi lascia i sua comodi13 per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non
li è saputo grado.14 E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla
fare,15 stare quieto e non le dare briga,16 e aspettar tempo che la lasci fare qualche
cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar17 più le cose,
e a me partirmi di villa18 e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari
15 grazie,19 dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate
che sia a barattarla20 con la vostra, io sarò contento mutarla.
Io mi sto in villa; e poi che seguirono21 quelli miei ultimi casi,22 non sono
stato, ad accozzarli23 tutti, venti dì a Firenze. Ho insino a qui uccellato a’ tordi di
mia mano.24 Levavomi innanzi dì,25 impaniavo,26 andavone oltre con un fascio di

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20 gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di
Amphitrione;27 pigliavo el meno28 dua, el più sei tordi. E così stetti tutto settembre. Di
poi questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano,29 è mancato con mio dispiacere:
e quale30 la vita mia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole, e vòmmene31
in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto dua ore a rivedere l’opere32 del giorno
25 passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura
alle mani33 o fra loro o co’ vicini. E circa questo bosco io vi harei a dire mille belle34
cose che mi sono intervenute,35 e con Frosino da Panzano e con altri che voleano
di queste legne. E Frosino in spezie mandò per36 certe cataste senza dirmi nulla; e
al pagamento, mi voleva rattenere37 dieci lire, che dice aveva havere da me quattro
30 anni sono,38 che mi vinse a cricca39 in casa Antonio Guicciardini.40 Io cominciai
a fare el diavolo, volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro.41
Tandem 42 Giovanni Machiavelli43 vi entrò di mezzo,44 e ci pose d’accordo. Batista
Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando
quella tramontana soffiava, ognuno me ne prese45 una catasta. Io promessi a tutti;
35 e manda’ne una a Tommaso, la quale tornò a Firenze per metà, perché a rizzarla vi
era lui, la moglie, la fante, i figlioli,46 che pareva el Gaburra quando el giovedì con
quelli suoi garzoni bastona un bue.47 Dimodoché, veduto in chi48 era guadagno,
ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso,49 e in
specie Batista, che connumera50 questa tra le altre sciagure di Prato.
40 Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare.51
Ho un libro sotto,52 o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori,53 come
Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori
ricordomi de’ mia:54 gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in
sulla strada, nell’hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove55 de’
45 paesi loro; intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie56 d’huomini. Viene
in questo mentre57 l’hora del desinare, dove con la mia brigata58 mi mangio di

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quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta.59 Mangiato che
ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio,60 un mugnaio,
dua fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo61 per tutto dì giuocando a cricca, a
50 trich-trach,62 e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose; e il
più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da
San Casciano.63 Così, rinvolto in tra questi pidocchi,64 traggo el cervello di muffa,65
e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa
via, per vedere se la se ne vergognassi.66
55 Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio;67 e in sull’uscio mi
spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto,68 e mi metto panni reali
e curiali;69 e rivestito condecentemente,70 entro nelle antique corti delli antiqui
huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum
è mio e ch’io nacqui per lui;71 dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli72
60 della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono;
e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non
temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.73 E
perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso74 – io ho
notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale,75 e composto uno
65 opuscolo De principatibus;76 dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni
di questo subietto,77 disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come
e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. E se vi piacque mai
alcuno mio ghiribizzo,78 questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e
massime 79 a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto: però80 io lo indirizzo
70 alla Magnificentia di Giuliano.81 Filippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare
in parte e della cosa in sé e de’ ragionamenti ho hauto seco, ancora che tutta
volta io l’ingrasso e ripulisco.82

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Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a
godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta83 hora è
75 certe mie faccende, che fra sei settimane l’harò fatte. Quello che mi fa star dubbio è,
che sono costì quelli Soderini, e quali sarei forzato, venendo costì, visitarli e parlar
loro.84 Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcassi
nel Bargiello; perché, ancora che questo stato habbia grandissimi fondamenti e
gran securità, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso; né manca di saccenti,
80 che per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono
el pensiero a me.85 Pregovi mi solviate86 questa paura, e poi verrò in fra el tempo
detto a trovarvi a ogni modo.
Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o
non lo dare;87 e, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo
85 mandassi. El non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non che
altro, letto; e che questo Ardinghelli si facessi onore di questa ultima mia fatica.88
El darlo mi faceva89 la necessità che mi caccia,90 perché io mi logoro, e lungo tempo
non posso stare così che io non diventi per povertà contennendo,91 appresso
al desiderio harei92 che questi signori Medici mi cominciassino adoperare,93 se
90 dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso;94 perché, se poi io non me gli
guadagnassi,95 io mi dorrei di me; e per questa cosa,96 quando la fussi letta, si vedrebbe
che quindici anni, che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gli ho
né dormiti né giuocati;97 e doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che
alle spese di altri fussi pieno di esperienza.98 E della fede99 mia non si doverrebbe
95 dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora
a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe
poter100 mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia.
Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia101
vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix.102
100 Die103 10 Decembris 1513.

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Il Quattrocento e il Cinquecento