1 - La vita

Umanesimo e Rinascimento – L'autore: Ludovico Ariosto

1 La vita

Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia nel 1474, primogenito di dieci fratelli, dal conte ferrarese Niccolò e da Daria Malaguzzi Valeri. A Reggio il padre ricopre la carica di capitano della cittadella, una delle molte della sua carriera di funzionario dei duchi d’Este, la nobile famiglia regnante a Ferrara. Ludovico inizia i primi studi grammaticali e giuridici a Ferrara: come primogenito, è infatti destinato a intraprendere la carriera pubblica del padre. Tuttavia li abbandona pochi anni dopo, per dedicarsi alle materie letterarie e classiche.

È lui stesso a ricordarlo in alcuni versi della Satira VI (vv. 157-162): «Mio padre mi cacciò con spiedi e lancie, / non che con sproni, a volger testi e chiose, / e me occupò cinque anni in quelle ciance. / Ma poi che vide poco fruttuose / l’opere, e il tempo invan gittarsi, dopo / molto contrasto in libertà mi pose» (Mio padre mi spinse, con strumenti coercitivi, a studiare i testi giuridici e i loro commenti, e mi fece trascorrere cinque anni in quelle occupazioni per me inutili. Ma accortosi che i risultati erano scadenti e che così si sprecava tempo, dopo molti contrasti, mi lasciò libero di fare ciò che volevo). Insomma, Ludovico preferisce lo studio delle lettere a quello della giurisprudenza, cui il padre voleva avviarlo; e al genitore non resta che accettare la volontà del figlio. Tra il 1495 e il 1500 Ariosto trascorre così anni spensierati tra amicizie, amori e studi.

Nel 1500 muore il padre, lasciando una discreta eredità, ma anche dieci figli, e tocca a Ludovico, come primogenito, assumersi le cure della famiglia. Intraprende così la carriera militare: nel 1502 è capitano di Canossa, una rocca sperduta tra i calanchi dell’Appennino reggiano; l’anno dopo entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este. Le parole del contemporaneo Luigi da Porto tracciano un efficace ritratto di questo ecclesiastico ambizioso e, insieme, fine diplomatico, intelligente politico, nonché valoroso uomo di guerra, associato dal fratello Alfonso alla guida dello Stato: «È il cardinal d’Este, fratello del duca, il più disposto corpo con il più fiero animo, che mai alcuno della sua casa avesse… Piacciono a costui gli uomini valorosi, e, quantunque sia prete, ne ha sempre molti dattorno».
Da questo momento la vita di Ludovico sarà divisa tra due attività: quella fastidiosa, ma necessaria alla sussistenza della famiglia, di funzionario alla corte del cardinale Ippolito d’Este, che gli affida missioni diplomatiche sempre più importanti e delicate, e quella prediletta di poeta, che lo impegna nella stesura di un’opera che sviluppa le vicende dell’Orlando innamorato del conterraneo Boiardo.
Nel 1513 Ludovico incontra, a Firenze, Alessandra Benucci, moglie di Tito Strozzi, e verso di lei nasce un amore che durerà fino alla morte: rimasta vedova nel 1515, diventerà la sua compagna (più avanti si sposeranno in segreto).

Nel 1516, dopo un lavoro durato circa dieci anni, esce la prima edizione dell’Orlando furioso, un poema cavalleresco in ottave, che conosce subito un successo eccezionale in Italia e in Europa, tanto da essere ben presto tradotto e pubblicato anche in altre lingue. Durante la stesura del suo capolavoro, Ariosto scrive anche le Satire e quattro commedie.

