Elsa Morante

I GRANDI TEMI

1 Realtà e immaginazione

La figura di Elsa Morante nella letteratura italiana ed europea del Novecento costituisce indubbiamente un caso singolare. Mentre i grandi autori del secolo, da Proust a Joyce, da Svevo a Pirandello, hanno scardinato le strutture del romanzo tradizionale e gli scrittori a lei contemporanei, legati alla temperie neorealistica, hanno creduto nel valore sociale e ideologico del racconto, Elsa Morante afferma una visione della letteratura refrattaria alle mode dominanti, lungo i percorsi di una ricerca introversa e lontana dal dibattito e dalle tendenze del suo tempo. Tutta la sua produzione è, a ben vedere, sempre legata a un bisogno personale di scrivere storie, come a compensare un malessere profondo nei confronti della civiltà moderna, meccanica e alienata, alla quale si sente profondamente estranea.

Tale visione affiora nei suoi scritti creativi ma è rivendicata anche su un piano teorico in una conferenza tenuta a Torino nel 1965 dal titolo Pro o contro la bomba atomica: l’autrice afferma che il fine della letteratura è offrire una forma di «verità» attraverso la trasfigurazione poetica della «realtà degli oggetti». Prendendo le distanze dal Neorealismo e dalla sua volontà – che considera arida – di documentare il presente, Elsa Morante approda a una propria definizione di realismo, nella quale si esprime la necessità di trasformare in verità dal valore universale una realtà effimera, contingente e caotica.
Questa fiducia nella resa poetica della realtà è controbilanciata dalla necessità di una lotta contro l’irrealtà, ossia contro tutto ciò che è crudele e disumano. La bomba atomica, a cui fa riferimento il titolo dell’intervento, è appunto la metafora di una minaccia all’umanità intera e all’universo oggetto dell’opera d’arte, che ha il compito «di impedire la disintegrazione della coscienza umana», restituendole integrità dinanzi all’alienazione, alla frammentarietà e all’orrore del reale.
Da tali presupposti, si capisce perché l’istinto di narratrice si manifesta in Elsa Morante nella continua ricerca di una dimensione alternativa, destinata a scivolare verso il piano, per lei affascinante e onnipresente, della favola. È in questa atmosfera, spesso onirica e surreale, che si collocano le vicende e i personaggi delle sue opere, per lo più descritti – secondo un modulo, diremmo, ottocentesco – attraverso il filtro del narratore onnisciente all’interno di ampie costruzioni narrative.

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La letteratura è per Elsa Morante, dunque, uno strumento per trasfigurare il mondo e per rivelarne la bellezza segreta, che si può cogliere soprattutto nella fanciullezza. Solo l’esistenza elementare delle creature più semplici garantisce una felicità libera e autentica: la spontaneità costituisce l’unico mezzo che permette all’individuo di realizzarsi. Per questo troviamo spesso nella sua opera figure di bambini e adolescenti: l’universo dell’infanzia e della giovinezza ancora immatura conserva quella beata e innocente anarchia che è destinata a corrompersi con l’età adulta, deformata dai pregiudizi e dalla costrizioni imposte dalla società.

2 Il fascino del mito

Uno degli aspetti più originali della produzione di Elsa Morante è la presenza dell’elemento magico, fiabesco, surreale. Nella personalità della scrittrice, incline al sogno e al meraviglioso, agisce sempre la suggestione di lontani miraggi e misteriosi fantasmi: si tratta di immagini remote e astratte che popolano la sua fantasia e che richiamano l’esistenza di altri mondi, di altre epoche e di altre civiltà, più libere e autentiche di quelle effettivamente vissute.

La nostalgica evocazione di questo universo incontaminato si spiega con il rimpianto provato dall’autrice per una condizione umana istintiva e felice oggi sempre più insidiata dalla civiltà moderna, dall’organizzazione sociale con i suoi vincoli e con le sue prescrizioni (tema, questo, che emerge soprattutto nel Mondo salvato dai ragazzini). Mentre un tempo l’esistenza era regolata dai ritmi magici e da una visione religiosa della vita, ora l’illusione sembra svanita e la ragione materialistica e scettica si è impossessata degli uomini privandoli dell’immaginazione e del contatto più segreto e profondo con le cose.
Tale fiabesca idealizzazione del mito induce Elsa Morante a calare le vicende rappresentate in un contesto sfumato, senza precise coordinate temporali, fuori dalla Storia. È il caso del suo romanzo più celebre, L’isola di Arturo, in cui una sorta di paradiso terrestre, la remota isola di Procida, fa da metafora incantata dell’infanzia del giovane protagonista. Su questo luogo dell’anima, che assomiglia tanto a un regno delle favole, la scrittrice proietta il proprio potere fantastico, capace di avvolgere vicende arcane e personaggi enigmatici in un’aura sospesa tra sortilegio e inquietudine.

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Le figure umane create da Elsa Morante si trovano, per così dire, disancorate dalle istituzioni, ai margini della civiltà: bambini, uomini e donne che si educano da sé e crescono a contatto con una natura incontaminata, in cui prevalgono passioni e morbosità, sentimenti viscerali e relazioni irrazionali, vissute senza misura. Ma forse non può essere altrimenti: nell’universo morantiano non può esserci buon senso né tanto meno l’osservanza della regola borghese della moderazione. Nel suo mondo arcaico non esistono diritti ma lotte, contrasti e arbitrii che ricordano le remote strutture della vita feudale: al di fuori di questa sorta di età dell’oro, regno di un tempo “assoluto”, ci sono invece la Storia, la guerra, il male, la perdita della felicità e dell’innocenza.

3 La visione della Storia

Per comprendere quale sia la visione del mondo di Elsa Morante e l’ottica attraverso cui la scrittrice intende illuminarne gli sviluppi e le contraddizioni, può essere utile tenere a mente una sua lapidaria e significativa affermazione: la storia costituisce per lei «uno scandalo che dura da diecimila anni». L’affermazione compare come sottotitolo della prima edizione del romanzo La Storia e riassume il suo atto di accusa contro la violenza e la prevaricazione che da sempre e senza pietà schiacciano i più deboli.

Il corso della civiltà umana è, secondo Elsa Morante, un continuo perpetuarsi di logiche perverse e ingiustizie crudeli ai danni delle vittime, e in particolare delle creature più inermi quali donne e bambini. Essi costituiscono il bersaglio preferito dai potenti, i quali non usano solo le armi che li offendono fisicamente (la fame, la miseria, la morte) ma anche quelle che li umiliano psicologicamente (le ideologie, i luoghi comuni, le norme violente della morale borghese), dissacrandoli e privandoli dell’ingenuità e della spontaneità.
Le vicende umane presentano dunque sempre la medesima opposizione: da una parte regna la Storia con la S maiuscola, quella ufficiale, la macchina del potere che produce sangue, rovina e genocidi; dall’altra quella delle masse di semplici e anonimi individui destinati al sacrificio alla stregua di cavie indifese.

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La tragica vicenda del piccolo Useppe, inerme rappresentante di un’umanità vergine esposta alla crudeltà del mondo degli adulti, simboleggia la visione cupa e straziante che Elsa Morante ha della vita: le incessanti domande che il bambino si pone sul perché si nasce e si vive in questo mondo segnato dal dolore non possono che rimanere senza risposta.
La malattia che lo ucciderà, l’epilessia, rappresenta il segno inemendabile di un destino a cui non possono sottrarsi né lui né la madre, la quale concluderà i suoi giorni in manicomio. Non è un caso, naturalmente, che il romanzo si chiuda con la negazione di quello che la scrittrice considera un dono sublime e miracoloso: la maternità. È una condanna che incarna l’essenza più intima di una civiltà che coincide, di fatto, con la barbarie.

Il magnifico viaggio - volume 6
Il magnifico viaggio - volume 6
Dalla Prima guerra mondiale a oggi