Le origini e il Duecento – L'autore: Dante Alighieri

il carattere

Una personalità decisa

È Dante stesso ad averci lasciato il ritratto del suo carattere, tale che non potremmo desiderarlo più vivo, preciso, completo, sincero. La sua indole traspare infatti dall’insieme delle opere, ma specialmente dalla Divina Commedia, alla quale davvero, sotto questo aspetto, meglio calzerebbe l’appellativo di “Danteide”, che l’autore – secondo l’ipotesi dello scrittore settecentesco Gasparo Gozzi – pensò più volte di usare come titolo. Tutti i tratti personali, in parte desumibili anche dalle opere minori e dalle poche notizie biografiche certe, nella Commedia si dispiegano compiutamente e si riassumono efficacemente.


Tristezze dell’infanzia
Da bambino, Dante non ha tutto l’affetto di cui necessita. Ferite precoci lo hanno segnato: sua madre muore quando lui ha solo sei anni e suo padre si risposa presto con un’altra donna, da cui avrà tre figli.
Con il padre Dante non ha alcuna confidenza: è un uomo severo e chiuso; si dice che presti denaro a usura. Ciò pesa come una vergogna sul giovane Dante, che invece mitizza il trisavolo Cacciaguida, morto nel 1147 combattendo nella seconda crociata (lo incontreremo nei canti centrali del Paradiso), sognando di rinnovare la gloria del suo blasone.


La forza di volontà
Dalla Divina Commedia emerge l’immagine di un uomo sincero, schietto, diretto, dotato di una prodigiosa energia nel volere e nel sentire, di una coscienza straordinariamente austera ed elevata, dalla sfera affettiva a quella etica, da quella intellettuale a quella religiosa. Il poeta stesso si fa proclamare da Virgilio «alma sdegnosa» (Inferno, VIII, 44): sdegnosa nei confronti di tutta la viltà, corruzione e stoltezza di cui è pieno il mondo. Ma lo sdegno esprime solo la reazione del poeta di fronte al disordine generale dell’umanità: la sostanza della sua anima è eroica. Come il suo Ulisse, egli sente il dovere categorico di seguire con tutte le forze «virtute e canoscenza» (Inferno, XXVI, 120), lottando, con incrollabile volontà, contro ogni impedimento della natura e contro ogni avversità della vita. Mira costantemente a quella totale perfezione dell’essere che, a suo modo di vedere, l’uomo può raggiungere grazie alle doti elargitegli da Dio e per la quale la persona diviene – diremo con parole sue – «quasi […] un altro Iddio incarnato» (Convivio, IV, 21, 10).


L’animosità
Ma gli altri lineamenti che concorrono a comporre il ritratto ci fanno vedere l’uomo non solo con la sua ferma volontà di continua ascesa spirituale, ma anche con i suoi atteggiamenti di più comune umanità, con i suoi limiti e difetti.
Un’ombra insistente sull’immagine idealizzata di Dante è proiettata, anzitutto, dalla violenza in cui più di una volta trascende la sua indignazione. Occorre dire però che nel poema l’impeto e l’ira di Dante non appaiono mai, anche dove entra certamente il risentimento (per esempio nell’odio e nel disprezzo contro Bonifacio VIII e Filippo Argenti), come sfogo di astio e vendetta personale, ma come reazione del sentimento di giustizia offeso. Comunque, questo lato del suo carattere risulta innegabile: fattosi giudice e giustiziere, dimostra di essere più incline alla collera che alla misericordia evangelica; e si può dire che ignori la virtù del perdono.


L’alto sentire di sé
Un altro dei lineamenti in qualche misura controversi che si rivelano nella Divina Commedia è la superbia per la consapevolezza della sua «altezza d’ingegno» e, compagno di questa consapevolezza, un insopprimibile desiderio di gloria. Varie sono le testimonianze al riguardo (per esempio da parte di Giovanni VIllani o Giovanni Boccaccio) ma basti il fatto che Dante stesso nel Purgatorio (XIII, 136-138) riconosce la propria superbia. E la superbia è l’unico dei peccati che confessò esplicitamente.

I colori della letteratura - volume 1
I colori della letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento