Umanesimo e Rinascimento – L'autore: Ludovico Ariosto

LETTURE critiche

Eroi che girano a vuoto

di Gianni Celati

In questo stimolante contributo del critico e scrittore Gianni Celati (n. 1937) viene messo in luce il carattere ludico e suggestivo del narrare ariostesco. I personaggi del Furioso agiscono in base a motivazioni che non vengono approfondite da chi racconta, ma che determinano una vorticosa girandola di movimenti e spostamenti sui quali Ariosto tesse la trama del suo poema.

All’inizio del poema ariostesco, Angelica che fugge nella selva ci trascina subito in un mondo dove tutti agiscono in stati di incantamento o di fissazione prodotti dal gioco della sorte. La bella Angelica fugge sul suo palafreno dal campo cristiano e incontra il paladino Rinaldo, che lei detesta fin dal poema di Boiardo perché ha bevuto alla fontana del disamore, mentre Rinaldo l’ama e l’insegue perché ha bevuto l’acqua dell’amore. È l’inverso dell’inizio boiardesco, dove Angelica inseguiva Rinaldo avendo bevuto alla fontana dell’amore, e Rinaldo la fuggiva avendo bevuto a quella del disamore. Tutto sboccia di qui, su uno sfondo di vita vegetale, dove ci sono solo percorsi erratici, gesti iperbolici, meraviglie dell’amore e dell’odio, e dove ognuno si perde correndo dietro alle proprie fissazioni.
Subito, con Angelica che fugge e i suoi spasimanti che l’inseguono, duellano, ansimano per possederla, ma poi non combinano niente, c’è il senso d’un girare a vuoto che pare insensato, vano e mattoide. Questi eroi che girano a vuoto sembra che non sappiano cosa stiano facendo, trascinati dai furori maniacali dell’amore e dell’odio, da moti di attrazione e repulsione, secondo lo schema delle due fontane. In loro non c’è parvenza d’una libera volontà di agire, nessuna traccia di quella disgrazia che chiamiamo psicologia – solo teatrali sussulti, con risposte fisse in conseguenza di eccitazioni esterne che li colpiscono. Poi, che gli eroi cavallereschi siano colpiti da una spada, da una minaccia, da un grido di sfida o da un viso di donna (come «l’angelico sembiante» della nostra eroina), la loro reazione è sempre uguale; è un furioso e automatico slancio verso la fonte dello stimolo, verso lo scontro o l’inseguimento, dove la massima esaltazione è legata alla gioia bambinesca del cozzare e del percuotere.
Con tanti sfrenati slanci, si direbbe che girare a vuoto sia il loro destino naturale, per eccesso di ardori. Angelica fugge da Rinaldo e incontra Ferraù, il quale inizia un duello con Rinaldo per amore di Angelica, che però è già fuggita di nuovo; nel frattempo, in questa selva dove tutti si perdono e si ritrovano, Sacripante sta lamentandosi perché teme che un altro abbia colto il fiore verginale di Angelica prima di lui; così appena lei appare si dispone al «dolce assalto». Figuriamoci se combina qualcosa – è interrotto dall’arrivo della guerriera Bradamante, con cui inizia un duello; lei lo butta a terra con un colpo di lancia, e via che parte alla ricerca del suo amato Ruggiero, mentre arriva il sudato Rinaldo che inizia un altro duello con Sacripante, e Angelica fugge di nuovo, ecc.
Tutti ripetono le stesse mosse, e ogni incontro non fa che distrarci dal precedente; le azioni rimangono sempre sospese, e gli eroi si disperdono verso altre gesta che saranno interrotte da nuove distrazioni. Ciò che fa germinare le trame non è il significato o lo scopo delle azioni in corso, bensì le distrazioni che le rilanciano verso altre imprese e altri tragitti. Questa è una specie di regola nei poemi cavallereschi, dove c’è sempre l’arrivo d’un messaggero che richiama l’eroe da un’altra parte, o d’un altro cavaliere con cui ha inizio un nuovo duello, o d’una dama da soccorrere correndo verso altre avventure. Non c’è mai un duello, un incontro o uno scontro che vada in porto, salvo rari casi che servono a concludere un ciclo di episodi. Il principio attivo del narrare qui è l’arte del distrarsi da ciò che si sta narrando, come per una smemoratezza che ci devia verso nuove fantasie, ossia verso altri giri a vuoto. Ogni linea d’azione ci porta sempre verso nuove trame, su tragitti divaganti per distrazione da una meta; e ciò che conta alla fine, non è il senso delle imprese cavalleresche, ma il disegno delle linee che tracciano, con cui le peregrinazioni eroiche prendono la forma di intrichi o di arabeschi.


