Le cose scritte nel «libro» sono di fatto, prima che altre, le vere «parole per rima», o comunque cose già convertite in quelle parole. E la narrazione della Vita nuova sarà dunque cosa riflessa, di grado secondo, e crescerà sopra un terreno che è, pur nel duplice giuoco aperto delle scelte e delle amplificazioni, determinato in anticipo: crescerà sopra i paragrafi davvero «maggiori» del «libro», che sono già verso e canto. La dialettica narrativa, pertanto, come non è primaria né immediata, così nemmeno è veramente costitutiva. La narrazione della Vita nuova, vogliamo poi dire, è programmaticamente servile, dichiarativa: è, come precisamente avvertivamo sopra, teoria delle «parole per rima». E la Commedia, per contro, se possiamo impiegare con un po’ di coraggio una nozione sbrigativamente e scandalosamente anacronistica, ma forse non inefficace a illustrare la comparazione, e che rimarrà per noi da giustificarsi a parte, è corretto romanzo storico.
Il primo punto fermo sarà allora questo, per questa lettura: che nel «libello» giovanile la forma romanzesca è mero velo, continuamente infatti violentato e franto, di una sostanza saggistica, modo di un discorso teorico; che la Vita nuova, insomma, non è racconto lungo, ma ragionamento storico intorno a un’idea di poesia. Se il paragrafo inaugurale dell’opera, in apparenza, sta lì per contestare questo suggerimento interpretativo, bisogna dire che ciò è dovuto soltanto a un’abitudine ormai inerte: le parole scritte nella memoria sotto la «rubrica» del titolo («incipit vita nova») saranno da Dante trascritte dichiaratamente, in riduzione, registrate essenzialmente, criticamente, nella loro «sentenzia ». E le lacune confessate, in quel «trarre de l’essemplo», in vista di parole che stanno dunque nella memoria «sotto maggiori paragrafi», fanno della Vita nuova, non un vero libro memoriale, o una pacifica relazione di eventi, ovviamente scaricata di ogni «parlare fabuloso», come possono risultare certi indugi sopra certe «passioni» o «atti», ma davvero un «libello» tutto controllato funzionalmente, per una dichiarazione interpretativa e storica, di cui l’abito narrativo sarà sì la forma spontanea, per la più vasta superficie dell’opera, ma discontinua nella sua stessa razionalizzazione. Si illumineranno così per gradi, e in modi diversi, tra cronaca e emblema, poetica e polemica, le occasioni, le ragioni e le fasi di una carriera lirica che, non a caso proprio, si dichiara da ultimo interrotta, sospesa sopra un puntuale proponimento d’autore («non dire più di questa benedetta infino a tanto…»). Il Bildungsroman1 di Dante sarà dunque veramente, se si vuole, storia di un’anima, e veramente romanzo, ma nella misura in cui è storia di un discorso lirico, ragionamento intorno a una poetica che ormai si confessa come insufficiente, si riconosce come inadeguata alle altissime ambizioni dello scrittore («dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna»). Senza tenere presente sempre alla mente tale dichiarazione e confessione, in vista della quale l’intero «libello» è composto, ci si trova di fronte a un volume che deve risultare al tutto incomprensibile. Perché, appunto, la Vita nuova è, prima di ogni altra cosa, la teoria e la storia delle «nove rime»: una storia che approda al fermo congedo dell’autore da quell’ordine chiuso di così lunga esperienza umana e stilistica.
Bildungsroman, si diceva. Ma la Vita nuova è spiegabile, al sentimento dei moderni, come storia di una vocazione poetica, esattamente al modo in cui la Commedia è a sua volta spiegabile, in certo senso, come storia di una vocazione profetica, e non altrimenti.
Dante Alighieri, Vita nuova, introduzione di Edoardo Sanguineti, Garzanti, Milano 1989