La visione politica

Le origini e il Duecento – L'autore: Dante Alighieri

La visione politica

Sulla scia dell’elezione imperiale di Arrigo VII e del viaggio in Italia da lui intrapreso per l’incoronazione (1310), Dante scrive tre Epistole in cui esorta i principi e i popoli d’Italia a sottomettersi e l’imperatore a punire i ribelli.
Forse – pensa – è l’occasione perché si realizzi concretamente quanto egli auspica sulla base del proprio pensiero politico: «L’ineffabile Provvidenza ha posto dunque innanzi all’uomo due fini cui tendere: la felicità di questa vita, […] e la felicità della vita eterna» (De monarchia, III, 15, 7, ►  T4, p. 243).

Infatti all’annunciata discesa di Arrigo, volta a restaurare il decaduto potere imperiale in Italia, Dante reagisce con un rinnovato interesse per la vita politica e con nuove speranze nella rifioritura del potere dell’imperatore. La rinata attenzione di quest’ultimo nei confronti dell’Italia, «il giardino dell’Impero», è voluta, secondo Dante, direttamente da Dio, che ha dotato l’umanità di due guide: una che conduca l’uomo verso la felicità oltremondana (il papa) e un’altra (l’imperatore, appunto) che mostri la strada per raggiungere la felicità terrena.
Secondo la concezione dantesca, infatti, la restaurazione del potere imperiale farà sì che anche il Papato, impoverito spiritualmente a causa del suo potere mondano, possa ritrovare il proprio ruolo di guida spirituale, laddove invece gli ultimi pontefici (soprattutto Bonifacio VIII) avevano abusato del loro ruolo temporale. Dante auspica, dunque, un ritrovato equilibrio tra i «due soli», in grado di riportare la penisola italiana allo splendore dell’Impero romano.

Così egli matura la visione della Storia secondo cui la Chiesa, dopo avere usurpato (dopo la Donazione di Costantino e per la cupidigia dei suoi pastori) il potere che l’Impero aveva ricevuto da Dio, aveva distrutto la pace degli uomini, impedendo loro di realizzare il fine provvidenziale a cui erano chiamati.
Solo una monarchia universale avrebbe potuto ristabilire le condizioni perdute. Questa concezione non viene meno quando la morte di Arrigo VII (1313) pone fine alle speranze che l’imperatore aveva suscitato: Dante continuerà a meditarla a Verona, dove soggiornerà, dal 1313 al 1318-1320, alla corte di Cangrande della Scala.

È a questo punto che il pensiero politico di Dante prende la sua forma definitiva e assume una sistemazione organica nel De monarchia. Egli si chiede la ragione dei malanni d’Italia e la individua nelle discordie tra le diverse entità statali in cui è divisa la penisola; scorge la causa di queste nella mancanza di un potere civile unico, cioè dell’Impero, essendo gli imperatori distratti dagli eventi politici dell’area tedesca, e nella parallela usurpazione delle loro prerogative da parte della Chiesa. Dante, insomma, da guelfo moderato diventa quasi un ghibellino.

Al centro del pensiero di Dante c’è dunque la concezione di un doppio dovere per l’uomo: verso sé stesso e gli altri uomini, ma anche verso Dio. Fine dell’uomo è la conquista della duplice felicità: perciò Dio stesso gli ha dato due guide, l’imperatore e il pontefice, che devono, agendo in modo reciprocamente indipendente, condurlo al raggiungimento del bene.
Tuttavia Dante concepisce la felicità terrena come una meta indicata da Dio stesso, cioè non come un’aspirazione egoistica o un diritto, bensì, piuttosto, come un dovere morale e religioso. È significativa in tal senso la similitudine con cui si chiude il De monarchia, in un passo in cui lo scrittore invita l’imperatore a nutrire rispetto filiale verso il pontefice: «Cesare pertanto usi verso Pietro di quella reverenza che il figlio primogenito deve usare verso il padre, affinché, illuminato dalla luce della grazia paterna, possa illuminare con maggior efficacia la terra, al cui governo è stato preposto solo da Colui che è il reggitore di tutte le cose spirituali e temporali» (III, 15, 18).
In altre parole, al di là della chiara distinzione dei ruoli e degli ambiti tra papa e imperatore, il pontefice continua a rivestire, agli occhi di Dante, un primato di ordine religioso, in quanto vicario di Cristo sulla Terra.

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PER APPROFONDIRE

La Donazione di Costantino

La Donazione di Costantino è un documento, redatto probabilmente nel periodo 750-850 a Roma o a Saint-Denis (non lontano da Parigi), che pretende di essere l’atto diplomatico con il quale l’imperatore Costantino avrebbe donato nel 314 a papa Silvestro I la giurisdizione civile su Roma, sull’Italia e sull’intero Occidente. Tale documento esprimeva inoltre la volontà che il vescovo di Roma avesse il principatum (cioè il primato) sui patriarchi orientali e, di fatto, su tutte le Chiese del mondo.


Canonisti e civilisti
Ai tempi di Dante nessuno riteneva falsa la Donazione, ma era viva una secolare polemica tra canonisti (i giuristi favorevoli al Papato) e civilisti (quelli tendenti a limitare il potere del pontefice a vantaggio delle magistrature laiche).
Questi ultimi cercavano di indebolire il valore giuridico del documento con argomenti che avevano il loro sostegno nelle leggi romane, le quali indicavano nell’imperatore l’administrator (un semplice “amministratore”, non il “proprietario”) dello Stato, quale vicario e procuratore del popolo romano. I civilisti sostenevano pertanto che la Donazione di Costantino non avesse valore giuridico, in quanto aveva provocato una diminuzione dell’Impero, violando le prescrizioni della legge imperiale. In altre parole, Costantino non avrebbe avuto il diritto di fare ciò che aveva fatto: donare quelle regioni al papa.


La posizione dantesca
Anche Dante nega ogni valore giuridico alla Donazione e utilizza gli argomenti dei civilisti, dimostrando che all’imperatore non è lecito recare danno all’Impero determinandone, con un suo atto, una diminuzione territoriale: Costantino, provocando una scissione nell’Impero, non avrebbe ottemperato al proprio dovere, che era quello di tenere l’intero genere umano soggetto alla propria volontà.
D’altra parte – osserva Dante – se l’imperatore non aveva la facoltà di alienare una parte dell’Impero, la Chiesa non aveva la capacità di ricevere tale dono, come dimostra il Vangelo (Matteo, 10, 9-10), dove Cristo fa esplicita proibizione ai suoi discepoli (che rappresentano il nucleo originario della Chiesa) di possedere beni materiali.


La dimostrazione della falsità del documento
Di fatto la presunta donazione non era mai avvenuta.
Sarà l'umanista italiano Lorenzo Valla a dimostrare, nel Quattrocento, che il documento era stato scritto molto tempo dopo la morte di Costantino, avvenuta nel 337, e quindi che la Chiesa non aveva ricevuto in dono alcun territorio. Analizzando attentamente la Donazione di Costantino e applicando gli strumenti della filologia, Valla si accorge che il latino utilizzato è molto più tardo di quello che si usava nel IV secolo, smascherando così i “falsari”.

Al cuore della letteratura - volume 1
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Dalle origini al Trecento