Al cuore della letteratura - volume 2

Umanesimo e Rinascimento – L'opera: Orlando furioso

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Angelica fugge, pur senza sapere dove andare, attraversando uno scenario fiabesco fatto di boschi, pianure e luoghi selvaggi; luoghi dall’aspetto favoloso, selve folte di alberi giganteschi e cupe di ombre misteriose. La solitudine, i silenzi, i rumori improvvisi avvolgono la donna, che galoppa tremante a ogni muover di fronda, con l’ombra di Rinaldo che, alla fanciulla, sembra sbucare da ogni tronco. Finché giunge in un luogo accogliente e appartato dove può addormentarsi. Il sonno di Angelica rappresenta il compimento della prima parte della scena.

Ecco però giungere un altro cavaliere. Si tratta di Sacripante, già presente nell’Orlando innamorato, ma lì con un carattere più eroico; nel poema di Boiardo infatti era un amante fedele ma sfortunato della bella Angelica, la cui verginità aveva difeso nell’assedio di Albraccà. Qui viene rappresentato come un cavaliere triste e lamentoso, a causa dell’amore non corrisposto da parte della giovane. Angelica vede in lui una guida fidata che potrà ricondurla al paese paterno e perciò gli racconta ciò che le è successo dal giorno in cui egli si era allontanato da lei. Saputo che Orlando non ha offeso, ma anzi ha custodito l’onore della ragazza, Sacripante decide di riconquistarla al proprio amore, cogliendo quel “fiore” che il cavaliere d’Anglante era stato così sciocco da lasciarsi sfuggire.

Nel brano vediamo in azione Angelica, della quale il poeta sottolinea alcuni elementi psicologici e caratteriali. La sua fuga è quasi la conseguenza di un radicato atteggiamento interiore, chiaramente espresso negli ultimi due versi dell’ottava 49, dove la donna viene definita come colei c’ha tutto il mondo a sdegno, / e non le par ch’alcun sia di lei degno (vv. 135-136). In altre parole, la caratteristica principale di Angelica sembra essere il suo disprezzo per tutti coloro che la corteggiano, in quanto convinta che nessuno possa essere degno di lei, adeguato al suo livello.
Un altro suo tratto che emerge è la scaltra freddezza. Qui la donna asseconda Sacripante solo a parole, mentre in realtà ha intenzione di servirsene per difendersi dagli altri pretendenti che la inseguono. Angelica si comporta sempre nello stesso modo: con un occhio lusinga i suoi spasimanti, con l’altro rimane vigile e in guardia. La sostanza dell’Angelica ariostesca è dunque fatta di astuzia e di calcolo. Dopo aver colto il suo timore nella scena della fuga e la sua serenità in quella del riposo, ora il lettore si trova a vedere il personaggio mentre gioca la carta della civetteria: è una donna dotata di una certa dose di cinismo, che la spinge a fare di necessità virtù. Così, nell’ottava 51, essa ordisce e trama (v. 150) finzioni e inganni (cfr. il v. 149), servendosi di Sacripante per il proprio bisogno (v. 151). Con un’entrata in scena decisamente teatrale, Angelica esce dal cespuglio in cui aveva trovato riposo come se fosse una dea della mitologia classica (Diana o Venere, v. 156) che si presenti al pubblico di una di quelle rappresentazioni molto in voga nelle corti del tempo. È come se Ariosto volesse sottolineare in tal modo la grande abilità attoriale del suo personaggio.

Le scelte stilistiche

Nelle prime ottave del brano, nonostante le difficoltà della fuga e l’orrore delle selve spaventose e oscure, la descrizione appare serena e luminosa. Il poeta è infatti capace di sollevarsi al di sopra delle specifiche vicende dei personaggi e dei loro stessi occasionali stati d’animo. Ogni vicenda sembra come contemplata dall’alto, da una sorta di Olimpo in cui si muove, tranquilla, la fantasia dell’autore.

 >> pag. 226 

All’ottava 35, il paesaggio inabitato e selvaggio viene sostituito da un ambiente luminoso e sereno: è il classico locus amoenus*, cioè uno scenario naturale dolce e confortante, fatto tradizionalmente di una vegetazione verde e fiorita, un venticello gradevole, acqua che scorre fresca. In realtà non c’è frattura né improvviso stacco tra le due situazioni: c’è invece la notevole capacità di Ariosto di dissolvere una visione in un’altra, un ritmo narrativo in un altro.