I suoi rapporti con il cardinale sono quelli del dipendente che ubbidisce e borbotta: gli impegni legati alla sua attività di funzionario di corte e quell’esser fatto «di poeta, cavallaro» non potevano piacergli, tanto più quando il successo dell’Orlando furioso lo autorizza a sperare in una vita più quieta e consona al suo genio.
Nel 1517 si rifiuta di seguire il cardinale, nominato vescovo di Buda, in Ungheria e deve abbandonarne il servizio. Questi lo accusa di malvagità e ingratitudine, ma troppe cose trattenevano il poeta a Ferrara: l’età, la salute, i fratelli, l’amore per Alessandra. La rottura risulterà definitiva, con grande rammarico di Ariosto, che al cardinale aveva dedicato il suo poema, consacrandone il nome nei secoli futuri: quando, dopo tre anni, Ippolito tornerà malato a Ferrara per morirvi, nel suo testamento ricorderà tutti, anche i più umili servitori, tranne Ariosto.

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Nel 1518 Ludovico è alla corte di Alfonso I d’Este duca di Ferrara: è contento del nuovo incarico che di rado lo costringe ad allontanarsi dalla città. Alfonso è molto meno esigente del fratello e lascia Ariosto piuttosto libero. Tuttavia nel 1522, tornata la Garfagnana in possesso del duca, questi lo manda a governarla con l’incarico di “commissario”: impresa difficile per la rozzezza degli abitanti, la violenza dei contrasti tra le fazioni e la ferocia dei banditi che infestavano questa regione montagnosa. Ariosto fa comunque del suo meglio per portarvi ordine e sicurezza, ottenendo diversi risultati positivi.

il carattere

Un uomo tranquillo

L’immagine tradizionale di Ariosto è quella di una persona amante della quiete (era detto Ludovicus tranquillitatis, “Ludovico della tranquillità”), di un poeta svagato e sognante, perso dietro alle proprie fantasie. «Il suo ideale», scriveva Francesco De Sanctis, «è la tranquillità della vita, starsene a casa fantasticando e facendo versi, vivere e lasciar vivere». Egli ci appare dunque, innanzitutto, come un uomo bonario, riflessivo, dotato di sentimenti onesti e delicati, forse privo di profonde passioni morali, religiose, politiche. Insomma, saggio di una saggezza serena.


Il senso della famiglia
Ludovico però è anche un uomo dotato di un grande senso di responsabilità. La vita lo costringe a crescere in fretta. Ha solo ventisei anni quando, nel 1500, morto il padre, si trova a fare da genitore a quattro fratelli e cinque sorelle, con anche la madre a carico, unico in grado di guadagnarsi da vivere. Così lo scrittore: «Mi more il padre, e da Maria il pensiero / drieto a Marta bisogna ch’io rivolga, / ch’io muti in squarci et in vacchette Omero; // truovi marito e modo che si tolga / di casa una sorella e un’altra appresso, / e che l’eredità non se ne dolga; // coi piccioli fratelli, ai quai successo / ero in luogo di padre, far l’uffizio / che debito e pietà avea commesso; // a chi studio, a chi corte, a chi essercizio / altro proporre, e procurar non pieghi / da le virtudi il molle animo al vizio» [Satire, VI, 199-210; Muore mio padre e bisogna che sposti il mio pensiero dalla vita contemplativa (Maria) a quella attiva (Marta) e che lasci la poesia per gli scartafacci e i registri contabili (detti vacchette perché rilegati in pelle di vacca); che trovi marito a una sorella e dopo a un’altra, e che l’eredità non soffra troppo per le doti da preparare; con i fratelli più piccoli, per i quali ricoprivo il ruolo di padre, devo svolgere il compito educativo che il dovere e l’affetto mi avevano affidato. Devo proporre a uno il servizio di corte, a un altro lo studio, a un altro ancora l’esercizio della mercatura e vigilare affinché non pieghi il cedevole animo dalle virtù al vizio].


