Giorgione

   2.  IL CINQUECENTO >> L'avvio del secolo tra Venezia e Firenze

Giorgione

È ignota la data di nascita del pittore, che tuttavia è possibile collocare tra il 1477 e il 1478 a Castelfranco Veneto, cittadina non lontana da Padova e da Treviso.
Secondo le poche note biografiche fornite da Giorgio Vasari nelle Vite, il pittore è presente a Venezia intorno al 1500 nel momento in cui è in città anche Leonardo, ed è membro della bottega di Gentile e Giovanni Bellini da cui apprende l’attenzione per il colore e per i paesaggi. In pochi anni è in grado di aprire a Venezia una sua bottega, nella quale si forma un altro grande della pittura veneta: Tiziano. Nel 1506, quando dipinge e firma la Laura conservata a Vienna, Giorgione è uno dei pittori più affermati di Venezia e a lui spetta, nella città lagunare, la diffusione del linguaggio del Rinascimento maturo. Gli giungono infatti persino delle commissioni da parte del Senato veneziano, una delle massime istituzioni della Serenissima: nel 1507 riceve un incarico per la decorazione del Palazzo Ducale e l’anno successivo un altro per gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi, fulcro commerciale di riferimento per i mercanti provenienti dalla Germania e operanti nella città lagunare. Nonostante questo grande successo, è oggi difficile ricostruire il catalogo delle sue opere, che non sono quasi mai firmate e spesso presentano soggetti dal significato complesso e dalla controversa interpretazione. L’attività artistica di Giorgione sarà interrotta dalla peste del 1510-1511 che fa strage in Italia e in varie parti d’Europa, come testimoniato da una lettera scritta nel 1510 dalla duchessa di Ferrara, Isabella d’Este, a un suo funzionario veneziano, nella quale si allude all’"heredità" di Giorgione, facendo capire che il pittore, a quella data, doveva essere già morto.

Sacra Famiglia Benson 

Come per molte delle opere di Giorgione, solo in anni recenti si è raggiunta la certezza dell’attribuzione della Sacra Famiglia Benson, così chiamata dal nome della collezione americana di cui faceva parte (74). La Vergine, san Giuseppe e il Bambino che inarca la schiena e alza il braccio destro indicando il viso della madre, sono raffigurati al centro. Le taglienti pieghe delle vesti richiamano i modi della coeva grafica tedesca d’Oltralpe. L’ambiente è a metà tra la grotta e la struttura architettonica: in muratura sono la panca alle spalle dei personaggi, il muro di fondo e l’arcata che si vede a destra; a sinistra è una semplice staccionata. Il paesaggio oltre l’arco è dominato da una possente torre e da uno sperone roccioso, di fronte ai quali è posto un albero per riequilibrare la composizione: fra questi elementi l’artista apre un varco verso l’orizzonte lontano. Carattere distintivo dell’opera è l’attenzione alla resa del paesaggio, messo in risalto dall’accostamento tra lo sfumato atmosferico dello sfondo naturalistico e la nuda e sobria solidità dell’interno, realizzato con una tecnica quasi da miniatore.