Gianni Celati, Angelica che fugge. Una lettura dell’Orlando furioso, www.griseldaonline.it

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Osservazioni sul Furioso

di Italo Calvino

Italo Calvino (1923-1985) – che ha proposto una riscrittura del poema di Ariosto in cui alterna le ottave originali a narrazioni in prosa scritte da lui – spiega nella prima parte di questo brano l’ideologia politico-religiosa dell’autore dell’Orlando furioso, così come essa emerge dal testo: cristiani e Mori sono rappresentati su un piano di sostanziale parità in termini di valore militare e costumi civili. L’epica delle crociate appare lontana: paradossalmente, essa verrà rinverdita da un autore successivo ad Ariosto, Torquato Tasso. Nella seconda parte del testo, Calvino si sofferma sulle caratterisctiche dell’ottava ariostesca, lette in relazione alla particolare spazialità del poema.

Cristiani e “infedeli”
L’essere «di fè diversi» non significa molto di più, nel Furioso, che il diverso colore dei pezzi di una scacchiera. I tempi delle Crociate in cui il ciclo dei Paladini aveva assunto un valore simbolico di lotta per la vita e per la morte tra la Cristianità e l’Islam, sono lontani. In verità nessun passo avanti sembra sia fatto per comprendere gli «altri», gli «infedeli», i «Mori»: si continua a parlare dei Maomettani come «pagani» e adoratori di idoli, si attribuisce loro il culto d’una strampalata trinità mitologica (Apollo, Macone e Trivigante). Però essi sono rappresentati su un piano di parità con i Cristiani per quel che riguarda il valore e la civiltà; e senza quasi nessuna caratterizzazione esotica, o notazione di costumi diversi da quelli d’Occidente. (Notazioni esotiche che pur erano presenti in Boiardo, il quale rappresentava i Saracini sdraiati «come mastini / Sopra i tapeti: come è loro usanza / Sprezando seco il costume di Franza».) Sono dei signori feudali tal quale i cavalieri cristiani, e neanche li distingue la convenzionale differenziazione delle uniformi negli eserciti moderni, perché qui gli avversari si contendono e scambiano sempre le stesse corazze e elmi e armi e cavalcature.
In realtà «i Mori» sono un’entità fantastica per la quale non vale alcun riferimento storico e geografico, ma non un’entità astratta: anzi, si direbbe che nel «campo nemico» tutto sia più concreto e caratterizzato e corposo, a cominciare dal diretto antagonista d’Orlando: Rodomonte.
Gli storici della letteratura hanno molto discusso su quale era l’atteggiamento di Ariosto verso il passato medievale che è la materia del suo poema, e in particolare verso la cavalleria. Pur vedendo le gesta dei suoi eroi attraverso l’ironia e la trasfigurazione favolosa, egli non tende mai a sminuire le virtù cavalleresche, non abbassa mai la statura umana che quegli ideali presuppongono, anche se a lui ormai pare non resti altro che farne pretesto per un gioco grandioso e appassionante.

