Le opere politiche

Umanesimo e Rinascimento – L'autore: Niccolò Machiavelli

Le opere politiche

Mentre nei quattordici anni della sua Segreteria Machiavelli aveva concentrato tutto il suo impegno nell’«arte dello Stato» (cioè nell’applicazione concreta delle sue convinzioni politiche), il ritorno dei Medici (1512), l’esilio all’Albergaccio e l’allontanamento forzato dagli incarichi pubblici lo spingono a dedicarsi allo studio, alla riflessione teorica e alla scrittura. Durante questo periodo nascono i suoi capolavori.

Il Principe

Scritto probabilmente nella seconda metà del 1513, è il trattato politico che ha dato la fama – per secoli, negativa – a Machiavelli. A questo suo capolavoro dedichiamo la seconda parte dell’Unità ( ► p. 321).

Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

Per la maggioranza degli studiosi sono stati iniziati nel 1513, qualche mese prima che Machiavelli si dedicasse alla stesura del Principe. Ultimata questa nel dicembre dello stesso 1513, i Discorsi sono stati ripresi e completati sicuramente entro il 1519.
A differenza del Principe, i Discorsi hanno una struttura meno organica e più frammentaria. Il titolo stesso dell’opera sottolinea tale natura: la parola “discorso” viene dal latino discurrere, cioè “andare qua e là”, quindi “procedere senza una meta definita”. In effetti, ci troviamo di fronte a una serie di annotazioni e riflessioni, stimolate dalla lettura dei primi dieci libri (la «Deca» del titolo) dello storico romano Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.), autore di una monumentale opera sulla storia di Roma dalle origini (Ab Urbe condita libri, Libri sulla storia di Roma dalla fondazione).
Anche l’argomento si differenzia da quello del Principe: al centro dei Discorsi vi è la vita delle repubbliche, con le loro leggi e le strutture civili e istituzionali, nelle quali un ruolo fondamentale è rivestito dalla partecipazione collettiva del popolo. Tale differenza contenutistica ha inoltre un risvolto sul piano stilistico: al tono appassionato del Principe corrispondono qui una più pacata tendenza alla riflessione e un procedere discontinuo, anche se comune alle due opere è la volontà di indicare soluzioni alla crisi italiana.

L’opera è preceduta dalla dedica a Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, due importanti esponenti degli Orti Oricellari, un vero e proprio circolo culturale animato da un certo fervore repubblicano e antimediceo. Segue poi il Proemio, dove vengono gettate le basi della riflessione politica machiavelliana. Infatti, dopo aver espresso la volontà di seguire vie non percorse ancora da nessuno, l’autore dichiara di volersi appoggiare all’«esperienzia», che gli viene dagli studi e dalla diretta pratica politica, per rintracciare nella storia romana leggi sempre valide nella storia dei popoli e degli Stati.
L’analisi è ripartita in 3 libri, composti rispettivamente da 60, 33 e 49 capitoli. Il primo libro tratta i problemi della fondazione e della legislazione dello Stato; il secondo si sofferma sull’ampliamento dello stesso e quindi su tematiche concernenti la politica estera; il terzo esamina i requisiti necessari per la stabilità dello Stato e le sue inevitabili trasformazioni. Va però precisato che questa suddivisione degli argomenti non è rigida, visto che la natura aperta dell’opera consente a Machiavelli una certa libertà e la possibilità di spaziare senza il vincolo di schemi precostituiti.

Per molto tempo si è sostenuta la contraddittorietà del contenuto dei Discorsi rispetto a quello del Principe. Si tratta di una posizione oggi in gran parte superata. Innanzitutto, non è possibile cogliere un’evoluzione nel tempo del pensiero dell’autore, visto che, come abbiamo detto, le due opere vengono scritte durante lo stesso periodo. In secondo luogo, non muta l’impostazione metodologica, basata anche in quest’opera sul criterio della «verità effettuale» e sulla necessità dell’imitazione degli antichi.

