Dossier Arte - volume 2

   1.  IL QUATTROCENTO >> La diffusione del linguaggio rinascimentale

Le Allegorie

Nel 1459 11 filosofo Marsilio Ficino fonda l’Accademia platonica presso la villa medicea di Careggi: qui, secondo lo spirito di recupero della tradizione filosofica classica che va sotto il nome di neoplatonismo si traducevano con attenzione filologica le opere platoniche e si coltivava lo studio del grande filosofo greco attualizzandone il messaggio nella Firenze quattrocentesca. È in questo raffinato contesto culturale, che gravita intorno alla corte medicea, che Botticelli concepisce le sue opere più famose.
Nel cercare le fonti iconografiche e simboliche di alcuni dei più celebri quadri del maestro fiorentino si ricorre spesso, non a caso, ai testi e al pensiero degli intellettuali neoplatonici fiorentini che, attingendo alle grandi fonti letterarie e filosofiche dell’antichità, tendevano a ricreare a Firenze una nuova età dell’oro, quasi il capoluogo toscano fosse una "novella Atene". Fra questi dipinti si annoverano la Primavera e la Nascita di Venere, due famose allegorie, ossia scene in cui ogni personaggio della mitologia antica è scelto per i suoi significati simbolici, in un insieme di grande suggestione. Di questi capolavori restano incerte ancora oggi sia la definizione iconografica e iconologica - relativa cioè al significato sotteso alle raffigurazioni - sia la datazione: si tratta di dipinti che dovevano "parlare" a una ristretta cerchia di committenti e osservatori e, con il passare dei secoli, si è probabilmente persa la chiave per interpretarli.
Essi appaiono ideati, per alcuni aspetti, in un modo assai distante dai princìpi fondamentali che avevano caratterizzato le idee della prima generazione del Quattrocento fiorentino. Rispetto a Masaccio e Donatello cambia non solo il pubblico di riferimento, più selezionato ed elitario, ma anche il modo di concepire la composizione: non più una sintesi rigorosa ed efficace di verità spaziale, definizione plastica e piena consapevolezza della propria condizione umana ma una sorta di favola elegante, senza profondità spaziale.

La Primavera

Secondo quanto indicano le fonti, la tavola (147) fu realizzata per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (1463-1503), cugino di secondo grado di Lorenzo il Magnifico, di circa quindici anni più giovane: nei primi inventari delle collezioni di famiglia il dipinto compare nel palazzo di via Larga prima di essere trasferito nella Villa di Castello, dove Vasari riferisce di averlo visto nel 1550, accanto alla Nascita di Venere.
Nel giardino delle Esperidi, una sorta di abside naturale con alberi di aranci colmi di frutti, su un prato disseminato di fiori, ci sono nove personaggi: gli studi ottocenteschi hanno permesso la loro identificazione ma resta ancora difficile cogliere il senso complessivo del dipinto.
Da destra verso sinistra, Zefiro, vento di primavera che piega gli alberi, sta inseguendo la ninfa Clori, che si trasforma in Flora, la personificazione della Primavera, che veste un abito fiorito e dal grembo sparge fiori in terra. Al centro si trova Venere, sopra la quale vola il figlio Cupido, pronto a lanciare le sue frecce, mentre a sinistra le tre Grazie sembrano quasi intrecciate in una danza e sono vestite di veli leggerissimi. All'estrema sinistra Mercurio, coi calzari alati, scaccia col bastone le nubi per preservare un'eterna primavera nel giardino. Se dunque è abbastanza chiara l'identificazione dei personaggi della mitologia classica, sfuggono ancora gli altri livelli di lettura dell'opera, legati alle vicende contemporanee e alla volontà del committente: è stato ipotizzato che dietro le figure si celino personaggi fiorentini dell'epoca e un'allegoria del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici e Semiramide Appiani, oppure si tratti di una rappresentazione idealizzata dell'età medicea, intesa come età dell'oro, sotto la guida di Lorenzo di Pierfrancesco e non del cugino rivale Lorenzo il Magnifico.
Dal punto di vista allegorico la Primavera rappresenterebbe il manifesto del sodalizio filosofico e artistico dell'Accademia di Careggi e una metafora dell'amore, nei suoi diversi gradi, che permette all'uomo di elevarsi dal mondo terreno a quello spirituale. Al di là La diffusione del linguaggio rinascimentale Sandro Botticelli di queste speculazioni, resta la raffinatezza della composizione di Botticelli, in cui tutte le figure sono delineate da una linea morbida ed elegante, i personaggi si muovono malinconici e leggiadri, in una bellezza ideale e fuori dal tempo. 

