Giovanni Raboni
A dominare in Montale o, meglio, nel suo mondo espressivo è sin dagli inizi – sin dalle più antiche poesie degli Ossi – una visione radicalmente negativa, una visione tutta interiore e tuttavia capace di proiettare anche al di fuori, sul mondo dei fenomeni e delle apparenze, i sintomi di uno strisciante male e di un’intima, struggente non-voglia di vivere.
Ma attenzione: alla presenza o, meglio, all’immanenza, all’invisibile incombere di questo «male di vivere» (l’espressione, ricordo, viene alla lettera dall’interno degli Ossi, dal primo verso di una poesia famosa, forse persino, verrebbe voglia di dire, troppo famosa: «Spesso il male di vivere ho incontrato...») si accompagna e si intreccia, nella dimensione concreta della macrometafora testuale1 e nelle sue infinite proiezioni e risonanze, una vasta, grandiosa, irresistibile ansia di nominare, di inventariare, di descrivere quello stesso mondo al quale pure si crede così poco, si dà così poca importanza, si accorda così scarsa fiducia. [...]
La negatività dell’universo si popola, dunque, di oggetti enigmaticamente quotidiani, di amuleti che condannano ma anche, a volte, strappano all’inesistenza chi li possiede o entra casualmente o fatalmente in contatto con essi, nonché di presenze salvifiche – angeli o donne angelicate o forse angeli-demoni, «angeli neri» – di cui pochi hanno il privilegio di cogliere la natura e che tracciano misteriose scie di luce nell’angusta, soffocante oscurità del creato. Ed ecco il pessimismo tramutarsi così in sospensione, in attesa, in uno stato non soltanto mentale di cronica, febbrile tensione, la rinuncia alla vita in una sorta di radar o calamita di segnali, in un grandioso, paradossale apparato d’avvistamento e di conquista. [...] Non accade così, d’altronde, anche nella (e con la) poesia di Leopardi?
(Giovanni Raboni, Prefazione a E. Montale, Poesie, Mondadori-Corriere della Sera, Milano 2004)