La sostanziale continuità tra un episodio e l’altro del poema non è contraddetta dai frequenti colpi di scena che interrompono e variano il libero fluire della narrazione; al contrario, potremmo dire che per il loro tramite l’autore persegue l’obiettivo di ottenere un racconto ininterrotto e al tempo stesso diversificato, in modo da evitare qualsiasi senso di monotonia o di prevedibilità. In questo brano un primo esempio di colpo di scena è, all’ottava 38, l’arrivo di Sacripante; un secondo è, all’ottava 59, il rumore che annuncia l’arrivo di un altro cavaliere, che – proseguendo nella lettura del primo canto (nelle ottave che seguono immediatamente quelle qui riportate) – si scoprirà essere Bradamante (la quale si batterà in duello con Sacripante).

Già nel primo canto del poema è ravvisabile la tipica tonalità ironica, che Ariosto esercita inizialmente su Sacripante: egli si lamenta così soavemente (v. 60) da spezzare un sasso e da ammansire una tigre feroce; con due iperboli* le sue guance segnate dalle lacrime vengono paragonate a un ruscello e i singhiozzi che lo scuotono a un vulcano in eruzione. L’esagerazione delle pene d’amore è bilanciata dallo scetticismo del poeta, che tende, in tutto il poema, a riportare le passioni umane a una dimensione di maggiore realismo. In altre parole, attraverso l’esasperazione delle smanie amorose dei suoi personaggi Ariosto afferma indirettamente la necessità di vivere i sentimenti all’insegna di un più sano equilibrio. Inoltre assistiamo al rovesciamento dei valori tipicamente cavallereschi: qui l’intento del guerriero non è di proteggere l’onore di una fanciulla illibata dagli assalti di uomini disonesti, ma – al contrario – di “cogliere il fiore” della sua giovinezza, approfittando di una situazione di debolezza.
Anche Angelica non sfugge all’ironia ariostesca. Per esempio l’autore non manca di avanzare qualche dubbio sulla sua verginità, che lei afferma con convinzione di fronte a Sacripante (Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore, vv. 185- 186), e lo stilnovistico angelico sembiante (v. 167) è solo la superficie di una donna pratica e opportunista.
Va detto però che l’ironia di Ariosto non si esercita su Angelica altrettanto direttamente che sui personaggi maschili. Sembra infatti che l’eroina sia oggetto, da parte dell’autore, di una certa simpatia. Il comportamento di Angelica non viene davvero condannato; semmai la giovane viene ammirata per la capacità che ha di piegare gli eventi, per quanto inattesi, al proprio vantaggio. Lo si vede chiaramente, nel seguito dell’episodio, dal fatto che, tra l’astuta Angelica e l’intraprendente Sacripante, oggetto degli strali ironici dell’autore è, di fatto, soprattutto il povero e credulone re di Circassia, che dà facile credenza a quel che vuole (v. 192).

L’ironia ariostesca si esprime anche attraverso la ripresa di celebri modalità retoriche della poesia precedente, in particolare della lirica amorosa di Petrarca. Per esempio l’antitesi* m’agghiacci et ardi (v. 65) rimanda a «et ardo, e son un ghiaccio» (Canzoniere, 134, 2) o anche a «di state un ghiaccio, un foco quando iverna» (Canzoniere, 150, 6).
La similitudine* della rosa alle ottave 42-43 presenta un esplicito richiamo a una fonte classica, il carme LXII del poeta latino Catullo (ca 87-54 a.C.): «Come fiore nascosto che nasce in giardini cintati, / lontano dai greggi, divelto non mai dall’aratro, / ma lo accarezzano i venti, lo rafforza il sole, lo accresce la pioggia, / molti ragazzi, molte ragazze lo vogliono; ma poi, appena spiccato dall’unghia tagliente, sfiorisce, / e più nessun ragazzo, più nessuna ragazza lo vuole; / così è la vergine: finché rimane illibata, gode l’affetto della famiglia; / ma non appena, violato il suo corpo, perde il fiore della purezza, / non è più cara ai ragazzi, non gode l’affetto delle ragazze» (traduzione di Francesco Della Corte). Va sottolineato però come, rispetto al modello catulliano, nei versi di Ariosto sia molto più chiara la consapevolezza di quanto la bellezza sia un valore fortemente insidiato dalla violenza della passione amorosa e dai capricci della fortuna.