Nascita di Venere

Analoghi valori tornano nella Nascita di Venere (148). La dea, nata dalla spuma del mare, approda a un’isola, che potrebbe essere Citera o Cipro, sospinta dai venti e accolta da una ninfa che le offre un mantello fiorito.
La dea, dalla carnagione chiara e delicata, riprende la tipologia di una Venere classica, la cosiddetta Venere pudica, che si copre il corpo con le mani e che Botticelli poteva aver visto nelle collezioni dei Medici. La sua posizione, in bilico nel punto più instabile della conchiglia, è priva di ogni possibile realismo: lo stesso vale per il paesaggio, con le onde del mare che si increspano regolari e irreali. I colori chiari e delicati, senza chiaroscuro, hanno tonalità smorzate, accentuate anche dal supporto della tela (al posto delle tradizionali tavole) .
Completamente scomparsa è la prospettiva geometrica come struttura razionale dello spazio: le figure fluiscono in ritmo libero, quasi prive di masse e volumi e si dispongono, come una linea morbida e continua, solo in primo piano.

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Le opere religiose e la crisi spirituale

Durante questo periodo, accanto alle Allegorie, Botticelli realizza anche opere dedicate alla pubblica devozione per le più importanti chiese cittadine, tra le quali spicca l’imponente pala dipinta nel 1487 per la Chiesa di San Barnaba a Firenze.

Pala di San Barnaba

Il soggetto di questo grandioso dipinto è la Madonna col Bambino in trono fra quattro angeli e santi (149); sullo sfondo di un’architettura ancora brunelleschiana è raffigurata la Vergine in trono con il Bambino a cui gli angeli, aprendo una pesante tenda, mostrano i simboli della Passione. In basso, su un pavimento a dischi marmorei scorciato in prospettiva, si trovano sei santi dagli sguardi assorti, che creano un’atmosfera psicologica sospesa tra la malinconia e una sottile inquietudine: Giovanni Battista, dall’espressione languidamente mistica, san Michele Arcangelo, bellissimo nella sua lucida armatura; anche la Vergine appare assorta e distante.
L’atmosfera fiabesca e sospesa che caratterizza sia le allegorie sia le pale religiose di questi anni scompare nelle ultime opere: lo stile di Botticelli muta completamente e l’artista produce dipinti dai tratti convulsi, privi della fluida continuità dei capolavori precedenti e profondamente legati al difficile momento che Firenze sta attraversando. 
Dopo l’arrivo nel 1490 di Fra’ Girolamo Savonarola presso il Convento di San Marco, infatti, il clima spirituale e quello politico di Firenze cambiano rapidamente: il frate incita alla povertà e a una nuova moralità e le sue parole hanno una sensibile influenza anche sulla produzione artistica di Botticelli, che in breve muta radicalmente la sua pittura, nei temi, nei soggetti trattati e negli accenti stilistici. Le opere degli ultimi quindici anni della sua attività appaiono legate a questa crisi profonda vissuta dalla società fiorentina dopo la morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492 e che culminerà nel 1494 nella cacciata dei Medici dalla città.

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Compianto sul Cristo morto

Questo intenso dipinto (150), eseguito probabilmente alla fine del secolo, fu realizzato per la Chiesa di Santa Maria Maggiore a Firenze per un committente che apparteneva ai seguaci di Savonarola, i cosiddetti "Piagnoni". Le figure dei dolenti e delle pie donne, avviluppate in un intreccio drammatico, sembrano sul punto di cadere per il dolore sul corpo di Cristo, mentre alla sommità del gruppo si erge un ispirato Nicodemo, che sullo sfondo buio del sepolcro alza lo sguardo al cielo e solleva le mani con la corona di spine e i chiodi della croce.

Natività mistica

Un’ulteriore svolta stilistica appare nella Natività mistica (151), ultimo capolavoro del pittore, destinato forse alla devozione privata di una famiglia nobiliare fiorentina. Al centro si trova la grotta della Natività, aperta sul retro per lasciar intravedere un boschetto e sormontata da una tettoia di paglia retta da tronchi, in cui la Vergine e Giuseppe adorano il Bambino. Attorno, come in una danza ritmata, un angelo vestito di rosa accompagna i tre re Magi, mentre uno vestito di bianco indica il Bambino a due pastori. In basso, ai piedi di un sentiero tra rocce scheggiate, tre angeli abbracciano tre figure coronate d’alloro, mentre cinque diavoletti fuggono spaventati. Sopra la tettoia cantano tre angeli, mentre in alto, su fondo oro, altri dodici angeli danzano in cerchio tenendosi per mano. Innovando profondamente i soggetti della Nascita e dell’Adorazione, Botticelli allude alla seconda venuta di Cristo, ossia al suo ritorno prima del Giudizio universale, con un ripiegamento verso forme drammatiche e significati escatologici tipico dell’ultima fase del pittore. In questo senso, lo stile è volutamente arcaicizzante: le figure hanno proporzioni diverse in base alle loro gerarchie e si dispongono in maniera innaturale, senza più rispettare la rigida geometria prospettica della cultura fiorentina del primo Quattrocento, come se lo spazio brunelleschiano non fosse più in grado di contenere le tensioni politiche e spirituali vissute dal pittore e dalla città in cui opera.
Gli ultimi anni del più famoso pittore fiorentino del XV secolo non saranno facili: vecchio, malato e in cattive condizioni economiche, Botticelli assiste alla rapida dissoluzione di quel mondo fiabesco e dorato alla cui affermazione aveva tanto contribuito.

Dossier Arte - volume 2
Dossier Arte - volume 2
Dal Quattrocento al Rococò