L’impegno sociale
L’umana disponibilità di Ariosto si vede bene anche nei tre anni trascorsi in Garfagnana. Se all’inizio è turbato dall’asprezza dei luoghi e dei costumi, a poco a poco prende in simpatia la condizione di quella povera gente, avvilita dalla prepotenza dei pochi che la comandano e abituata, per antica consuetudine, a chinare il capo di fronte ai soprusi. Scrive in una lettera: «Finch’io starò in questo officio, non sono per havermi alcuno amico, se non la giustitia». Tale dichiarazione d’intenti, concretizzata nella quotidiana azione di governo, determina nei suoi confronti l’odio dei prepotenti che vedono in pericolo i propri privilegi.
Quel che è certo è che Ariosto possiede sì fini doti intellettuali, ma non grandi capacità di gestione politica. È lui stesso a scoprirsi, periodicamente, incapace di severità, anche là dove tale atteggiamento sarebbe necessario. Al contrario, il contatto personale lo spinge a comprensione e compassione nei riguardi degli stessi colpevoli: «Io ’l confesso ingenuamente, ch’io non son omo da governare altri omini, che ho troppo pietà, e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata». Chissà quanti hanno provato ad approfittarsi di questa debolezza del funzionario Ludovico Ariosto!

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Dopo tre anni torna a Ferrara, dove trascorre serenamente l’ultima parte della sua vita: si costruisce una casa in contrada Mirasole, sulla facciata della quale è iscritto il distico latino: Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non / sordida, parta meo sed tamen aere domus (Una casa piccola, ma adatta a me; non molesta ad alcuno, né / indecorosa; acquistata con il mio denaro). Qui trascorre gli ultimi anni, felice dell’affetto della moglie Alessandra e del figlio Virginio, che ha avuto da una relazione precedente, dedicandosi agli studi e all’esercizio letterario fino al 1533, anno in cui muore.

2 Le opere

Ariosto scrive quasi esclusivamente in volgare; l’uso del latino è episodico e riservato soltanto ad alcune poesie. Senz’altro il genere più importante da lui praticato è l’epica cavalleresca, che gli assicura un posto di primo piano nella storia della letteratura italiana. Va però anche ricordata la produzione satirica, utile per inquadrare meglio la personalità dell’autore, mentre meno significative sono le commedie scritte per il teatro della corte estense.

Orlando furioso

Intorno al 1505 Ariosto si accinge alla composizione dell’Orlando furioso. La prima edizione è del 1516 e la seconda del 1521, ambedue in 40 canti; la terza, in 46 canti, data al 1532. Al Furioso è dedicata la seconda parte dell’Unità (► p. 201).

Satire

Scritte fra il 1517 e il 1524 (e pubblicate postume nel 1534), sono 7 componimenti in terza rima, dedicati a parenti e ad amici. Sono testi di contenuto autobiografico e di andamento narrativo, caratterizzati da una scioltezza e coerenza di stile – uno stile colloquiale, dimesso – che le rendono le più riuscite tra le opere minori di Ariosto. In esse l’autore svolge una meditazione, pacata e sorridente, sul proprio carattere e sui propri difetti: emerge a tratti la sua nitida coscienza morale, che gli vieta certi comportamenti e ne orienta le scelte di vita. Quello delle Satire è un Ariosto intento a un racconto concreto e personale, che è quasi il rovescio di quella grande “favola” che è il Furioso.

La Satira I è un bilancio degli anni di servizio agli ordini del cardinale Ippolito d’Este; la II è la cronaca di un viaggio a Roma, città dipinta a tinte fosche per gli intrighi politici che caratterizzano la curia papale; la III parla del nuovo servizio del poeta, quello presso Alfonso I; la IV racconta del suo incarico in Garfagnana, con tutti i problemi e i disagi che egli si trova a vivere; la V è indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi nell’imminenza del suo matrimonio ed è un elogio della vita matrimoniale; nella VI l’autore traccia un crudo quadro della società letteraria contemporanea; la VII è un garbato rifiuto all’offerta di un posto di ambasciatore presso papa Clemente VII.

Rime volgari e Carmi latini

Le Rime in volgare (raccolte per la prima volta in volume nel 1545) sono quasi tutte liriche d’amore che hanno per modello Petrarca, per quanto si avverta con chiarezza l’influsso dei poeti latini. In particolare, da giovane Ariosto si era formato sui versi di Catullo, Orazio, Ovidio e Virgilio, dai quali deriva, per la propria poesia, un insegnamento di stile, nei termini di una composta essenzialità. D’altronde Ariosto è anche autore di un cospicuo numero di poesie in latino (oltre una settantina), di metri e argomenti vari, che attestano gli assidui studi giovanili sui classici.

