analisi del testo
Melchisedech e i tre anelli
Prima giornata, 3
Prima giornata, 3
Melchisedech giudeo con una novella di tre anella cessa un gran pericolo dal Saladino apparechiatogli.
35 consuetudine dello anello sapevano, sì come vaghi ciascuno d’essere il più onorato
tra’ suoi, ciascun per sé, come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio,
che quando a morte venisse a lui quello anello lasciasse. Il valente uomo, che
parimente tutti gli amava né sapeva esso medesimo eleggere10 a quale più tosto
lasciar lo volesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare:
40 e segretamente a un buon maestro ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti
al primiero, che esso medesimo che fatti gli aveva fare appena conosceva qual si
fosse il vero; e venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de’ figliuoli.
Li quali, dopo la morte del padre, volendo ciascuno la eredità e l’onore occupare
e l’uno negandola all’altro, in testimonanza di dover ciò ragionevolmente fare
45 ciascuno produsse fuori il suo anello; e trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro, che
qual fosse il vero non si sapeva cognoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero
erede del padre, in pendente: e ancor pende. E così vi dico, signor mio, delle tre leggi
alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste: ciascun la sua
eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti dirittamente11 si crede avere e fare,
50 ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione.»
Il Saladino conobbe costui ottimamente esser saputo uscire del laccio12 il quale
davanti a’ piedi teso gli aveva, e per ciò dispose d’aprirgli il suo bisogno e vedere
se servire il volesse; e così fece, aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare, se
così discretamente, come fatto avea, non gli avesse risposto.13 Il giudeo liberamente
55 d’ogni quantità che il Saladino il richiese il servì, e il Saladino poi interamente
il sodisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per suo amico l’ebbe
e in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne.
1 Riassumi la novella in circa 5 righe.
2 Fai una parafrasi del testo da Il Saladino, il valore del quale fu tanto (r. 3) a o la giudaica o la saracina o la cristiana (r. 16).
3 In ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero (rr. 40-41) chi è il soggetto? Di che cosa si parla?
4 Che cosa vuol dire la frase ancora ne pende la quistione (r. 50)?
5 Qual è il registro linguistico utilizzato nella novella? Perché questa scelta?
6 Che tipo di sintassi usa Boccaccio?
7 Fai un breve confronto tra i due personaggi della novella. Quali valori rappresentano? Ci sono analogie e differenze?
Sviluppa l’argomento in forma di saggio breve utilizzando i documenti forniti. Nella tua argomentazione fai riferimento a ciò che hai studiato e alle tue conoscenze.
La ruota della fortuna in un manoscritto medievale.
Artù sulla ruota della fortuna, miniatura, 1316 ca. Londra, British Library.
In questi versi Dante elabora una lunga riflessione su come opera la fortuna.
«Maestro mio»,1 diss’io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
69 che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».2
E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
72 Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.3
Colui lo cui saver tutto trascende,4
fece li cieli e diè lor chi conduce5
75 sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
78 ordinò general ministra e duce6
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
81 oltre la difension7 d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
84 che è occulto come in erba l’angue.8
Vostro saver non ha contasto a lei:9
questa provede, giudica, e persegue
87 suo regno come il loro li altri dèi.
Dante Alighieri, Inferno, VII, 67-87
Francesco Petrarca riflette sugli anni passati in cui ha amato Laura, ormai morta.
Quand’io mi volgo in dietro a mirar gli anni
c’hanno fuggendo i miei penseri sparsi,1
e spento ’l foco,2 ove agghiacciando io arsi,
4 e finito il riposo pien d’affanni,
rotta la fé de gli amorosi inganni,3
e sol due parti d’ogni mio ben4 farsi,
l’una nel cielo, e l’altra5 in terra starsi,
8 e perduto il guadagno de’ miei danni,
i’ mi riscuoto, e trovomi sì nudo,
ch’i’ porto invidia ad ogni estrema sorte:
11 tal cordoglio e paura ho di me stesso.
O mia stella, o fortuna, o fato, o morte,
o per me sempre dolce giorno e crudo,6
14 come m’avete in basso stato messo.
Francesco Petrarca, Canzoniere, 298
Nella Conclusione della Seconda giornata del Decameron si parla dell’argomento della Terza, nella quale sarà evidente il contrasto tra fortuna e industria.
Perché sarà ancora più bello [...] che sopra uno de’ molti fatti della fortuna si dica, e ho pensato che questo sarà: di chi alcuna cosa molto disiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse.
Una riflessione di Alberto Moravia sulla novella di Andreuccio da Perugia.
In realtà il Boccaccio vagheggiava fortuna e sfortuna con eguale intensità; e questo perché la fortuna e la sfortuna non sono che le due facce del caso, sola divinità che, scomparse tutte le altre, risplenda nel cielo sereno del Decamerone. Il caso per il Boccaccio tiene il luogo del fato nelle tragedie greche; ma più che a scetticismo, questa ammirazione del caso si deve, come tutto il resto, al gusto per l’azione e per l’avventura. Che cos’è infatti il caso nelle novelle del Boccaccio se non l’espressione di un rapito vagheggiamento della molteplicità della vita? Fidano nel caso tutti coloro che fidano nella vita come in un fiume dalle numerose correnti a cui conviene abbandonarsi perché è sicuro che in qualche luogo porteranno. Inoltre il caso permette che ogni azione si giustifichi da sé nel momento stesso in cui avviene. Donde la libertà, varietà e bellezza di tutte le azioni, senza eccezioni, il loro innestarsi non in un fosco e ristretto mondo morale bensì nel più vago e variopinto dei mondi estetici. La fortuna e la sfortuna hanno ambedue un bellissimo viso, sono ambedue da accarezzarsi e rimirare con sentimento di lasciva invidia. Tutto finisce in bellezza.
Alberto Moravia, L’uomo come fine e altri saggi, Bompiani, Milano 1964
Francesco De Sanctis parla della nuova visione del mondo di Boccaccio.
Se ora apri il Decameron, letta appena la prima novella, gli è come un cascar dalle nuvole e un domandarti col Petrarca: “Qui come venn’io o quando?”. Non è una evoluzione, ma è una catastrofe o una rivoluzione, che da un dì all'altro ti presenta il mondo mutato. Qui trovi il Medio Evo non solo negato ma canzonato.
[...] Ove le cose di cui ride Boccaccio fossero state venerabili, poniamo pure ch'egli avesse potuto riderne, i contemporanei ne avrebbero sentita indignazione. Ma fu il contrario. Il libro parve rispondere a qualche cosa che volea da lungo tempo uscir fuori dalle anime, parve dire a voce alta ciò che tutti dicevano nel loro segreto.
Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, 1870
Al cuore della letteratura - volume 1
Dalle origini al Trecento