 >> pag. 227 

Comunque, attraverso il fitto gioco di rimandi intertestuali come quelli evidenziati, il poeta da un lato esprime un omaggio alla tradizione letteraria e a un poeta rinomato come l’autore del Canzoniere, dall’altro, attraverso il richiamo a un testo assai noto di Catullo, mostra quanto di stereotipato e di facilmente prevedibile c’è nell’innamoramento appassionato di Sacripante.

 >> pag. 228 

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Riassumi le azioni di Angelica.


2 Che cosa si chiede Sacripante nell’ottava 44?


3 A che cosa viene paragonata, nell’ottava 53, la gioia di Sacripante all’apparire di Angelica?


4 Perché Angelica ritiene che Sacripante possa esserle utile?


5 Qual è l’intenzione di Sacripante? Che cosa gli impedisce di portarla a compimento?

ANALIZZARE

6 Quale figura retorica si trova all’ottava 34?


7 Il paesaggio viene descritto in maniera realistica o fantastica? Argomenta la tua risposta facendo riferimento ai dati testuali.


8 Quale registro linguistico prevale nelle ottave antologizzate? Alto, medio o basso? Motiva la tua risposta con una serie di esempi pertinenti.


9 Su quale figura retorica è costruita l’ottava 42?

  •   A   Iperbole.
  •     Sineddoche.
  •     Similitudine.
  •     Metonimia.

INTERPRETARE

10 Qual è inizialmente lo stato d’animo di Angelica? Come muta nel corso del brano? In quale relazione si pone con il paesaggio circostante?

PRODURRE

La tua esperienza

11 «L’ironia è l’occhio sicuro che sa cogliere lo storto, l’assurdo, il vano dell’esistenza». Commenta questa frase del filosofo danese Søren Kierkegaard (1813- 1855) in un testo argomentativo di circa 20 righe, anche alla luce della tua esperienza personale.


 T5 

L’avventura di Pinabello e il castello di Atlante

Canto II, ott. 37-57


Bradamante, sorella di Rinaldo, percorre tutta la Francia alla ricerca di Ruggiero, il più forte cavaliere di Agramante, che lei ama e dal quale è ricambiata. Oltrepassa prima un bosco, poi una montagna; giunge infine a una fonte, dove si imbatte in un cavaliere solitario, che, seduto ai margini di un ruscello, piange addolorato. Alle domande gentili di Bradamante, il cavaliere, che si chiama Pinabello, risponde narrando la sua terribile avventura.


METRO Ottave di endecasillabi con schema di rime ABABABCC.

         37
         E cominciò: «Signor, io conducea
         pedoni e cavallieri, e venìa in campo
         là dove Carlo Marsilio attendea,
         perch’al scender del monte avesse inciampo;
 5     e una giovane bella meco avea,
         del cui fervido amor nel petto avampo:
         e ritrovai presso a Rodonna armato
         un che frenava un gran destriero alato.

 >> pag. 229 

         38
         Tosto che ’l ladro, o sia mortale, o sia
 10   una de l’infernali anime orrende,
         vede la bella e cara donna mia;
         come falcon che per ferir discende,
         cala e poggia in uno atimo, e tra via
         getta le mani, e lei smarrita prende.
 15   Ancor non m’era accorto de l’assalto,
         che de la donna io senti’ il grido in alto.

         39
         Così il rapace nibio furar suole
         il misero pulcin presso alla chioccia,
         che di sua inavvertenza poi si duole,
 20   e invan gli grida, e invan dietro gli croccia.
         Io non posso seguir un uom che vole,
         chiuso tra’ monti, a piè d’un’erta roccia:
         stanco ho il destrier, che muta a pena i passi
         ne l’aspre vie de’ faticosi sassi.

         40
 25   Ma, come quel che men curato avrei
         vedermi trar di mezzo il petto il core,
         lasciai lor via seguir quegli altri miei,
         senza mia guida e senza alcun rettore:
         per li scoscesi poggi e manco rei
 30   presi la via che mi mostrava Amore,
         e dove mi parea che quel rapace
         portassi il mio conforto e la mia pace.

