Al cuore della letteratura - volume 1

Le origini e il Duecento – L'opera: Divina Commedia

PER APPROFONDIRE

Le visioni letterarie dell’aldilà prima di Dante

Dante inventa la cosmologia fantastica del suo aldilà sulla base di criteri il più possibile razionali, cercando di offrire al proprio disegno una sostanziale coerenza interna. Tuttavia il poeta non poteva ignorare gran parte dell’iconografia pagana e cristiana dell’oltretomba e si potrebbe rilevare che alcune opere letterarie precedenti avevano provato a rappresentare i regni dell’aldilà in termini che, a una lettura superficiale, potrebbero sembrare molto simili a quelli danteschi.


Bonvesin de la Riva

A tale proposito va ricordato innanzitutto il poeta milanese Bonvesin de la Riva (1240 ca – morto tra il 1313 e il 1315), autore del Libro delle tre scritture (un poemetto di 2108 versi, finito prima del 1274), in cui descrive le pene infernali («scrittura nera»), la passione di Cristo («rossa»), le gioie del Paradiso («dorata»). Le pene infernali descritte da Bonvesin sono per lo più terribili torture atte a spaventare l’ingenuo lettore: fuoco che brucia avari e lussuriosi, «puza grande» per coloro che vissero «vita guasta», ghiaccio eterno per chi restò freddo al richiamo di una santa vita, vermi velenosi che rodono chi in vita ingannò o approfittò del prossimo, la vista di orribili demoni per chi si dilettò di leccornie e belle donne; i golosi soffrono fame e sete, i vanitosi sono vestiti d’abiti di spine velenose e giacciono in letti di ferri appuntiti e roventi, con materassi di scorpioni, bisce e zolfo; chi non si curò che del proprio corpo è preda delle più terribili malattie, chi non credette in Cristo è dannato alla contemplazione della gioia eterna dei beati.
Alle dodici pene della «nera» si oppongono, quasi sempre simmetricamente, le dodici beatitudini della «scrittura dorata»: bellezza della «città soprana», «odore suave», grande ricchezza e onori, gioia di aver abbandonato la «persona mundana», bellezza «de li angeli placenti», canti «stradolcissimi», l’essere serviti da Cristo stesso, cibi ricchi e gustosissimi, vesti preziose, gioia d’essere scampati ai tormenti infernali, certezza di restare in Paradiso per l’eternità. Tra le due parti si inserisce, come si è detto, la «scrittura rossa», il racconto della Passione, dove si trovano talora punte di alta drammaticità.
Solo in senso molto lato, però, Bonvesin può essere considerato un precursore di Dante. Se pure vi è qualche coincidenza formale, scopo didattico immediato e statura artistica, mondo morale e ingenuità dimostrano chiaramente l’assoluta mancanza di un qualunque legame diretto tra i due poeti.


Giacomino da Verona
Il frate minore Giacomino da Verona (seconda metà del XIII secolo) aveva scritto invece due poemetti – De Ierusalem celesti (La Gerusalemme celeste) e De Babilonia civitate infernali (Babilonia, città infernale) –, descrizioni del paradiso e dell’inferno, non prive di energico realismo popolaresco. L’autore trae ispirazione in parte dall’Apocalisse e in parte dalla letteratura francescana del suo tempo; vicino a Bonvesin de la Riva per il metro usato e per la materia trattata, è tecnicamente meno preparato ed è a lui inferiore per ricchezza del dettato poetico.
Nel De Ierusalem celesti Giacomino descrive le gioie e le bellezze del Paradiso, presentato come una stupenda e fiabesca città circondata di mura e ricca di giardini, lastricata e ricoperta di perle, cristallo, pietre e metalli preziosi, e guardata da un angelo armato di spada.
Lo sforzo del rimatore è volto a rappresentare il luogo santo come trionfo di splendori e di luci; ma per fare ciò si avvale di similitudini o, diremmo, di “materiali” tutti terreni giustapposti con un’ingenua tecnica iconografica che talora ricorda assai da vicino le rappresentazioni figurative di alcuni artisti duecenteschi. Più che un mondo di luce spirituale, Giacomino raffigura insomma un luogo di delizie dei sensi: l’udito gode del canto degli uccelli e dei cori dei beati, l’occhio di colori e splendore, l’olfatto del profumo «d’ambra e de moscà, de balsamo e de menta», il gusto di frutti «plu… dulgi che mel» che risanano ogni malattia.
In puntuale contrasto con il De Ierusalem sta il De Babilonia civitate infernali, nei cui 340 versi l’autore descrive gli orrori dell’Inferno, concretizzati in contatti con animali ripugnanti, fuoco senza splendore, gare di demoni nel torturare i dannati, caldo e freddo insopportabili. Qui indubbiamente l’intento didattico-deterrente sopravanza, con l’esagerazione, quello figurativo-letterario, sì che l’opera sembra più decisamente accordarsi con la tradizione giullaresca che con la struttura fondamentalmente letteraria di tanta parte della produzione didascalico-morale del Duecento, in particolare di Bonvesin, meno brioso forse di Giacomino, ma certo assai più preparato retoricamente e soprattutto linguisticamente.
Inserito da non pochi storici della letteratura nel novero dei cosiddetti “precursori” di Dante, in realtà Giacomino non offre nei suoi due poemetti alcun elemento strutturale o ideologico di positivo accostamento con la Commedia.


