Gerusalemme liberata

Gerusalemme liberata

Un capolavoro sofferto

La Gerusalemme liberata è l’opera di una vita, il capolavoro in cui Tasso riversa tutte le sue energie e ambizioni. Forse era stato il desiderio di gloria a spingerlo, ancora adolescente, ad accantonare il campo della lirica, insufficiente per emulare il grande e ingombrante modello di Ludovico Ariosto. O forse era stata la volontà di realizzare un poema in cui i valori della civiltà rinascimentale si fondessero, senza essere per questo rinnegati, con l’impegno religioso e ideologico imposto dalla Controriforma. In ogni caso è un’opera a cui l’autore continua a lavorare fino all’ultimo, mosso da scrupoli spirituali e da una persistente insoddisfazione.

La vicenda editoriale

Prima di addentrarci nelle vicende narrate dal poema, è necessario ricostruirne l’intricata storia editoriale, lunga e tormentata. Il nucleo originario dell’opera risale addirittura al 1559, quando Tasso quindicenne inizia a comporre le prime ottave (saranno, in conclusione, 116) di un abbozzo dal titolo Gierusalemme. Tre anni dopo, nel 1562, pubblica il Rinaldo, un romanzo cavalleresco in ottave dedicato al paladino di Carlo Magno. Si tratta di tentativi ancora acerbi, ma l’autore ha già le idee chiare sull’argomento che intende sviluppare, la prima crociata, e sul genere letterario da adottare. Le ragioni che lo portano a privilegiare il poema cavalleresco sono numerose.

La prima è un motivo biografico. Non possiamo ignorare nella precoce vocazione alla poe­sia eroica del giovane Torquato l’influenza dell’esperienza letteraria del padre Bernardo, autore di un fortunato poema in ottave, dal titolo Amadigi, nel quale l’epopea cavalleresca si intreccia a vicende amorose. Torquato considera l’opera di Bernardo pari all’Orlando furioso ariostesco e superiore all’Orlando innamorato di Boiardo. È un’esagerazione dettata dall’amore filiale, che però denota quanto il modello paterno possa aver inciso sulle scelte del figlio.

C’è poi un motivo più squisitamente letterario, che riguarda la materia da scegliere. In Italia, prima che Tasso inizi la stesura del Gierusalemme e del Rinaldo, si è andata diffondendo la moda del poema epico di argomento storico (un esempio significativo è L’Italia liberata dai Goti dello scrittore veneto Gian Giorgio Trissino, 1547-1548). La volontà di Tasso di rinunciare alla tipica materia cavalleresca e recuperare un’esperienza recente risente anche di una più generale tendenza letteraria dell’epoca a riformare il modello ariostesco e a conciliare il classicismo con la dimensione spirituale cristiana.

L’interesse dell’autore per la tematica religiosa si connette anche, proprio in quel lasso di tempo, con una situazione storica tornata di attualità. La presa di Costantinopoli (1453) e l’avanzata dei turchi nel Mediterraneo hanno alimentato in tutta la cultura cristiana europea il mito di una nuova crociata. Inoltre, l’incursione saracena del 1558 ad Amalfi e nella penisola sorrentina ha coinvolto anche sul piano personale Tasso (il quale, ricordiamolo, era originario proprio di Sorrento, dove viveva ancora la sorella, salvatasi per miracolo).

Al poema sulla prima crociata, già dunque progettato nella prima giovinezza, Tasso lavora soprattutto nel quinquennio che va dal 1570 al 1575. Queste date sono importanti perché è in questo periodo che la Lega Santa, composta dalla Chiesa, dalla Spagna, da Venezia e da altri Stati italiani, ottiene la vittoria contro i turchi nelle acque di Lepanto, in Grecia (1571); sono questi inoltre gli anni centrali del primo, e inizialmente felice, soggiorno ferrarese del poeta: la stesura dell’opera e il servizio cortigiano presso gli Estensi vanno di pari passo. Il poeta sa bene come la tradizione cavalleresca sia in auge da decenni presso quella corte, che conserva memoria dei fasti rinascimentali di Boiardo e Ariosto: inserirsi in questo filone significa per lui conquistare fiducia e stima ancora maggiori presso i colti esponenti della nobiltà ferrarese. Per una personalità come la sua, sempre alla ricerca di conferme e di apprezzamento, anche questa motivazione deve essere stata rilevante.

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Nel 1575 il poeta può annunciare ad Alfonso d’Este di aver terminato il poema, con il titolo di Goffredo, dal nome del condottiero, Goffredo di Buglione, protagonista della prima crociata e della narrazione. Benché apprezzata a corte e lodata dai letterati a cui giunge il manoscritto, l’opera non viene però pubblicata. Tasso, temendo di aver violato l’ortodossia religiosa imposta dalla Controriforma (inserendo, per esempio, episodi che egli stesso giudicava licenziosi), sottopone il poema a una continua riscrittura e al vaglio di una squadra di revisori romani, che ne suggeriscono modifiche e limature snervanti, canto per canto, ottava per ottava. La conseguenza è che, mentre il poeta è recluso nell’Ospedale di Sant’Anna, circolano dappertutto, incontrollate, diverse copie dell’opera, scorrette e lacunose, corrispondenti ad altrettanti e successivi momenti di revisione ed elaborazione.