         41
         Sei giorni me n’andai matina e sera
         per balze e per pendici orride e strane,
 35   dove non via, dove sentier non era,
         dove né segno di vestigie umane;
         poi giunse in una valle inculta e fiera,

 >> pag. 230 

         di ripe cinta e spaventose tane,
         che nel mezzo s’un sasso avea un castello
 40   forte e ben posto, a maraviglia bello.

         42
         Da lungi par che come fiamma lustri,
         né sia di terra cotta, né di marmi.
         Come più m’avicino ai muri illustri,
         l’opra più bella e più mirabil parmi.
 45   E seppi poi, come i demoni industri,
         da suffumigi tratti e sacri carmi,
         tutto d’acciaio avean cinto il bel loco,
         temprato all’onda et allo stigio foco.

         43
         Di sì forbito acciar luce ogni torre,
 50   che non vi può né ruggine né macchia.
         Tutto il paese giorno e notte scorre,
         e poi là dentro il rio ladron s’immacchia.
         Cosa non ha ripar che voglia torre:
         sol dietro invan se li bestemia e gracchia.
 55   Quivi la donna, anzi il mio cor mi tiene,
         che di mai ricovrar lascio ogni spene.

         44
         Ah lasso! che poss’io più che mirare
         la rocca lungi, ove il mio ben m’è chiuso?
         come la volpe, che ’l figlio gridare
 60   nel nido oda de l’aquila di giuso,
         s’aggira intorno, e non sa che si fare,
         poi che l’ali non ha da gir là suso.
         Erto è quel sasso sì, tale è il castello,
         che non vi può salir chi non è augello.

 >> pag. 231 

         45
 65   Mentre io tardava quivi, ecco venire
         duo cavallier ch’avean per guida un nano,
         che la speranza aggiunsero al desire;
         ma ben fu la speranza e il desir vano.
         Ambi erano guerrier di sommo ardire:
 70   era Gradasso l’un, re sericano;
         era l’altro Ruggier, giovene forte,
         pregiato assai ne l’africana corte.

         46
         “Vengon (mi disse il nano) per far pruova
         di lor virtù col sir di quel castello,
 75   che per via strana, inusitata e nuova
         cavalca armato il quadrupede augello”.
         “Deh, signor (diss’io lor), pietà vi muova
         del duro caso mio spietato e fello!
         Quando, come ho speranza, voi vinciate,
 80   vi prego la mia donna mi rendiate”.

         47
         E come mi fu tolta lor narrai,
         con lacrime affermando il dolor mio.
         Quei, lor mercé, mi proferiro assai,
         e giù calaro il poggio alpestre e rio.
 85   Di lontan la battaglia io riguardai,
         pregando per la lor vittoria Dio.
         Era sotto il castel tanto di piano,
         quanto in due volte si può trar con mano.

         48
         Poi che fur giunti a piè de l’alta rocca,
 90   l’uno e l’altro volea combatter prima;
         pur a Gradasso, o fosse sorte, tocca,
         o pur che non ne fe’ Ruggier più stima.
         Quel Serican si pone il corno a bocca:
         rimbomba il sasso e la fortezza in cima.

 >> pag. 232 

 95   Ecco apparire il cavalliero armato
         fuor de la porta, e sul cavallo alato.

         49
         Cominciò a poco a poco indi a levarse,
         come suol far la peregrina grue,
         che corre prima, e poi vediamo alzarse
100  alla terra vicina un braccio o due;
         e quando tutte sono all’aria sparse,
         velocissime mostra l’ale sue.
         Sì ad alto il negromante batte l’ale,
         ch’a tanta altezza a pena aquila sale.

         50
105  Quando gli parve poi, volse il destriero,
         che chiuse i vanni e venne a terra a piombo,
         come casca dal ciel falcon maniero
         che levar veggia l’anitra o il colombo.
         Con la lancia arrestata il cavalliero
110  l’aria fendendo vien d’orribil rombo.
         Gradasso a pena del calar s’avete,
         che se lo sente addosso e che lo fiete.

         51
         Sopra Gradasso il mago l’asta roppe;
         ferì Gradasso il vento e l’aria vana:
115  per questo il volator non interroppe
         il batter l’ale, e quindi s’allontana.
         Il grave scontro fa chinar le groppe
         sul verde prato alla gagliarda alfana.
         Gradasso avea una alfana, la più bella
120  e la miglior che mai portasse sella.

