3 - Una scelta linguistica originale

Il Trecento – L'opera: Canzoniere

Oltre l’amore: politica e fede

Dopo la morte di Laura (che l’autore colloca nel 1348), il mondo del poeta sembra diventare più angusto, oltre che più triste e proiettato verso un desiderio di purificazione in chiave ultraterrena. Permane il ricordo dell’amata, accanto al quale sono ancora presenti le altre tematiche affrontate da Petrarca nelle liriche del Canzoniere: la situazione politica degli Stati italiani e la questione della curia papale, oltre a un sentimento di cosmopolitismo inquieto, accompagnato da una forte nostalgia per i diversi luoghi che nel corso del tempo hanno rappresentato la sua patria.

Un certo numero di componimenti del Canzoniere affronta tematiche etico-politiche. In particolare vanno segnalate due canzoni, Spirto gentil (53) e Italia mia (128, u T11, p. 421). La prima viene scritta quando Cola di Rienzo prende il potere a Roma ed esprime la speranza di Petrarca che quel passaggio storico possa porre fine una volta per tutte alle rivalità tra le famiglie patrizie della città, restaurando gli antichi valori repubblicani.
La seconda, di incerta datazione, critica duramente le lotte tra i diversi Stati italiani e il ricorso alle truppe mercenarie, auspicando una concordia politica capace di rivolgere le energie belliche contro quelle potenze straniere che costituiscono la vera minaccia per l’Italia. Sempre di argomento politico sono i cosiddetti “sonetti avignonesi” o “sonetti babilonesi” (136-138), invettive contro la curia papale corrotta e incapace di riscuotersi dal torpore morale che la blocca.

Il terzo grande tema del Canzoniere è quello religioso. Esso è presente in diversi componimenti dedicati alla passione per Laura, a partire dallo stesso sonetto proemiale, in quanto all’amore si legano i motivi del peccato, del pentimento e della conversione. L’argomento religioso è approfondito in particolar modo nelle “Rime in morte di madonna Laura” e raggiunge la sua massima espressione nella canzone conclusiva alla Vergine (Vergine bella, che, di sol vestita, ► T19, p. 443), in cui l’esaltazione mistica della bellezza e della bontà della madre di Dio contiene una fiduciosa domanda di intercessione e di salvezza. Ma tutta l’opera è percorsa dalla tensione religiosa e dal dramma non risolto dell’uomo incapace di condannare in modo definitivo le passioni terrene: anche quando, come negli ultimi componimenti, il poeta pare deciso a rifiutare le lusinghe dell’amore profano per volgersi solo a quello sacro, si può cogliere più il dolore per la colpa commessa che la pace della redenzione divina.
Il desiderio di liberazione e di quiete spirituale non lo conduce infatti verso un approdo finalmente stabile, poiché esso costituisce solo l’aspirazione della sua anima contraddittoria, che egli sente di dover illuminare. Da tale esigenza introspettiva nasce la poesia di Petrarca, che chiarisce, attraverso l’analisi dell’esperienza personale, la condizione stessa dell’uomo della propria epoca, il quale ha smarrito la saldezza religiosa e morale, si sente condannato alla sofferenza ma non rinuncia a credere nella salvezza mediante la grazia, da conquistare con la confessione e la preghiera.

Il tempo, la memoria, la morte

Nella rappresentazione delle opposizioni e degli stati d’animo che dilaniano la psicologia del poeta acquistano un grande rilievo lo struggimento per il tempo fuggito e lo sgomento per il destino mortale che attende ogni uomo. Del resto, la stessa vicenda narrata nel Canzoniere si configura come una visione del tempo trascorso: la scomparsa della donna amata può essere considerata come la prova del disinganno esistenziale e della fugacità dei beni concessi e poi negati dall’esistenza terrena. In tal modo, le liriche petrarchesche presentano una continua oscillazione tra il presente, il passato e il futuro: il passato rappresenta il tempo del «giovenile errore», della passione amorosa e della presenza di Laura; il presente costituisce il piano della consapevolezza, dell’introspezione e del pentimento; il futuro fa balenare la speranza di una possibile ricomposizione dei conflitti che agitano l’io del poeta.

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Da qui deriva un sentimento del tempo come corso ineluttabile e «processo di autoconsumazione destinato a concludersi» (Fenzi): non a caso il tema della fugacità delle cose umane è sottolineato dalla ossessiva ricorrenza dei verbi «volare» e «fuggire», che «più frequentemente accompagnano le presenze del tempo quale sostanza allegorica» (Marcozzi). Come si vede dall’invecchiamento e dalla morte di Laura, l’eternità delle cose non è che un falso miraggio, poiché l’incombente spettro del tempo si incarica prima o poi di mostrare che «quanto piace al mondo è breve sogno» (Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, v. 14, ► T5, p. 402).

