Giotto

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Giotto

Un artista "poco conosciuto"?

Giotto di Bondone (Vespignano presso Vicchio 1265/1266 ca.-Firenze 1337) è stato celebrato, fin da quando era ancora in vita, come il grande rinnovatore della pittura italiana.
Il suo nome è citato in svariati documenti d’archivio ed è stato esaltato da Dante, Petrarca e Boccaccio e da altri numerosi scrittori. Nessuno di questi, tuttavia, cita in modo preciso opere oggi conosciute. Inoltre, solo tre dipinti recano la sua firma e – secondo un principio ben diverso dal nostro ideale di autografia – si tratta di tavole in cui è evidente il contributo dei collaboratori: come tutti gli artisti del suo tempo, Giotto lavorava infatti con una vasta schiera di aiuti organizzati in una bottega da lui diretta. Di nessuna sua opera si conosce la data di esecuzione, e solo gli affreschi della Cappella degli Scrovegni possono essere collocati con buona approssimazione negli anni 1303-1305.
Definire Giotto un artista "poco conosciuto" è quasi paradossale, ma certamente molte questioni restano aperte. Le innovazioni di Giotto riscossero un enorme successo. Tutti gli artisti del Trecento ne furono influenzati o almeno si confrontarono con le sue proposte, anche perché il pittore lavorò non solo a Firenze, ma anche ad Assisi, Roma, Rimini, Padova, Napoli, Bologna, Milano e forse anche Verona. Con il suo lavoro Giotto raggiunse una certa prosperità economica, che lo portò a compiere investimenti in terreni, ma anche in telai che affittava agli artigiani.

«Di greco in latino»

Le famose terzine dantesche citate a proposito di Cimabue hanno dato origine alla tradizione che considera Giotto allievo di Cimabue, arricchita da motivi come quello, notissimo, secondo cui il grande pittore avrebbe scoperto il pastorello Giotto mentre disegnava una pecora su un masso.
L’aneddoto non ha fondamento storico, ma una parte della critica recente ritiene assai probabile che Giotto abbia ricevuto i primi insegnamenti da Cimabue, che era il più importante tra i pittori attivi a Firenze nel periodo della sua formazione.
All’inizio del Quattrocento Cennino Cennini, pittore e autore del Libro dell’arte, un manuale di tecnica artistica, diede un’incisiva definizione dell’arte di Giotto, che «rimutò l’arte del dipingere di greco in latino, e ridusse al moderno». In altri termini, con Giotto si passa da una pittura dominata dalla tradizione bizantina (la "maniera greca", alla quale appartiene anche Cimabue) a una concezione occidentale e moderna, che recupera il naturalismo dei modelli classici dell’arte romana ("latina").
Le figure di Giotto sono persone reali che popolano spazi reali, costruiti in modo organico e razionale. Non si può ancora parlare di prospettiva, termine con cui si indica la restituzione della terza dimensione sul piano mediante precisi procedimenti geometrici, introdotti soltanto nel Quattrocento in seguito alle ricerche di Filippo Brunelleschi, ma di spazialità o spaziosità. I corpi e gli oggetti, grazie a un uso coerente del chiaroscuro e all’individuazione di un’unica fonte di luce, assumono consistenza plastica e naturalezza.

Gli esordi nella Basilica superiore di Assisi

Una testimonianza fondamentale della prima fase di Giotto è costituita dagli affreschi della Basilica superiore di Assisi. Come gli altri artisti che hanno lavorato nella basilica prima di lui (tra cui, come abbiamo visto, Cimabue), Giotto racchiude le varie scene in cornici dipinte che sottolineano le forme dell’architettura reale. Questa soluzione conferisce alla decorazione una complessiva unità visiva, ma non certo stilistica: le opere di Giotto rappresentano infatti un mutamento decisivo rispetto agli affreschi precedenti.

Storie di Isacco

Intorno al 1290 Giotto realizza sul registro superiore della navata della chiesa due scene d’interno in cui viene narrato l’episodio biblico di Giacobbe che riesce a ingannare il padre Isacco e a sostituire il fratello Esaù nei diritti di primogenitura (68). La prima innovazione introdotta dall’artista per realizzare questi affreschi riguarda la tecnica: il lavoro è organizzato per giornate, consentendo una migliore conservazione del dipinto; si può perciò parlare di affreschi nel senso proprio del termine, cioè di pittura eseguita sull’intonaco ancora fresco. Inoltre, lo spazio pittorico è definito in modo da suggerire la terza dimensione, sia per quanto riguarda l’architettura e gli oggetti, sia per la disposizione dei personaggi. Il chiaroscuro costruisce le forme e conferisce loro un’effettiva consistenza plastica grazie all’unificazione della fonte di luce.