         52
         Sin alle stelle il volator trascorse;
         indi girossi e tornò in fretta al basso,

 >> pag. 233 

         e percosse Ruggier che non s’accorse,
         Ruggier che tutto intento era a Gradasso.
125  Ruggier del grave colpo si distorse,
         e ’l suo destrier più rinculò d’un passo:
         e quando si voltò per lui ferire,
         da sé lontano il vide al ciel salire.

         53
         Or su Gradasso, or su Ruggier percote
130  ne la fronte, nel petto e ne la schiena,
         e le botte di quei lascia ognor vòte,
         perché è sì presto, che si vede a pena.
         Girando va con spaziose rote,
         e quando all’uno accenna, all’altro mena:
135  all’uno e all’altro sì gli occhi abbarbaglia,
         che non ponno veder donde gli assaglia.

         54
         Fra duo guerrieri in terra et uno in cielo
         la battaglia durò sin a quella ora,
         che spiegando pel mondo oscuro velo,
140  tutte le belle cose discolora.
         Fu quel ch’io dico, e non v’aggiungo un pelo:
         io ’l vidi, i’ ’l so; né m’assicuro ancora
         di dirlo altrui; che questa maraviglia
         al falso più ch’al ver si rassimiglia.

         55
145  D’un bel drappo di seta avea coperto
         lo scudo in braccio il cavallier celeste.
         Come avesse, non so, tanto sofferto
         di tenerlo nascosto in quella veste;
         ch’immantinente che lo mostra aperto,
150  forza è, chi ’l mira, abbarbagliato reste,
         e cada come corpo morto cade,
         e venga al negromante in potestade.

 >> pag. 234 

         56
         Splende lo scudo a guisa di piropo,
         e luce altra non è tanto lucente.
155  Cadere in terra allo splendor fu d’uopo
         con gli occhi abbacinati, e senza mente.
         Perdei da lungi anch’io li sensi, e dopo
         gran spazio mi riebbi finalmente;
         né più i guerrier né più vidi quel nano,
160  ma vòto il campo, e scuro il monte e il piano.

         57
         Pensai per questo che l’incantatore
         avesse amendui colti a un tratto insieme,
         e tolto per virtù de lo splendore
         la libertade a loro, e a me la speme.
165  Così a quel loco, che chiudea il mio core,
         dissi, partendo, le parole estreme.
         Or giudicate s’altra pena ria,
         che causi Amor, può pareggiar la mia».

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Questo episodio rappresenta uno dei momenti fondamentali della storia d’amore tra Bradamante e Ruggiero, che è a sua volta uno dei filoni narrativi principali del poema. La guerriera cristiana ascolta il racconto di Pinabello, il quale dice di essere stato a capo di fanti e cavalieri, mentre si recava dove Carlo Magno attendeva re Marsilio. In quel tragitto incontra un misterioso personaggio che – in groppa a un cavallo alato, l’ippogrifo – gli rapisce la donna amata. Abbandonati i soldati che guidava, si mette a cercare la fanciulla, finché, dopo sei giorni di cammino, giunge in una valle selvaggia, al centro della quale si erge su una roccia uno straordinario castello, che – lo si apprenderà in seguito – è il palazzo del mago Atlante.

Lo sconforto di Pinabello viene temporaneamente attenuato dall’arrivo di due cavalieri, Gradasso e Ruggiero, i quali accolgono la sua richiesta di aiuto, decidendo di sfidare in combattimento Atlante. Ma non hanno fatto i conti con le arti soprannaturali del mago e con la sproporzione di forze che lo avvantaggia: in sella all’ippogrifo e dotato di uno scudo magico capace di abbagliare gli avversari, Atlante ha buon gioco a evitare i colpi dei due nemici, che finiscono per avere la peggio.
Entra così a pieno titolo nel poema – con il mago e i suoi incantesimi – l’elemento magico e meraviglioso, che diventa anch’esso pretesto per nuove avventure, «partecipando dello stesso tono fiabesco delle altre vicende, e come esse è continuamente ricondotto a semplici e schietti sentimenti umani: l’amore trepido e gentile di Bradamante, quello paterno e patetico del mago, il quale sa che a nulla serviranno i suoi incantesimi contro il destino, e tuttavia non sa né vuole rassegnarsi ad esso» (Pazzaglia).