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Ariosto sembra un poeta limpido, ilare1 e senza problemi, eppure resta misterioso: nella sua ostinata maestria a costruire ottave su ottave sembra occupato soprattutto a nascondere se stesso. Egli è certo lontano dalla tragica profondità che avrà Cervantes, quando un secolo dopo, nel Don Chisciotte, compirà la dissoluzione della letteratura cavalleresca. Ma tra i pochi libri che si salvano, quando il curato e il barbiere dànno alle fiamme la biblioteca che ha condotto alla follia l’hidalgo2 della Mancia, c’è il Furioso…


L’ottava
Dall’inizio l’Orlando furioso si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag. Potremmo tracciare il disegno generale del poema seguendo il continuo intersecarsi e divergere di queste linee su una mappa d’Europa e d’Africa, ma già basterebbe a definirli il primo canto tutto inseguimenti, disguidi, fortuiti incontri, smarrimenti, cambiamenti di programma.
È con questo zig zag tracciato dai cavalli al galoppo e dalle intermittenze del cuore umano che veniamo introdotti nello spirito del poema; il piacere della rapidità dell’azione si mescola subito a un senso di larghezza nella disponibilità dello spazio e del tempo. Il procedere svagato non è solo degl’inseguitori d’Angelica ma pure d’Ariosto: si direbbe che il poeta, cominciando la sua narrazione, non conosca ancora il piano dell’intreccio che in seguito lo guiderà con puntuale premeditazione, ma una cosa abbia già perfettamente chiara: questo slancio e insieme quest’agio nel raccontare, cioè quello che potremmo definire – con un termine pregno di significati – il movimento errante della poesia dell’Ariosto.
Tali caratteristiche dello spazio ariostesco possiamo individuarle sulla scala del poema intero o dei singoli canti così come su una scala più minuta, quella della strofa o del verso. L’ottava è la misura nella quale meglio riconosciamo ciò che l’Ariosto ha d’inconfondibile: nell’ottava Ariosto ci si rigira come vuole, ci sta di casa, il suo miracolo è fatto soprattutto di disinvoltura.
Per due ragioni soprattutto: una intrinseca dell’ottava, cioè d’una strofa che si presta a discorsi anche lunghi e ad alternare toni sublimi e lirici con toni prosastici e giocosi; e una intrinseca del modo di poetare d’Ariosto che non è tenuto a limiti di nessun genere, non si è posto come Dante una regola di simmetria che lo obblighi a un numero di canti prestabilito, e a un numero di strofe in ogni canto (il canto più breve ha 72 ottave; quello più lungo 199) e soprattutto non si è proposto una rigida ripartizione della materia. Il poeta può prendersela comoda, se vuole, impiegare più strofe per dire qualcosa che altri direbbe in un verso, oppure concentrare in un verso quel che potrebbe esser materia d’un lungo discorso.
Il segreto dell’ottava ariostesca sta nel seguire il vario ritmo del linguaggio parlato, nell’abbondanza di quelli che furono definiti gli «accessori inessenziali del linguaggio», così come nella sveltezza della battuta ironica; ma il registro colloquiale è solo uno dei tanti suoi, che vanno dal lirico al tragico allo gnomico3 e che possono coesistere nella stessa strofa. Ariosto può essere d’una concisione memorabile: molti suoi versi sono diventati proverbiali: ecco il giudicio uman come spesso erra! oppure: oh gran bontà dei cavalieri antiqui!, ma non è solo con queste parentesi che egli attua i suoi cambiamenti di velocità. Va detto che la struttura stessa dell’ottava si fonda su una discontinuità di ritmo: ai sei versi legati da una coppia di rime alterne succedono i due versi a rime baciate, con un effetto che oggi definiremmo di anticlimax, di brusco mutamento non solo ritmico ma di clima psicologico e intellettuale, dal colto al popolare, dall’evocativo al comico.

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Naturalmente con questi risvolti della strofa Ariosto gioca da par suo, ma il gioco potrebbe diventare monotono, senza l’agilità del poeta nel movimentare l’ottava, introducendo le pause, i punti fermi in posizioni diverse, adattando diverse andature sintattiche allo schema metrico, alternando periodi lunghi a periodi brevi, spezzando la strofa e in qualche caso allacciandone una all’altra, cambiando di continuo i tempi della narrazione, saltando dal passato remoto all’imperfetto al presente al futuro, creando insomma una successione di piani, di prospettive del racconto.


Italo Calvino, Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Mondadori, Milano 1995

Al cuore della letteratura - volume 2
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Il Quattrocento e il Cinquecento