La pittura surrealista

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La pittura surrealista

Max Ernst

Il pittore tedesco Max Ernst (Brühl 1891-Parigi 1976), dopo aver aderito al gruppo dada di Colonia, nel 1922 si trasferisce a Parigi, entrando in contatto con i surrealisti. All’inizio degli anni Quaranta, come molti artisti surrealisti, Ernst si trasferisce a New York per sfuggire alle persecuzioni naziste. Con la sua arte influenzerà notevolmente lo sviluppo delle ricerche dell’Espressionismo astratto d’oltreoceano promosse dalla giovane generazione d’avanguardia americana.

L’eléphant Célèbes

All’inizio della sua carriera, come molti artisti dada e surrealisti, è influenzato dall’opera di De Chirico, da cui trae molteplici suggestioni che rielabora subito in maniera originale. Si veda a tal proposito L’eléphant Célèbes (29): l’impianto scenico del dipinto e l’utilizzo del manichino senza testa in primo piano richiamano esplicitamente gli elementi della pittura metafisica. Lo strano elefante che si tramuta in figura meccanica annuncia invece nuovi sconfinamenti verso una dimensione più onirica e paradossale rispetto alle atmosfere dechirichiane.

Visione provocata dall’aspetto notturno delle porte di Saint-Denis

Già negli anni di Colonia Ernst sperimenta molti procedimenti e tecniche. Pratica il collage, la decalcomania (cioè il trasferimento di scritte o immagini da una carta appositamente preparata a un altro supporto) e una sorta di dripping, consistente nello sgocciolamento del colore dal pennello o dal barattolo sulla tela o sul foglio – procedimento che influenzerà gli espressionisti astratti, soprattutto Pollock (► p. 416). Tale tecnica libera la pittura dalla ricerca di un’immagine precostituita, in quanto è il colore, in relazione al caso, a determinare l’immagine finale che l’artista può liberamente interpretare.
A partire dal 1925 inizia a sperimentare il frottage, tecnica consistente nello strofinare con una matita un foglio sovrapposto a una superficie ruvida, così da far affiorare sulla carta la trama della materia sottostante. Questa tecnica è considerata l’equivalente della scrittura automatica. «Trovandomi, durante una giornata di pioggia, in un albergo in riva al mare – racconta Ernst – fui colpito dall’ossessione che esercitava sul mio sguardo irritato il pavimento di legno solcato di striature che i mille lavaggi avevano accentuato. Mi decisi allora a interrogare la simbologia di quella ossessione, e per dare un ausilio alle mie facoltà meditative e allucinatorie, trassi dalle assi una serie di disegni […] fui sorpreso dalla subitanea intensificazione delle mie facoltà visionarie e dall’allucinante successione di immagini contraddittorie che si sovrapponevano le une alle altre». L’artista inizia così a interrogare tutte le superfici e i materiali che gli si presentano per esplorare e portare in superficie il senso nascosto delle cose. Esempi di utilizzo di questa tecnica possono essere individuati nelle opere appartenenti al ciclo delle Foreste, come la Visione provocata dall’aspetto notturno delle porte di Saint-Denis (30), realizzate mediante un frottage verticale sormontato da una forma circolare come un sole e punteggiato da silhouette di uccelli.

Oedipus Rex

Le scene dipinte da Ernst sollecitano lo spettatore a compiere un viaggio fantastico, oltre la dimensione razionale, e a immergersi in un’atmosfera visionaria e da incubo. Se si osserva Oedipus Rex (31), si può constatare che ci si trova di fronte a un dipinto apparentemente tradizionale dal punto di vista formale. Ma ciò che colpisce subito è la dimensione fantastica dei soggetti e soprattutto la relazione non plausibile che si istituisce fra gli oggetti stessi. Il quadro diventa, dunque, una finestra aperta verso gli sconfinati territori del sogno e dell’inconscio. La scena si svolge in un esterno. Dalla finestra di un edificio di mattoncini rossi fuoriesce una mano sovradimensionata, trafitta da un ago, che trattiene tra le dita una noce, a sua volta trafitta da una freccia, e una piccola conchiglia madreperlacea. Dalle aperture di un edificio sottostante fuoriescono le teste di due strani animali, vivi o impagliati non è dato sapere. Come osserva lo storico dell’arte Michele Dantini, «l’Oedipus Rex, cui il titolo conferisce particolare drammaticità – il complesso edipico, per Freud, è il particolare intreccio di desiderio e rivalità che unisce il bambino ai due genitori – è concepito come un rebus, come un rompicapo figurativo». Il significato dell’opera è volutamente aperto, suscettibile di molteplici interpretazioni da parte dell’osservatore, mutevole e in continua metamorfosi.

La vestizione della sposa

Le opere di Ernst sono spesso abitate da figure mostruose, immerse in una natura inquietante popolata da costruzioni, che sono l’intreccio di forme antropomorfiche e zoomorfiche. Si veda a tal proposito La vestizione della sposa (32), opera intrisa di simboli erotici e sessuali come l’Oedipus Rex. La figura nuda che campeggia in primo piano coperta da un mantello di piume rosse, colore associato al sesso e all’erotismo, ha le sembianze di un rapace, capace di vedere al buio. Ernst allude così alle capacità preveggenti della civetta, in questo caso attribuite alla sposa. La donna-civetta allontana con il braccio un’altra figura femminile nuda, con la chioma pietrificata, simbolo della verginità; la giovane ha lo sguardo rivolto indietro, verso un quadro che rimanda a un rito di iniziazione, ovvero al passaggio verso la conoscenza della vita e della vera essenza dell’amore. Soggetto del quadro è la stessa figura femminile nuda con il mantello, che però avanza da sola in un universo non contaminato dalle relazioni umane. Alla donna con mantello in primo piano si affianca una strana figura antropomorfa che simboleggia l’uomo, con una lancia spezzata orientata al pube della sposa, così da evidenziare la verginità violata della sposa. In basso è presente una piccola statuetta mostruosa, sorta di idolo della fertilità, che si asciuga le lacrime. Dal punto di vista formale, l’opera è basata su una tecnica mista di pittura a olio e decalcomania che conferisce alla materia pittorica una particolare e intrigante trama sgranata.

Joan Miró

Nel 1917 il catalano Joan Miró (Barcellona 1893-Palma di Maiorca 1983) conosce a Barcellona Francis Picabia; a seguito di questo incontro, decide di trasferirsi a Parigi. Durante il primo soggiorno nella capitale francese, risalente al 1920, Miró frequenta le mostre dadaiste, fa visita all’atelier di Picasso, conosce Tzara e parallelamente studia l’arte antica frequentando il Museo del Louvre. Un momento di grande fermento creativo per la sua ricerca, accompagnato da un riscontro importante da parte del pubblico e della critica, coincide con il 1925, quando si unisce ai surrealisti ed espone alla prima mostra surrealista tenutasi alla Galerie Pierre, dove in quello stesso anno tiene anche un’esposizione personale di successo.
Miró declina un linguaggio in bilico tra figurazione e astrazione, per mezzo del quale dà vita a un mondo fantastico e incantato, pervaso da un intenso vitalismo. «Il quadro deve essere fecondo – osserva l’artista – deve far nascere un mondo. Deve essere come le scintille, deve sfavillare come quelle pietre che i pastori dei Pirenei usano per accendere la pipa».
Se artisti come Ernst, Dalí e Magritte si muovono in un ambito linguistico figurativo, Miró indaga la dimensione fantastica del sogno attraverso una ricerca più astratta, che esalta ed esplora elementi come la linea, il colore e le forme. La sua poetica è pertanto caratterizzata da questa continua oscillazione tra figurazione e astrazione, che può essere paragonata, seppure con le dovute differenze e su un piano di ricerca linguistica diversa, a quella di Paul Klee.