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Pala di Castelfranco 

La Pala di Castelfranco, così chiamata dal nome della cittadina veneta nel cui duomo è conservata, è l’unico dipinto di Giorgione destinato a un altare (75). Commissionata da un nobile comandante militare, Tuzio Costanzo, per adornare la cappella di famiglia dedicata a san Giorgio, ha la funzione di ricordare il figlio Matteo scomparso molto giovane. La composizione è piramidale: la Madonna con il Bambino in braccio è in alto, in posizione arretrata, seduta su un trono, a sua volta posto su un articolato piedistallo, nella cui parte inferiore è inserito lo stemma di famiglia del condottiero. Le vesti della Madonna hanno un panneggio dolce e sinuoso. I santi alla base della composizione sono Nicasio, patrono dei Cavalieri di Malta, ordine a cui apparteneva Matteo Costanzo (anche se talvolta è stato identificato in Liberale, il santo a cui è dedicata la chiesa della cittadina veneta) e Francesco, entrambi rivolti verso lo spettatore. È stato inoltre ipotizzato che la parte terminale del basamento che regge il trono, con lo stemma, possa alludere al sepolcro di Matteo Costanzo.
Il dipinto è caratterizzato dalla netta differenziazione tra la porzione superiore e quella inferiore, dove concettualmente e visivamente si contrappongono rispettivamente la resa della profondità ottenuta grazie al sapiente uso dei colori e la prospettiva geometricamente applicata. Il primo settore è definito da un parapetto rivestito di prezioso velluto rosso: appena dietro vi appare uno scorcio della campagna veneta, apprezzabile nella sua interezza grazie al punto di vista rialzato. A destra si vedono un sentiero, un bosco e due piccole figure, con lo sfondo delle colline e delle Alpi; a sinistra è un borgo fortificato dominato da un torrione di sapore medievale, sul quale è chiaramente visibile il Leone di San Marco, simbolo della Repubblica di Venezia. È questo sfondo che permette di capire la portata innovativa della pittura di Giorgione: si nota l’uso limitato di colori puri che vengono invece usati in scale ravvicinate di gradazioni, con l’obiettivo di restituire una composizione unitaria che tenga conto delle reciproche relazioni fra proprietà cromatiche degli oggetti e la luce. Si tratta dunque di un esempio della cosiddetta pittura tonale, cifra stilistica che marcherà a lungo la pittura veneziana, che unifica la scena attraverso l’accordo cromatico. La seconda porzione è caratterizzata da un pavimento a scacchiera con mattonelle bianche e nere, quasi a simulare un interno o un sagrato, che materializza con vividezza il reticolo prospettico.

I tre filosofi 

La tela è citata per la prima volta dal nobiluomo veneziano Marcantonio Michiel che, nel 1525, vede il dipinto in casa di Taddeo Contarini, a Venezia, e lo descrive come rappresentazione di tre filosofi (76). Marcantonio Michiel è un patrizio veneziano amante dell’arte e della letteratura, che nel 1530 scrive Notizie d'opere di disegno, un manoscritto in cui annota la collocazione e il soggetto delle opere che aveva visto a Venezia e in altre parti d'Italia nei decenni precedenti. A partire da questa citazione, i personaggi sulla destra sono stati identificati come tre personificazioni di altrettante fasi fondamentali della filosofia aristotelica: il nuovo aristotelismo rinascimentale padovano, l'averroismo (ossia una corrente della filosofia che si rifà alla dottrina aristotelica secondo l'interpretazione di Averroè, filosofo e scienziato arabo), e l'aristotelismo classico. L'aspetto del copricapo del personaggio al centro, di foggia orientaleggiante, avvalora questa tesi. Un'altra interpretazione è quella che vede nei tre personaggi la rappresentazione delle tre grandi religioni monoteiste, Ebraismo, Islam e Cristianesimo. Già nell'Ottocento, tuttavia, esisteva anche un'altra lettura, che indicava come protagonisti della composizione i re Magi, ipotesi poi ripresa anche in tempi recenti dal critico Salvatore Settis. Al di là di queste differenti ipotesi, la scena è immaginata all'interno di una grotta, forse un riferimento al mito della grotta del filosofo greco Platone (cioè la metafora della condizione umana e della difficoltà di conoscere la verità delle cose), come suggerirebbero il costone roccioso a sinistra e il pavimento, composto da tre strati digradanti. 
Alle spalle delle tre figure monumentali, si materializza un fondale vegetale che tende a sfoltirsi verso il centro, dove è presente un'apertura verso il paesaggio, anche in questo caso concepito come una delicata visione collinare con un casolare al centro. 

Laura 

Conosciuto con questo nome fin dal Seicento, a causa delle foglie d’alloro dietro al capo della donna effigiata, il dipinto è uno dei pochi datati e firmati da Giorgione (77).
Si è discusso se la figura femminile ritratta rappresenti Laura, la donna amata dal poeta trecentesco Francesco Petrarca, o se invece sia una raffigurazione della ninfa Dafne che, per sfuggire ad Apollo, si trasforma in una pianta d’alloro. Tuttavia, il seno nudo e la preziosa veste in pelliccia suggeriscono alla critica più recente l’identificazione in un’allegoria del matrimonio; la particolare restituzione della nudità e la presenza di un simbolo di virtù poetica quale l’alloro sono due elementi contrastanti, che rendono possibile anche ipotizzare che l’artista volesse rappresentare una delle diecimila cortigiane che vivevano a quell’epoca a Venezia. Un’altra ipotesi riconosce nella protagonista la stessa donna che ha posato per La tempesta, dipinta all’incirca nello stesso periodo. L’intensità dello sguardo e la particolare accuratezza con cui sono resi sia i dettagli del viso sia il mantello e le foglie d’alloro restituiscono un’immagine di estremo realismo, accentuata dalla presenza del leggerissimo panno bianco che avvolge la figura.