 >> pag. 235 

Lo scudo che acceca è invenzione di Ariosto, che sembra però essersi ispirato allo scudo donato a Perseo da Minerva, con cui l’eroe mitologico riuscì a sconfiggere Medusa. Questa era un mostro di aspetto orribile, con la testa cinta di serpenti, gli occhi scintillanti e lo sguardo che impietriva. Perseo le tagliò la testa mentre dormiva, servendosi dello scudo come di uno specchio per evitarne lo sguardo terribile. Forse qualche elemento è derivato anche, alla fantasia ariostesca, dal mito della testa di Medusa, che Perseo mostrava quando fosse utile (lo fece, per esempio, per pietrificare Atlante e liberare Andromeda, poi sua sposa), e che le arti figurative rappresentavano spesso sopra una corazza o su uno scudo.

Le scelte stilistiche

In questo passo, come spesso accade nel poema, Ariosto è molto abile nel coniugare azione e descrizione. Quanto alla prima, sul piano narrativo è assai efficace la resa della fulmineità di movimenti con cui l’oscuro cavaliere rapisce a Pinabello la sua donna (ottava 38). La doppia similitudine* ornitologica (prima con il falco che scende per colpire, v. 12; poi con il nibbio che sottrae il pulcino alla chioccia, vv. 17-20) evidenzia la rapace destrezza con cui la fanciulla viene presa. L’abilità del poeta nel descrivere luoghi e ambienti fantastici si coglie invece soprattutto nelle ottave 41-43, nelle quali si parla di una valle che appare quasi fuori dal mondo e di un palazzo dalle caratteristiche decisamente singolari. Tutto ciò ha l’effetto di destare nel lettore curiosità e meraviglia, che non verranno deluse dal prosieguo dell’azione, caratterizzato da un rapido susseguirsi di eventi.

Soffermiamoci ora su un’ottava in particolare, la 49, e specialmente su due versi: il primo (Cominciò a poco a poco indi a levarse, v. 97), ricco di iati* e povero di accenti ritmici, con la sua lentezza intensifica l’attenzione del lettore; invece il sesto (velocissime mostra l’ale sue, v. 102), che peraltro segue altri versi ampi e dal ritmo disteso, grazie alla parola sdrucciola* iniziale suona breve e rapido. È questo un significativo esempio di armonia rappresentativa, cioè della raffinata capacità dell’autore di calibrare la ritmica dei versi in funzione di quanto viene narrato, per esempio alternando – come avviene nel nostro caso – rallentamenti e accelerazioni della scansione metrica in relazione ai movimenti e ai gesti dei personaggi. L’ottava si conclude poi con «altri due versi, abbondanti, solenni: sembra, dopo quel rapidissimo innalzarsi, di veder girare, lassù, a larghe e lente ruote, cavallo e negromante. L’ottava ne risulta conclusa in maniera magistrale » (Nardi).

 >> pag. 236 

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Chi è il personaggio incontrato da Pinabello in groppa al cavallo alato?


2 Quale perdita rattrista e angoscia Pinabello?


3 Come viene descritto il castello? Quali sono le sue caratteristiche?


4 Che cosa chiede Pinabello a Gradasso e Ruggiero?


5 Chi è il cavalliero del v. 109?


6 In cosa non riesce Gradasso all’ottava 51?


7 Qual è la speme di cui parla Pinabello al v. 164?


8 Come finisce il combattimento tra Atlante e i due cavalieri?

ANALIZZARE

9 Il brano presenta anche una tematica amorosa, con qualche nota elegiaca, di tipo patetico, in relazione ai sentimenti manifestati da Pinabello nei confronti dell’amata. Individua alcune espressioni dove compare tale tema.


10 Quale figura retorica troviamo al v. 154 (luce… lucente)?

  •   A   Poliptoto.
  •     Iperbato.
  •     Figura etimologica.
  •     Anastrofe.

11 Quale figura retorica si può individuare al v. 164 (la libertade a loro, e a me la speme)?

  •   A   Anacoluto.
  •     Chiasmo.
  •     Sineddoche.
  •     Metafora.

INTERPRETARE

12 Secondo te a quale scopo viene introdotta dall’autore la serie sinonimica strana, inusitata e nuova (v. 75)?


Al cuore della letteratura - volume 2
Al cuore della letteratura - volume 2
Il Quattrocento e il Cinquecento