 >> pag. 291 

Certo, mentre nel Principe troviamo la teorizzazione dello Stato assoluto, che costituisce agli occhi di Machiavelli una dura necessità per fare uscire l’Italia dalla crisi, nei Discorsi l’autore esalta il modello repubblicano, così come si era storicamente realizzato nella Roma antica. In particolare, la sua preferenza è per una “repubblica mista”, in cui vi sia un equilibrio di poteri tra plebe e aristocrazia. Ma l’apparente contraddizione si spiega con un motivo molto semplice: Il Principe analizzava il problema della creazione di uno Stato nuovo, all’interno della situazione italiana di quel momento; i Discorsi invece si soffermano essenzialmente sul mantenimento dello Stato e sui suoi ordinamenti.

Nella sua concezione naturalistica della storia, Machiavelli immagina le varie forme dello Stato come altrettanti momenti di uno sviluppo circolare. La forma originaria di governo è la monarchia, che però si corromperà, degenerando nella tirannide; con la reazione nobiliare, subentra poi l’oligarchia; l’opposizione all’oligarchia porta alla democrazia, che è destinata a involvere nella demagogia e nell’anarchia. E il processo ricomincerà quando un uomo nuovo saprà mettere ordine nel caos.
All’interno di questo disegno ciclico dei governi, la repubblica romana, grazie alla sua costituzione, ha rappresentato secondo Machiavelli (che qui riprende la tesi di Polibio, storico greco del II secolo a.C.) un raro esempio di equilibrio, capace di dare rappresentanza istituzionale alle diverse istanze politiche e sociali. I consoli, il senato e i tribuni della plebe, garanti rispettivamente del principio monarchico, aristocratico e democratico, hanno cooperato gli uni con gli altri per il bene dello Stato.

Questa prospettiva spiega perché il disaccordo tra le masse popolari e il governo non rappresenti per il Machiavelli dei Discorsi un fattore negativo per la stabilità del potere. Anzi, ponendo sempre come esempio la storia romana repubblicana, egli intravede conseguenze positive nei conflitti tra la plebe e il senato. In primo luogo, una dialettica, anche forte, tra le diverse classi sociali e politiche a suo giudizio non può che determinare un bilanciamento e un maggiore equilibrio nella gestione politica, economica e amministrativa. In secondo luogo, va visto di buon occhio l’allargamento della base sociale che partecipa attivamente alla contesa politica. Se i fondamenti istituzionali e legislativi sono solidi e ben definiti, lo Stato, secondo Machiavelli, trae dalla contrapposizione delle classi una legittimazione e una forza ancora maggiori.

Nell’ottica della stabilità dello Stato, l’autore concentra la propria analisi anche sul ruolo della religione. Va subito detto – e questo non stupirà, dato il suo approccio materialistico – che a Machiavelli non interessa certamente la questione religiosa nei suoi aspetti trascendenti o spirituali. Ciò che gli sta a cuore è evidenziare le ricadute civili e politiche del sentimento religioso, che, in questo senso, viene visto come un instrumentum regni, cioè uno strumento di governo, con il quale rendere coeso e obbediente il popolo. Così accadeva a Roma, dove la religione pagana celebrava i valori terreni, esaltando gli uomini attivi e svolgendo il compito di legare un «popolo ferocissimo» intorno a una serie di tradizioni, riti e comportamenti condivisi.

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Al contrario Machiavelli ritiene la Chiesa cattolica colpevole di aver inculcato nei cristiani una mentalità apatica e disgregatrice, poco amante della libertà, vile e portata alla rinuncia all’impegno civile e politico: «La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione e nel dispregio delle cose umane».
Non solo: accanto a questa responsabilità civile ve n’è un’altra, più politica, riguardante la mancata unificazione dell’Italia. Lo Stato della Chiesa, secondo Machiavelli, con l’ingerenza temporale e con un’egoistica politica delle alleanze, ha permesso agli eserciti stranieri di imperversare sul territorio italiano e ha impedito che uno Stato prevalesse sugli altri e conquistasse tutta la penisola. Al tempo stesso, lo Stato della Chiesa non ha mai raggiunto una forza e un’autonomia tali da adempiere esso stesso a questo compito.