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Commedie

Ariosto scrive 5 commedie in endecasillabi sciolti: La Cassaria (1508); I Suppositi (1509); Il Negromante (1520); La Lena (1528); I Studenti (rimasta interrotta e finita dal fratello Gabriele e dal figlio Virginio, che la intitolano La Scolastica). Sono opere che non presentano particolari pregi letterari: Ariosto si limita a riprendere gli schemi formali delle commedie latine di Plauto e Terenzio, adattandone gli intrecci a situazioni contemporanee.

Questa produzione per le scene rientra nell’attività cortigiana di Ariosto, che sovrintende alle rappresentazioni anche come regista e scenografo. L’amore per lo spettacolo classico era infatti assai vivo a Ferrara, la cui corte chiese ad Ariosto anche questo tributo, peraltro a lui non sgradito. Nelle commedie, la società rinascimentale è l’oggetto di un’analisi e di un commento sorridenti, pacati, talora moraleggianti.

Lettere

Di Ariosto ci sono rimaste anche 214 lettere di un epistolario certamente più ampio. Nate da contingenze e necessità pratiche, esse aprono squarci sulla vita privata del poeta, risultando utili nella ricostruzione dei suoi servizi pubblici (soprattutto del commissariato garfagnino), e offrono alcune informazioni sulla composizione delle opere.

Erbolato

Si tratta di un opuscolo uscito postumo nel 1545, della cui paternità ariostesca, peraltro, non tutti gli studiosi sono persuasi. È un’opera singolare, una sorta di divertissement che disegna una gustosa caricatura dei medici del tempo. L’erbolato è una torta d’erbe di cui un medico un po’ ciarlatano decanta le portentose virtù terapeutiche.

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La vita
 Le opere 
• Nasce a Reggio Emilia 1474  
• Studia giurisprudenza e lettere a Ferrara 1495-1500  
• Intraprende la carriera militare 1502  
• Entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este 1503


1508
La Cassaria
1509 I Suppositi
• Incontra Alessandra Benucci, la donna che amerà per tutta la vita 1513


1516 Prima edizione dell’Orlando furioso
• Si rifiuta di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria e lascia il servizio presso di lui 1517


1517-1524 Satire
• È al servizio del duca di Ferrara Alfonso I d’Este 1518


1520
Il Negromante
1521 Seconda edizione dell’Orlando furioso
• È in Garfagnana come commissario per controllare i territori acquisiti dal ducato 1522  
• Ritorna definitivamente a Ferrara 1525


1528
La Lena
1532 Terza edizione dell’Orlando furioso
• Muore a Ferrara 1533


1534
Satire (pubblicazione postuma)
1545 Rime ed Erbolato (pubblicazione postuma)

3 I grandi temi

Le ansie della corte e l’ideale della vita semplice

Pochi mesi dopo essersi liberato dal servizio presso il cardinale Ippolito, Ariosto si trova costretto ad accettare un nuovo incarico presso il duca Alfonso, ottenuto grazie all’interessamento di un cugino, Annibale Malaguzzi. Giacché deve guadagnare da vivere per sé e per la sua numerosa famiglia, sembra proprio che non ci sia per lui alternativa alla vita di corte.

Diciamo innanzitutto che quella di Ferrara è una corte splendida, ma anche piccola, e che, come in tutti gli ambienti ristretti, non mancano intrighi, invidie e gelosie, cui Ariosto è alieno per carattere. Il poeta conosce bene vizi e difetti di chi gli garantisce il sostentamento. Nonostante egli indirizzi loro dediche piene di lodi retoriche, è ben consapevole di non avere a che fare con eroi, ma con semplici uomini: saggi e intriganti, pavidi e feroci, dominati dalla legge inesorabile della ragion di Stato.

L’ideale di vita di Ariosto è di tutt’altro tenore. Egli vagheggia un’esistenza tranquilla e serena, nella quale poter realizzare integralmente la sua dimensione umana; un’esistenza libera, non in senso assoluto, ma in senso pratico: la libertà a cui aspira è quella di avere tempo sufficiente per potersi dedicare alla lettura, alla scrittura e agli affetti familiari.