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Dialogo di insetti

Svincolandosi da un approccio figurativo tradizionale, Miró fa proprie le acquisizioni astratte più rigorose, senza tuttavia rinunciare a una dimensione narrativa, come evidenziano i titoli delle sue opere, che sono intensamente poetici ed evocativi e rimandano all’universo incantato della sua pittura, abitata da stelle, soli e lune, fiori e uccelli. In Dialogo di insetti (33), per esempio, la scena è ripartita in due parti, la terra e il cielo. Attraverso l’utilizzo di campiture piatte di colore, che aboliscono la volumetria, si crea una nuova dimensione spaziale bidimensionale. La terra è popolata da alberi dalle forme geometriche svettanti verso il cielo e da strani animali con baffi e antenne. Nel cielo, di colore blu intenso rischiarato dalla luce della luna, fluttuano insetti e farfalle che dialogano con i personaggi sulla terra, dando vita a una composizione armonica avvolta in un’atmosfera da favola.

Cane che abbaia alla luna

Lo stesso motivo della ripartizione della superficie del dipinto in due parti si ritrova in Cane che abbaia alla luna (34), dove gli oggetti galleggiano nel vuoto, elemento sintattico ricorrente nell’opera di Miró. Il cane, la luna e la scala che la vuole raggiungere in un’atmosfera da sogno si stagliano sui colori terrosi e piatti del fondo come fossero degli oggetti su un palcoscenico o dei ritagli di carta di un collage. Come molte delle opere realizzate nel periodo parigino, questo dipinto mostra come l’immaginario di Miró affondi le sue radici nel paesaggio e nella cultura catalani. Nel bozzetto preparatorio, in cui l’artista raffigura una leggenda del suo Paese d’origine, erano presenti anche dei balloons, in cui la luna rispondeva ai guaiti del cane con la frase «Lo sai, a me non importa niente». Nonostante queste parole siano state escluse dalla versione finale dell’opera, il loro significato viene restituito perfettamente dallo spazio vuoto che separa i pochi elementi pittorici, dando l’idea del desiderio frustrato e dell’isolamento notturno.

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Il carnevale di Arlecchino

Miró racconta che alla sera, quando faceva ritorno nel suo atelier di rue Blomet a Parigi, a causa della fame era colto da visioni e allucinazioni che lo mettevano in contatto con la parte più profonda del suo inconscio. Nascono allora opere come Il carnevale di Arlecchino (35), uno tra i dipinti più famosi del periodo surrealista e dove si ritrovano molti dei temi cari all’artista spagnolo. Forme fantastiche e biomorfiche, piccole creature, buffi mostriciattoli e puri ritmi grafici fluttuano leggeri nello spazio della tela, tracciando una narrazione mutevole, tra fantasia e sogno, di grande intensità poetica . Il riferimento ad Arlecchino può essere considerato come un metaforico e ironico ritratto in assenza dell’artista. La scala, collocata sulla parte sinistra, allude invece al moto ascensionale dell’anima. Scrive Miró a tal proposito: «Noi catalani riteniamo che sia necessario tenere i piedi ben piantati a terra se si vuole compiere un salto. Il fatto di potermi posare a terra di tanto in tanto mi consente di saltare più in alto».

Siesta

Malgrado le composizioni di Miró si organizzino in maniera libera, giocosa e spontanea, esse non sono il frutto di un gesto istintivo e automatico, bensì il risultato di lunghe gestazioni e di meditate elaborazioni. Un esempio può essere individuato in Siesta (36), dipinto preceduto da una serie di disegni preparatori in cui l’artista studia i rapporti tra le forme, le linee e il colore per trovare equilibrio e armonia. Lo sfondo azzurro non è piatto e omogeneo, ma vibrante di luce, quasi trasparente. È percorso da linee e segni che rimandano a un alfabeto segreto, composto da lettere e numeri. Nel 1941 il Museum of Modern Art di New York dedica a Miró una vasta retrospettiva, che avrà grande impatto sulla generazione dei giovani artisti operanti oltreoceano, primo fra tutti su Arshile Gorky.

Dossier Arte - volume 3 
Dossier Arte - volume 3 
Dal Neoclassicismo ai giorni nostri