Due le parole tematiche della Gerusalemme: «orrore» e «languore». «Orrore» è la paura e il desiderio della paura, la voluttà dei fantasmi e del passato; sono la notte, le fiamme, le selve, gli spazi delle caverne e dei cieli, le catastrofi naturali, le lontananze nordiche, le antichità di Giudea e d’Egitto. «Languore» è il desiderio e la paura del desiderio, il serpeggiare della morte, la caducità della giovinezza e dei fiori, la nostalgia dell’età dell’oro.
Il mondo creato è per il Tasso un teatro. La falsità scenica non contraddice al verosimile del poema; la contraddizione è fra la nobiltà solenne della scenografia epica e il lirismo angoscioso e febbrile fra il cerimoniale e i sentimenti, contraddizione che certo il Tasso soffrì acuta nella sua vita di cortigiano e che è la fonte stessa della sua poesia anche nelle sue pagine più alte: l’invocazione di Erminia alle tende latine, l’alba che gela sul sangue di Clorinda, e sul mantello di Rinaldo le tenebre della foresta dove Tancredi è sviato dalle malie.
Le passioni amorose o le diaboliche potenze che disviano i cavalieri non erano che l’involontaria allegoria del sogno di dolcezza o d’angoscia, di orrore e di languore che disvia il poeta dalla costruzione del proprio monumento epico. E in realtà si potrebbe dire che, per il Tasso, volto al raggiungimento della poesia come «poema», la lotta per conquistare Gerusalemme fu tutt’uno con la lotta per l’alloro poetico. All’interno del poema si rifrange più volte quella contraddizione vitale, per cui la felicità è il peccato, e quindi
anche il canto è peccato, vedi il simbolico percorso dei due guerrieri verso Rinaldo, attraverso le tentazioni del giardino d’Armida; e tutto il sublime sedicesimo canto (le delizie di Armida e il ravvedersi di Rinaldo), che è un canto di sirene. […]
Se si dovesse dunque concludere con un giudizio di stile tradizionale, si dovrebbe dire che la Gerusalemme è, se non tutta, in gran parte opera di poesia lirica, situata sul percorso che dal Petrarca porta al Foscolo e al Leopardi; e tuttavia non è, come il Petrarca e l’Ariosto o lo Shakespeare, inesauribile. Perché la coscienza formale e la sicurezza letteraria del Tasso, mentre mai vengono meno nell’esecuzione dei particolari, e tutto fa, e vinta
è la materia del lavoro, non dominano però i momenti di più emotiva ispirazione: che insomma la sua più alta poesia, quella che più ci commuove e ci turba, proprio perché coincide con i momenti mistici e subconsci del suo animo, finisce a essere, almeno in parte, una nostra aggiunta. Parrebbe insomma che la sorte di quella poesia dovesse essere legata per sempre alla interpretazione romantica. Nei momenti supremi della tristezza, della sensualità, del languire e dell’orrore, Tasso è agito dai suoi fantasmi, al di là delle stesse possibilità della poesia.