All’inizio del poema ariostesco, Angelica che fugge nella selva ci trascina subito in un mondo dove tutti agiscono in stati di incantamento o di fissazione prodotti dal gioco della sorte. La bella Angelica fugge sul suo palafreno dal campo cristiano e incontra il paladino Rinaldo, che lei detesta fin dal poema di Boiardo perché ha bevuto alla fontana del disamore, mentre Rinaldo l’ama e l’insegue perché ha bevuto l’acqua dell’amore. È l’inverso dell’inizio boiardesco, dove Angelica inseguiva Rinaldo avendo bevuto alla fontana dell’amore, e Rinaldo la fuggiva avendo bevuto a quella del disamore. Tutto sboccia di qui, su uno sfondo di vita vegetale, dove ci sono solo percorsi erratici, gesti iperbolici, meraviglie dell’amore e dell’odio, e dove ognuno si perde correndo dietro alle proprie fissazioni.
Subito, con Angelica che fugge e i suoi spasimanti che l’inseguono, duellano, ansimano per possederla, ma poi non combinano niente, c’è il senso d’un girare a vuoto che pare insensato, vano e mattoide. Questi eroi che girano a vuoto sembra che non sappiano cosa stiano facendo, trascinati dai furori maniacali dell’amore e dell’odio, da moti di attrazione e repulsione, secondo lo schema delle due fontane. In loro non c’è parvenza d’una libera volontà di agire, nessuna traccia di quella disgrazia che chiamiamo psicologia – solo teatrali sussulti, con risposte fisse in conseguenza di eccitazioni esterne che li colpiscono. Poi, che gli eroi cavallereschi siano colpiti da una spada, da una minaccia, da un grido di sfida o da un viso di donna (come «l’angelico sembiante» della nostra eroina), la loro reazione è sempre uguale; è un furioso e automatico slancio verso la fonte dello stimolo, verso lo scontro o l’inseguimento, dove la massima esaltazione è legata alla gioia bambinesca del cozzare e del percuotere.
Con tanti sfrenati slanci, si direbbe che girare a vuoto sia il loro destino naturale, per eccesso di ardori. Angelica fugge da Rinaldo e incontra Ferraù, il quale inizia un duello con Rinaldo per amore di Angelica, che però è già fuggita di nuovo; nel frattempo, in questa selva dove tutti si perdono e si ritrovano, Sacripante sta lamentandosi perché teme che un altro abbia colto il fiore verginale di Angelica prima di lui; così appena lei appare si dispone al «dolce assalto». Figuriamoci se combina qualcosa – è interrotto dall’arrivo della guerriera Bradamante, con cui inizia un duello; lei lo butta a terra con un colpo di lancia, e via che parte alla ricerca del suo amato Ruggiero, mentre arriva il sudato Rinaldo che inizia un altro duello con Sacripante, e Angelica fugge di nuovo, ecc.
Tutti ripetono le stesse mosse, e ogni incontro non fa che distrarci dal precedente; le azioni rimangono sempre sospese, e gli eroi si disperdono verso altre gesta che saranno interrotte da nuove distrazioni. Ciò che fa germinare le trame non è il significato o lo scopo delle azioni in corso, bensì le distrazioni che le rilanciano verso altre imprese e altri tragitti. Questa è una specie di regola nei poemi cavallereschi, dove c’è sempre l’arrivo d’un messaggero che richiama l’eroe da un’altra parte, o d’un altro cavaliere con cui ha inizio un nuovo duello, o d’una dama da soccorrere correndo verso altre avventure. Non c’è mai un duello, un incontro o uno scontro che vada in porto, salvo rari casi che servono a concludere un ciclo di episodi. Il principio attivo del narrare qui è l’arte del distrarsi da ciò che si sta narrando, come per una smemoratezza che ci devia verso nuove fantasie, ossia verso altri giri a vuoto. Ogni linea d’azione ci porta sempre verso nuove trame, su tragitti divaganti per distrazione da una meta; e ciò che conta alla fine, non è il senso delle imprese cavalleresche, ma il disegno delle linee che tracciano, con cui le peregrinazioni eroiche prendono la forma di intrichi o di arabeschi.
Gianni Celati, Angelica che fugge. Una lettura dell’Orlando furioso, www.griseldaonline.it