Storie di san Francesco

Dopo altri affreschi nei registri superiori, Giotto esegue, con la sua bottega, le Storie di san Francesco (1290-1292 circa), un ciclo di ventotto scene che occupa il registro inferiore della navata e illustra una scelta di episodi della Legenda Maior di san Bonaventura, considerata dall’Ordine francescano l’unica versione autorizzata della vita del santo. Con questo scritto si sanzionava un’interpretazione della figura di Francesco che lo integrava nella Chiesa ufficiale, dando particolare risalto agli episodi di conciliazione con il potere e smussando gli aspetti più rivoluzionari della sua predicazione. Ogni riquadro è commentato da una sintetica didascalia in latino, e sotto le scene è raffigurato un velario in tessuto. L’architettura dipinta che incornicia i singoli riquadri riprende quella utilizzata nel resto della Basilica, ma è più complessa; un motivo a colonne tortili assicura la divisione verticale tra una scena e l’altra.
In questo ciclo il pittore mette in scena composizioni complesse, spesso affollate di personaggi, come nella Rinuncia agli averi (69), dove Francesco si spoglia di ogni ricchezza e perfino delle vesti in una piazza di Assisi. Si nota qui il contrasto tra il padre, infuriato e trattenuto a forza, e il giovane santo, coperto a malapena dal mantello del vescovo che lo ha preso sotto la propria protezione. Gli edifìci, simili a quinte di un palcoscenico, determinano lo spazio entro il quale si dispongono le figure.
Spesso la raffigurazione delle architetture costituisce l’elemento più interessante di una scena. Nel caso del Presepe di Greccio (70), alcuni personaggi sono dipinti in modo un po’ convenzionale, mentre l’interno della chiesa e gli arredi sono riprodotti con grande attenzione e ricordano da vicino le soluzioni ideate da Arnolfo e la decorazione cosmatesca. L’affresco fornisce una documentazione preziosa sull’arredo delle chiese del Duecento: la scena si svolge nel presbiterio, l’altare è sovrastato da un ciborio e sul tramezzo si trovano un ambone (il podio con leggio per i sacri testi) e una croce dipinta vista dal retro, che pende in avanti. Lo sfondo blu, qui come altrove, non rappresenta il cielo, ma costituisce l’equivalente dell’oro usato nelle tavole.
Anche nella Predica davanti a Onorio III (71) il pittore realizza un vero pezzo di bravura nelle volte a crociera dipinte a stelle dorate (analoghe a quelle che coprono alcune delle campate della Basilica).
Un aspetto della realtà per cui Giotto dimostra minor interesse è il paesaggio. Il miracolo dell’assetato (72), dipinto nella controfacciata, riempie di ammirazione per l’intensità psicologica con cui sono colti gli atteggiamenti e le espressioni dei quattro personaggi (il santo in preghiera, i due frati che conversano un po’ dubbiosi, il viandante assetato che si slancia a bere); eppure le rocce sono schematiche e gli alberi fuori scala. Questo modo di porsi di fronte alla natura richiama alla mente un passo di Cennino Cennini: «Se vuoi pigliare buona maniera di montagne, e che pàino [sembrino] naturali, togli di pietre grandi e che sieno scogliose e non polite; e ritra’ne del naturale, dando i lumi e scuro, secondo che la ragione t’acconsente».

Giotto o non-Giotto

È tuttora viva, tra i critici, la discussione riguardo alla paternità degli affreschi della Basilica superiore di Assisi. Fin dall’Ottocento la critica tedesca e poi quella angloamericana hanno messo in dubbio l’attribuzione a Giotto. Questa tesi, chiamata "separatista" o del "non-Giotto", si fonda soprattutto sulla distanza stilistica fra le Storie di Isacco e le Storie di san Francesco, da una parte, e i dipinti certi di Giotto, come gli affreschi degli Scrovegni, dall’altra. Chi invece attribuisce anche gli affreschi di Assisi al maestro fiorentino, come gran parte degli studiosi italiani, ammette le differenze rispetto a quelli di Padova, ma le spiega facendo riferimento all’epoca di esecuzione e alla non ancora raggiunta maturità del pittore. Infatti, come confermano importanti testimonianze documentarie, la decorazione della basilica superiore risale al pontificato di Niccolò IV: quindi Giotto lavora ad Assisi giovanissimo, dieci-quindici anni prima che a Padova. Per confermare la datazione delle Storie di san Francesco poco dopo il 1290 è stato esaminato anche l’abbigliamento dei personaggi, e si è fatto notare che qui il santo porta la barba, un particolare che corrisponde alla verità storica, ma che scompare dall’iconografia francescana a fine Duecento. Ma se invece gli affreschi di Assisi non fossero di Giotto, chi potrebbe averli dipinti, e quando? L’autore sarebbe il vero rinnovatore della pittura italiana o solo un imitatore di Giotto? A queste domande sono state date risposte diverse, ma spesso orientate ad attribuire il ciclo a pittori romani e a dar loro il merito della nascita di una nuova arte.

Dossier Arte - volume 1 
Dossier Arte - volume 1 
Dalla Preistoria al Gotico