Dell’arte della guerra

In quest’opera, composta tra il 1519 e il 1520 e pubblicata in 7 libri nel 1521, Machiavelli approfondisce argomenti già considerati nel Principe e nei Discorsi. L’autore immagina che a Firenze, negli Orti Oricellari, si svolga un dialogo sui difetti delle truppe mercenarie e sulle qualità dell’esercito stabile. Le convinzioni dell’autore sono qui sostenute da un suo alter ego, Fabrizio Colonna, famoso capitano di ventura al servizio della Spagna, che si sofferma sull’importanza del reclutamento delle milizie, della fanteria in particolare (mentre l’incidenza dell’artiglieria e in generale delle armi da fuoco viene sottovalutata), e su molte questioni tecniche, come lo schieramento degli eserciti in battaglia, le modalità di difesa e di assedio, le strategie da adottare per mantenere la disciplina ecc.
Il modello proposto è quello dell’esercito dell’antica Roma, anche se trapela chiaramente la sfiducia che un buon ordinamento militare sia possibile in Italia, dove non esiste un principe che domini su uno Stato e che sia capace di arruolare almeno ventimila uomini.

Le opere storiche

Circoscritta agli ultimi anni della sua vita, l’attività storiografica di Machiavelli si concentra più sull’interpretazione politica dei fatti che sulla loro documentazione.

Vita di Castruccio Castracani

Il condottiero trecentesco di Lucca viene visto da Machiavelli in questa biografia del 1520 non nella sua reale azione e identità storica: si tratta, piuttosto, di una figura idealizzata e per questo possiamo ravvisare nella sua descrizione un modello di principe guerriero, dotato al tempo stesso di prudenza ed energia, non molto diverso dal Valentino esaltato nel Principe.

Istorie fiorentine

Composti tra il 1520 e il 1525 e dedicati a papa Clemente VII, gli 8 libri delle Istorie si dividono in tre blocchi tematici fondamentali: il primo libro tratta sinteticamente gli avvenimenti italiani dalla caduta dell’Impero romano fino alla metà del Quattrocento; i successivi tre si concentrano per lo più sull’evoluzione del Comune fiorentino, gli altri quattro analizzano la storia di Firenze dal 1434 alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492), anche in relazione alle vicende degli altri Stati italiani.

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Più che di uno storico, è l’opera di un politico. Il racconto infatti è spesso inattendibile e infarcito di inesattezze, la documentazione è parziale e subordinata agli schemi ideologici dell’autore. Tuttavia, proprio questa impostazione è alla base dell’interesse dell’opera, che conserva lo stesso piglio militante del Principe nell’analizzare i mali dell’Italia contemporanea, tra i quali spicca il ruolo dello Stato della Chiesa, colpevole di impedire l’unificazione della penisola.

Le opere letterarie

Nonostante per Machiavelli la letteratura rappresenti soltanto uno svago subordinato alla più seria riflessione politica, egli non disdegna tuttavia di cimentarsi nella produzione, tutt’altro che esigua, di opere letterarie in prosa e versi.

Canti carnascialeschi, Decennali, Capitoli

L’opera poetica di Machiavelli riveste indubbiamente un’importanza secondaria, essendo soprattutto il frutto di motivi occasionali (com’è per la stesura dei Canti carnascialeschi, in cui vengono riproposti i contenuti goliardici e licenziosi tipici dei canti eseguiti a Firenze, tra il XV e il XVI secolo, durante il periodo di carnevale) o delle esperienze amorose dell’autore (alcuni versi sono dedicati alla cantante Barbara Raffacani Salutati).
Più interessanti sono i poemetti Decennale e Decennale secondo (quest’ultimo non concluso), in cui si descrivono in versi gli anni della vita politica fiorentina, dal 1494 al 1509, ma soprattutto i Capitoli in terzine, nei quali vengono sviluppati, sotto forma di riflessioni morali, alcuni temi tipicamente machiavelliani, come quello della fortuna.

L’asino

Machiavelli lavora a questo poema in terzine dantesche tra il 1516 e il 1517, con l’intento di rifarsi al mito omerico della maga Circe e al romanzo L’asino d’oro dello scrittore latino Apuleio (II secolo d.C.). Nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto rappresentare le miserie terrene viste con gli occhi di un uomo trasformato appunto in asino. L’opera però non soddisfa Machiavelli, che la interrompe all’inizio della seconda parte.

Belfagor arcidiavolo

È una novella (1518) dal contenuto misogino. L’autore racconta infatti di un diavolo che, per provare la perfidia delle donne, scende sulla Terra e ne sposa una, che in men che non si dica lo manda in rovina e gli fa rimpiangere il regno infernale. La visione pessimistica degli uomini induce Machiavelli a ritenere che il vero inferno sia sulla Terra.

Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua

Come abbiamo visto, anche Machiavelli partecipa al dibattito sulla questione della lingua ( ►  p. 32), sostenendo in quest’opera di incerta datazione (e pubblicata solo nel 1730) la superiorità della lingua parlata a Firenze. Questa opinione, diversa da quella di Bembo – che si rifà anch’egli al fiorentino, ma a quello letterario del Trecento –, contrasta soprattutto con le posizioni dei teorici della “curialità” della lingua, i quali affermano la necessità di modellare una lingua comune alle curie, cioè alle corti d’Italia (Gian Giorgio Trissino e Baldassarre Castiglione sono i principali interpreti di questa tendenza). Da qui nasce la polemica di Machiavelli con Dante, accusato di aver fornito nel De vulgari eloquentia le basi culturali di questa proposta.

 >> pag. 294 
La mandragola

Scritta quasi sicuramente nei primi mesi del 1518, La mandragola è da tutti riconosciuta come il capolavoro del teatro comico del Cinquecento italiano. Ma dobbiamo subito precisare che comico è solo il tema. Sulla scena si muove infatti un’umanità bassa e volgare, descritta dall’autore nella sua cinica immoralità senza l’intento di far ridere. Se il riso c’è, non nasce da un’esplosione liberatoria di divertimento, ma dall’amaro sarcasmo con cui Machiavelli ci invita a riflettere sull’ipocrisia che guida i comportamenti umani.

Per la natura riflessiva dell’opera, possiamo facilmente cogliere l’influenza del commediografo che più ha ispirato l’autore, cioè il latino Terenzio (di cui Machiavelli ha tradotto l’Andria), anch’egli più interessato a illuminare i tipi umani che a inscenare le situazioni comiche, le battute e i lazzi disimpegnati che caratterizzavano, per esempio, l’opera dell’altro maestro della commedia latina, Plauto.
Tuttavia, nella commedia di Machiavelli non manca il gusto della beffa e dello sberleffo, esercitato ai danni dello sciocco o del credulone di turno. In questo ambito, Machiavelli è degno continuatore di una florida tradizione toscana che ha in Boccaccio il suo interprete più famoso, e che continua nelle forme più ludiche dell’Umanesimo mediceo (si pensi a Pulci, ma anche a una parte della produzione dello stesso Lorenzo de’ Medici).

La vicenda, sviluppata in 5 atti secondo i canoni classici, è ambientata a Firenze, dove il vecchio e sciocco messer Nicia è sposato con la bella e virtuosa Lucrezia. A innamorarsi della donna è il giovane Callimaco che, grazie ai suggerimenti del ruffiano Ligurio, mette in atto un inganno per conquistare il proprio oggetto del desiderio. I due sposi, infatti, non riescono ad avere figli e Callimaco, sfruttando la dabbenaggine del credulone Nicia, gli propone un rimedio contro la sterilità di Lucrezia. Il rimedio è un infuso di erba mandragola, che però ha una drammatica controindicazione: il primo uomo che si unirà alla donna dopo l’assunzione del medicamento morirà. Per risolvere il problema, basterà che un «garzonaccio» preso casualmente per la strada giaccia prima di lui con Lucrezia e ignaro muoia al posto suo. Il «garzonaccio» altri non è che Callimaco, che può quindi realizzare il proprio desiderio di giacere con Lucrezia, la quale, riluttante, si è convinta al grande passo in seguito ai consigli della madre Sostrata e all’assoluzione preventiva da parte del suo confessore, fra’ Timoteo. Alla fine Lucrezia, scoperta la verità, accoglie sotto il suo tetto Callimaco e decide di averlo come compagno e amante per il resto dei suoi giorni: «e quel che ’l mio marito ha voluto per una sera voglio ch’egli abbia sempre».

Come si vede, in questo gioco delle parti è difficile salvare qualcuno. Con i propri mezzi, ogni personaggio insegue uno scopo e per raggiungerlo non esita a servirsi dei più abietti stratagemmi. Per alcuni critici, solo Lucrezia sarebbe indenne da una condanna senza appello. La donna appare infatti a prima vista passiva e facilmente manipolabile. Tuttavia, accettando quello che tutti (in primo luogo il marito) le chiedono, dà prova di una positiva capacità di adattarsi alle circostanze. All’inizio tenta di difendere la purezza dei propri princìpi, poi però, con disinvoltura, cambia partito e, evitando compromessi e situazioni ambigue, finisce per cedere, riscoprendo il piacere dei sensi. Mostrandosi così duttile davanti alla fortuna, Lucrezia potrebbe dunque incarnare il modello di “virtù” esaltato da Machiavelli nelle sue opere politiche.

La lingua della Mandragola realizza appieno la soluzione teorica proposta da Machiavelli: il fiorentino vivo, non quello trecentesco. In effetti, è soprattutto il parlato, con le sue cadenze vernacolari, a essere riprodotto dall’autore, il quale adatta a ogni personaggio un’espressività coerente con la sua personalità. Il furbo Ligurio si esprime spesso in modo allusivo, con battute e doppi sensi, tipici di chi la sa lunga; Nicia, da quel concentrato di conformismo che è, si produce in un’infinità di luoghi comuni, che vorrebbe intelligenti, ma che in realtà non sono altro che la spia della sua mediocrità; Callimaco e Lucrezia parlano, rispettivamente, la lingua dell’irruenza giovanile e quella della seria compostezza. Il personaggio linguisticamente più interessante è però fra’ Timoteo: la sua prosa ricca di malizia e tendenziosità ne fa un vero, cinico artista della parola, piegata con scaltrezza ai propri interessi.

 >> pag. 295 
Clizia

La commedia, scritta nel 1525, rielabora l’argomento di un’opera del commediografo latino Plauto (III-II secolo a.C.), la Casina, e narra l’amore del vecchio Nicomaco per Clizia, una trovatella a cui lui stesso ha dato ospitalità, e che però è innamorata, ricambiata, del figlio di Nicomaco, Cleandro. Per impedire le nozze, Nicomaco cerca di far sposare Clizia al servo Pirro in modo da continuare a essere il suo amante. La moglie Sofronia e il figlio-rivale Cleandro gli giocano un brutto tiro, travestendo il servo Siro con gli abiti della sposa. Quando Nicomaco si trova nel suo letto e scopre il travestimento, la vergogna lo spinge a chiedere perdono alla moglie e a rinunciare alla sua passione senile. Nel frattempo, Clizia viene a sapere di essere figlia di un nobile napoletano: possiede dunque una ricca dote e può finalmente sposarsi con Cleandro.

L’Epistolario

Le oltre duecento lettere di Machiavelli che ci sono pervenute si differenziano nettamente da quelle dei suoi predecessori e contemporanei. Infatti, all’autore non interessa utilizzare questo mezzo per tramandare un’immagine idealizzata di sé ai posteri, come nel caso di Petrarca, o esibirsi in un’elegante esercitazione di stile, come era nella tradizione classica e umanistica: le lettere di Machiavelli non sono scritte per essere pubblicate. Esse sono un vero e spontaneo documento di vita, in cui l’autore rivela ai suoi corrispondenti il proprio temperamento e stato d’animo nei diversi frangenti di una movimentata esistenza umana e politica.
I temi più ricorrenti riguardano la situazione politica, i pronostici sugli scenari possibili, le previsioni e i giudizi sui diversi protagonisti della scena pubblica. Questo non sorprende, data la passione con cui Machiavelli vive la sua militanza politica. Tuttavia, accanto alle parti più serie, troviamo spesso vivaci descrizioni della sua vita intima, bozzetti e facezie: ne esce un ritratto vivido e divertente di un Machiavelli domestico, uomo tra gli uomini, costretto dai casi della vita a misurarsi, ma senza vittimismo, con le miserie della quotidianità.

Anche la forma riflette questa elastica capacità di mescolare il serio al faceto. Così, accanto allo stile teso e vibrante delle parti più politiche, troviamo un linguaggio popolaresco, perfino pittoresco, simile in certe descrizioni umoristiche a quello che ammiriamo nei testi comici, dalla novella di Belfagor alla Mandragola.

Al cuore della letteratura - volume 2
Al cuore della letteratura - volume 2
Il Quattrocento e il Cinquecento