La vita quindi si manifesta progressivamente come una perdita, una percezione continua di ciò che è stato prima e ora non è più. Il solo schermo che attutisce una siffatta nozione del tempo è costituito dalla memoria, che permette al poeta di aggrapparsi alla sua fragile identità di vivente recuperando gli attimi e i frammenti del passato, fissandoli poi sulla pagina e sottraendoli alla corrosione del tempo grazie alla funzione, quella sì eternante, della scrittura.
Già l’amato sant’Agostino scriveva nelle Confessioni: «Non posso comprendere la natura della mia memoria, mentre senza di quella non potrei nominare neppure me stesso» (X, 16, 25). Nessuno, prima e meglio di Petrarca, ha saputo dare forma lirica al dramma dell’individuo che riesce a capire sé stesso solo penetrando nel mistero della memoria di tutto ciò che ormai non esiste più.

3 Una scelta linguistica originale

La scelta linguistica operata da Petrarca nel Canzoniere è piuttosto originale, soprattutto se contestualizzata nel momento storico e se paragonata a quella dantesca, teorizzata nel De vulgari eloquentia e concretizzata nella Commedia.

Per Dante il volgare è una scelta netta e decisa, che prevede la creazione di un idioma che sia «illustre», «cardinale», «aulico» e «curiale», ma che contemporaneamente sappia spaziare in un amplissimo ventaglio di registri e di scelte lessicali. Per Petrarca, al contrario, il volgare deve tendere a riprodurre la perfezione lessicale e strutturale del latino. La letteratura latina, infatti, ha raggiunto una perfezione che ormai si può soltanto imitare; il volgare, d’altro canto, può elevarsi al livello di una lingua letteraria, purché venga sottoposto a un processo di continuo raffinamento.
Del resto, che per Petrarca la scelta del volgare sia un’opzione letteraria, quasi “estranea” al parlato e alla comunicazione quotidiana, è ampiamente testimoniato dalle glosse in latino con le quali si autocommenta a margine dei testi: optime! (“benissimo!”) oppure hic corrige (“qui correggi”). Ciò significa che per Petrarca la lingua quotidiana è più il latino che non il volgare, soprattutto nel periodo in cui vive ad Avignone, dove parla provenzale solo con la gente del popolo, mentre usa il latino con le persone colte.

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Coerentemente con il suo progetto di una rappresentazione totale della realtà, Dante aveva utilizzato le diverse possibilità espressive della nascente lingua italiana, declinandola in tutti i suoi registri: dall’alto al basso, dal tragico al comico. Viceversa, Petrarca opta per uno stile sempre medio. Da qui la definizione del critico Gianfranco Contini di «plurilinguismo » per l’opera di Dante e di «monolinguismo» per quella di Petrarca.

Secondo il critico, nella poesia di Dante entrano tutti i diversi livelli linguistici e di conseguenza stilistici. Il plurilinguismo dantesco non è solo uso concomitante di latino e volgare, ma soprattutto «poliglottia degli stili e […] dei generi letterarî» sia nella prosa sia nella poesia. Invece la lingua del Canzoniere di Petrarca è sostanzialmente fiorentina ma in senso astratto, e limitata stilisticamente al linguaggio letterario: la scelta linguistica è pertanto rigorosamente univoca sul piano lessicale, continuamente depurata dei tratti vernacoli o anche solo realistici, lontana da ogni sperimentalismo, sottoposta a un incessante lavoro di correzione, riduzione, riscrittura degli stessi testi.

Per i propri componimenti, Petrarca mette a punto un linguaggio chiuso e selettivo, sottratto alla concretezza della vita reale, mirato alla rappresentazione di una vicenda esclusivamente interiore. La sua lingua è inadatta a riferire contenuti realistici e tesa invece a esprimere esperienze assolute, quasi fuori dallo spazio e dal tempo. Alcuni critici hanno notato che dalla lingua di Petrarca emerge una sorta di immobilità e gli stessi verbi, di fatto, non definiscono azioni o movimenti reali.
La lingua del Canzoniere è basata su una magistrale alternanza di ripetizione e variazione. La volontà dell’autore di conferire organicità al disegno dell’opera, le pressioni del codice lirico-amoroso e delle sue parole chiave, nonché il carattere ossessivo della riflessione psicologica del soggetto e del suo desiderio amoroso determinano l’alta frequenza di singole parole (core, amore, occhio, viso, dolce, vago, bello ecc.), a loro volta inserite in abbinamenti ricorrenti (begli occhi, bel viso/volto, alta impresa, dolce riso, dolce vista, aura soave) o fissate nel modulo tipicamente petrarchesco della dittologia, soprattutto a fine verso (pietà, nonché perdono; uscio e varco; canuto et biancho ecc.).

A interrompere, ma solo apparentemente, questa fissità, interviene, sul piano sintattico, la figura retorica dell’antitesi: se da un lato, sul piano psicologico, essa può essere interpretata come l’espressione del perenne conflitto interiore del poeta, dall’altro, sul piano della struttura letteraria, essa determina l’armonia retorica della composizione. È come se la lacerazione emotiva dell’animo del poeta si ricomponesse nella perfetta armonia del livello formale: la sua passione si cristallizza nella perfezione dei versi. Tale trasposizione del caos del reale nella serenità rappacificante della forma è, in fondo, la caratteristica del classicismo ► .

Al cuore della letteratura - volume 1
Al cuore della letteratura - volume 1
Dalle origini al Trecento