La distanza dantesca
Pertanto, seppure nel capolavoro dantesco sia talora possibile rintracciare qualche elemento del mondo rappresentativo e ideologico di Bonvesin, di Giacomino e di altri "precursori", non se ne dovrà trarre l’incauta deduzione di una dipendenza. Dante opererà una sintesi unica degli elementi formali, culturali e morali della tradizione retorico-letteraria a lui precedente, al tempo stesso segnando da essa una notevolissima distanza.


Una possibile fonte islamica

Va infine ricordato il Libro della Scala di Maometto.
Si tratta di un testo escatologico arabo-spagnolo fatto tradurre poco prima del 1264 da re Alfonso X di Castiglia, a opera di un dotto medico ebreo, Abraham; da questa versione castigliana, ora perduta, l’italiano Bonaventura da Siena, sempre per commissione del re, trasse due versioni in latino e in antico francese, giunte a noi.
L’opera originaria appartiene a quel filone della letteratura araba edificante e popolare che, sviluppando un famoso versetto coranico su un miracoloso viaggio notturno del profeta a Gerusalemmme (Corano, XVII,1), narra la sua salita al cielo e la sua visita dei regni d’oltretomba.
Nel Libro della Scala, Maometto è destato nel suo letto alla Mecca dall'angelo Gabriele, è fatto montare sul destriero alato Burāq, condotto a Gerusalemme, e di qui fatto ascendere in cielo per la fulgida scala che dà il nome al libro. Egli vede l’angelo della morte, un altro in forma di gallo, un terzo metà di fuoco e metà di neve, e attraversa gli otto cieli incontrando in ognuno un profeta, fino al trono di Dio; visita quindi il Paradiso con le sue delizie di natura e d’amore, e riceve da Dio il Corano, con i precetti delle orazioni quotidiane e del digiuno. Passato poi all’Inferno, ne percorre le sette terre e ne contempla i diversi tormenti, ascoltando da Gabriele le spiegazioni sul giorno del giudizio. Tornato infine sulla Terra, tenta invano di convincere i suoi concittadini della Mecca sulla verità della sua visione.
Quest’opera presenta una materia già quasi per intero nota in fonti sparse, ma la sua importanza sta nel fatto che essa la sviluppa in una narrazione continuata. Inoltre la grande diffusione di tale testo consentì una divulgazione dei suoi contenuti dalla Spagna araba all’Occidente cristiano: le versioni del Libro della Scala (sia quella castigliana sia le due conservatesi in latino e in francese) varcarono infatti presto i Pirenei. Lo storico e arabista spagnolo Miguel Asín Palacios (1871-1944) ha sostenuto la tesi che l’escatologia musulmana abbia influenzato la Divina Commedia proprio per il tramite del Libro della Scala, essendo tale testo giunto all’ambiente e all’età di Dante.
Oggi la sua conoscenza da parte del poeta appare, se non certa, probabile; ma sulla misura e sul valore delle suggestioni che il Libro della Scala può avergli fornito per la sua visione d’oltretomba i pareri restano assai discordi: il suo maggiore e più prudente studioso, Enrico Cerulli (1898-1988), considera tale possibile influsso solo come secondario rispetto alle principali fonti di ispirazione del poeta, latine e cristiane.

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Dalle origini al Trecento