Machiavelli torturato
Il ritorno dei Medici a Firenze
e la punizione inflitta ai cospiratori
Il 16 settembre 1512, dopo diciotto anni di esilio, i Medici riprendono possesso di Firenze. Confinato Pier Soderini, il destino di Machiavelli, che dell’ex gonfaloniere è stato il braccio destro, pare segnato. Tuttavia, fiducioso di essere reputato un servitore dello Stato al di sopra delle parti, Machiavelli prende carta e penna per invitare i nuovi governanti, nel breve scritto
Ricordo ai Palleschi (così sono chiamati i sostenitori dei Medici, con riferimento allo stemma di famiglia contenente sei sfere), a diffidare dei “tifosi” dell’ultima ora, quei notabili che hanno abbracciato la causa medicea saltando sul carro dei vincitori.
Si dice che Machiavelli sia in procinto di riuscire nel suo intento: conservare il posto nella cancelleria fiorentina. Ma, nel bel mezzo di un faticoso lavorio diplomatico, il suo nome spunta su una lista compromettente intercettata dai Medici. La lista è compilata da due giovani fiorentini, Pier Paolo Boscoli e Agostino Capponi, desiderosi di riunire gli oppositori – veri e presunti – al nuovo regime per preparare il terreno a una restaurazione repubblicana: una congiura, insomma.
Si tratta però di una congiura alla buona: una goffa, maldestra ragazzata, come la giudica dopo averla scoperta lo stesso Giuliano de’ Medici, il figlio di Lorenzo il Magnifico, all’epoca signore di Firenze. Giuliano addirittura chiede clemenza nei confronti dei cospiratori. I due, però, vengono processati e giustiziati. E Niccolò, pur dichiaratosi all’oscuro di tutto, viene imprigionato e interrogato più volte. Protesta la propria innocenza, ma viene condannato a «sei tratti di fune».
In che cosa consiste questa tortura? Al malcapitato vengono legate le mani dietro alla schiena, poi lo si appende per i polsi a una carrucola, che lo solleva per un certo numero di “tratti” (cioè di sequenze) e infine lo fa piombare rovinosamente a terra. Recluso in cella, Machiavelli non si umilia né confessa ciò che non ha commesso. Ha però dalla sua una coincidenza fortunata. In quei giorni il fratello di Giuliano, Giovanni de’ Medici, sale sul soglio pontificio con il nome di Leone X: ne segue un’amnistia generale grazie alla quale Niccolò viene liberato l’11 o il 12 marzo 1513. Il giorno dopo scrive una lettera all’amico Francesco Vettori, ambasciatore a Roma, per ringraziarlo dei suoi buoni uffici, garantendo che starà più attento nel parlare. A un uomo dalla lingua tagliente come la sua il proposito deve essere costato molta, moltissima fatica.