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La vecchia 

L’inserimento della Vecchia nel ristretto nucleo delle opere di Giorgione risale già al primo Cinquecento (78). Il dipinto è tradizionalmente identificato come un monito all’inesorabilità dello scorrere del tempo: il volto rugoso e la dentatura in cattive condizioni della donna, insieme al motto «col tempo» chiaramente leggibile nel foglio che tiene nella mano destra, rafforzano questa ipotesi. Tuttavia, più recentemente, si è ipotizzato che la tela raffiguri un elogio della vecchiaia vista come punto di raggiungimento della saggezza.
Il fondo scuro e uniforme fa sì che l’attenzione si concentri interamente sulla figura, posta dietro una sorta di davanzale: con grande realismo e un malcelato compiacimento per la resa degli aspetti antigraziosi, sono trattati, oltre al volto, anche i capelli scomposti, il copricapo e le vesti, come anche la morfologia della mano destra.
La restituzione pittorica della carne, segnata dagli anni, stabilisce un forte legame con il realismo di alcune opere del pittore tedesco Albrecht Dürer (► p. 326), prima tra tutte l’Avarizia: è stato ipotizzato recentemente che quest’ultima opera dell’artista tedesco e il dipinto di Giorgione siano elaborazioni autonome derivate da un perduto prototipo comune di Leonardo, maestro indiscusso nel disegnare teste di persone anziane dall’aspetto più o meno caricaturale.

La tempesta 

È uno dei più conosciuti e misteriosi dipinti del Rinascimento (79): il suo "titolo" fu proposto dal già citato Marcantonio Michiel che nel 1530 indicava che la tela faceva parte della collezione del nobiluomo Gabriele Vendramin. Probabilmente fu realizzata da Giorgione in un arco temporale compreso tra il 1505 e il 1510. In primo piano sono due figure, una maschile a sinistra e una femminile a destra, forse rappresentanti Adamo ed Eva (che sta allattando Caino), cacciati dal Paradiso terrestre. Il luogo è però reso molto reale dalla città sullo sfondo, le cui costruzioni richiamano i coevi edifici delle città venete, con la porta, i comignoli, il torrione che riecheggia precedenti medievali, l’edificio a cupola. Al centro scorre un ruscello, identificabile probabilmente col Tigri, uno dei corsi d’acqua del Paradiso, scavalcato da un semplice ponte in legno. Le rovine sulla sinistra, due arcate cieche, complete di lesene e capitelli, e una coppia di colonne rappresenterebbero la morte. La presenza di architetture classiche dimostra inoltre come Giorgione sia perfettamente a conoscenza del dibattito architettonico veneziano di quegli anni. L'identificazione del tema di questo dipinto è oltremodo controversa: l’interpretazione che vede rappresentata la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre  è oggi una delle più accreditate accanto a un’altra che, invece, riconosce nella Tempesta il primo "capriccio" veneziano della storia della pittura, ossia una raffigurazione che accosta elementi bizzarri e insoliti senza un vero e proprio significato, oltre due secoli prima degli esempi settecenteschi dei veneziani Canaletto e Francesco Guardi. È altresì possibile ipotizzare che la difficoltà nell’individuare con chiarezza il soggetto della tela sia legata anche a una precisa richiesta della committenza, colta e raffinata, amante di soggetti eruditi e di schemi iconografici inconsueti. 
Quello che maggiormente colpisce nella composizione di Giorgione è il ruolo preponderante della raffigurazione del paesaggio rispetto alle figure umane. La scelta di un soggetto di questo tipo permette infatti di esplorare nuove forme di restituzione dello spazio naturale: l’unità dell’immagine non è più affidata al reticolo prospettico, ma è ottenuta grazie alla resa delle qualità atmosferiche dello spazio, con una puntuale attenzione agli effetti della luce sugli oggetti e sulle differenti proprietà rifrangenti dei vari elementi, creando una vera e propria fusione atmosferica delle forme.

Dossier Arte - volume 2
Dossier Arte - volume 2
Dal Quattrocento al Rococò