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Tuttavia il desiderio di indipedenza di Ariosto non è ricollegabile soltanto a un carattere schivo e poco amante della vita mondana, ma va letto anche sullo sfondo della mutata temperie storica e culturale. Ariosto simboleggia appieno la crisi dell’intellettuale cortigiano, che si adatta con sempre maggiore difficoltà a farsi cantore del signore da cui è stipendiato. Per lui la letteratura è, al contrario, esercizio libero e dignitoso, spazio di autonomia rispetto alle richieste del potere, talora pressanti e invasive. Scrivere rappresenta, in altre parole, il momento in cui l’uomo di corte rivendica e ricerca la possibilità di “rientrare in sé stesso” e di costruire qualcosa per sé, al di là degli obblighi professionali e sociali. Probabilmente è anche per questo che Ariosto coltiva la scrittura con una certa discrezione: egli forse è il primo letterato della nostra tradizione che non tende a “monumentalizzarsi”, a offrire, cioè, attraverso le sue opere, un’immagine idealizzata della propria persona e del proprio lavoro artistico.

cronache dal passato

La congiura di don Giulio

Una feroce storia di vendetta familiare


Nel 1505 il duca di Ferrara Ercole I d’Este muore, e gli succede il duca Alfonso, suo primogenito. Alfonso era stato un giovane turbolento, insensibile all’arte, amante dei divertimenti più sfrenati; ora però, nel regnare, mostra abilità e fermezza. Gli è solidale il fratello Ippolito, che lo appoggerà per tutta la vita, nonostante la grande diversità di carattere: Ippolito – creato cardinale all’età di quattordici anni – è colto, raffinato, calcolatore, ma anche irascibile.
L’accordo tra Alfonso e Ippolito esclude un fratello, Ferrante, il secondogenito, che si sente messo da parte e non si rassegna a tale disegno. La sua ambizione è quella di sostituirsi ad Alfonso alla guida del ducato.
Con i tre fratelli vive anche don Giulio, figlio illegittimo di Ercole, ma cresciuto ed educato con loro. Giulio è un giovane di bell’aspetto, frivolo e dissoluto. Non si interessa di politica, essendo invece dedito alle avventure galanti. Tuttavia proprio da lui ha origine un dramma che rischia di travolgere il ducato estense.
Giulio, famoso per il fascino del suo sguardo, fa innamorare una gentildonna, a sua volta amata da Ippolito. Quest’ultimo, furente di gelosia, tende un agguato al fratellastro, facendolo colpire proprio agli occhi. Giulio rimane cieco da un occhio, mentre l’altro resta fortemente compromesso.
Ippolito meriterebbe una severa punizione, ma le cautele diplomatiche (la necessità di evitare uno scandalo che potrebbe oltrepassare i confini del ducato) inducono il duca Alfonso a minimizzare l’accaduto. Naturalmente, Giulio è di diverso avviso, e il suo risentimento verso Ippolito e verso Alfonso cresce.
Per questo motivo Giulio si avvicina a Ferrante. I due concepiscono un piano: uccideranno Alfonso e Ippolito; in tal modo Giulio soddisferà la propria sete di vendetta, Ferrante quella di potere. La congiura viene organizzata. Ma l’abile cardinale Ippolito si accorge di qualcosa. Freddo, lucido, attento, si mette in guardia, fa sorvegliare Giulio e Ferrante, li osserva, li controlla, e infine la macchinazione è svelata.
I due giovani, non ancora trentenni, sono condannati a morte ma la pena viene poi commutata nel carcere a vita. È il settembre del 1506. Ferrante morirà in prigione a sessantatré anni, Giulio ne uscirà invece dopo avere superato gli ottanta (avendo dunque passato in cella oltre mezzo secolo), quando ormai i protagonisti dell’epoca della sua giovinezza sono quasi tutti scomparsi, Ariosto compreso.

Al cuore della letteratura - volume 2
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Il Quattrocento e il Cinquecento