Nel 1581 escono, mai curate in prima persona né autorizzate, le prime edizioni complete con il titolo di Gerusalemme liberata. Nello stesso anno vede però la luce anche la prima edizione autorizzata dall’autore, quella che leggiamo ancora oggi, stampata a Ferrara a cura di Febo Bonnà, letterato vicino a Tasso. Tre anni dopo è la volta di una versione allestita a Mantova da Scipione Gonzaga, amico personale del poeta, che contiene alcuni interventi di censura.

Tasso continua ancora per anni a riscrivere il suo capolavoro, tagliandolo o rielaborandolo in modo da renderlo più conforme a princìpi religiosi e morali a suo giudizio in precedenza violati o elusi. La caratterizzazione dei due schieramenti diviene più netta: alla moralità cristiana si contrappone, senza incertezze, la malvagità pagana. In particolare, egli decide di fare a meno degli episodi amorosi, eliminandoli con aperta disponibilità all’autocensura. In compenso, accentua la teatralità fastosa, e lo stile, che già nella Liberata presentava numerosi virtuosismi manieristici, viene ora appesantito da artifici retorici ormai pienamente barocchi.

Il risultato di questo lavoro più che decennale costituisce la Gerusalemme conquistata, pubblicata a Roma nel 1593, in 24 libri, con dedica non più ad Alfonso d’Este ma al cardinale Cinzio Aldobrandini. Si tratta, a tutti gli effetti, di un’opera diversa dalla Liberata.

LE TAPPE PRINCIPALI DELLA COMPOSIZIONE DELL’OPERA

1559-1560

Composizione di 116 ottave dell’incompiuto Gierusalemme, che può essere considerato il primo approccio alla materia dell’opera.

1575

Termine della prima stesura, con il titolo Goffredo, sottoposta al giudizio critico di vari lettori di fiducia, ai quali Tasso chiede di verificare che il testo rispetti i princìpi della Controriforma.

1581

Pubblicazione dell’opera, a cura di Angelo Ingegneri, con il titolo Gerusalemme liberata, apposto dall’editore. Sono 20 canti per un totale di 1917 ottave. Nello stesso anno esce la prima edizione autorizzata, a cura di Febo Bonnà.

1584

Tra le numerosissime edizioni, testimonianza di un successo immediato, quella a cura di Scipione Gonzaga è considerata particolarmente attendibile, in quanto derivata da manoscritti originali.

1593

Edizione, autorizzata dal poeta, della Gerusalemme conquistata, dopo una profonda revisione del testo della Liberata.

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La trama

Il poema, in ottave, diviso in 20 canti, ha come tema di fondo la prima crociata (1096-1099). La vicenda si apre al sesto anno della crociata (in realtà, storicamente è il terzo): i valorosi paladini cristiani, distolti da interessi personali, appaiono disorientati rispetto al nobile intento di liberare il Santo Sepolcro dai musulmani. Dio, allora, incarica il saggio Goffredo di Buglione di prendere la guida dell’esercito per condurlo alla conquista di Gerusalemme. A tenere la città sacra è il re Aladino, che può contare sull’aiuto delle forze infernali, riunite in concilio. Aladino invia nel campo crociato la bellissima maga Armida per allontanare dai loro doveri di cavalieri i migliori guerrieri cristiani, che infatti la seguono in un castello sulle rive del Mar Morto, nel quale vengono imprigionati.

Il campo dei cristiani, diviso da contese e dissidi, è abbandonato anche dal più intrepido dei suoi cavalieri, Rinaldo, il quale, dopo aver ucciso un principe norvegese suo calunniatore, fugge per non sottostare al giudizio di Goffredo. Già indebolito, il fronte dei crociati perde anche un altro dei suoi campioni più importanti, Tancredi, che crede di vedere in prossimità dell’accampamento la pagana Clorinda, di cui è innamorato. Si tratta invece della guerriera pagana Erminia che, a sua volta innamorata dell’eroe cristiano, trova ospitalità e pace dai suoi affanni d’amore presso alcuni pastori, mentre anche Tancredi finisce prigioniero del castello di Armida.

L’esercito cristiano intanto è in una situazione drammatica, incalzato dalle continue sortite degli assediati. La falsa notizia della morte di Rinaldo determina persino una rivolta contro il capitano Goffredo. Dio però interviene a suo favore proprio quando la battaglia sta per decretarne la definitiva sconfitta. Mentre l’arcangelo Gabriele allontana le forze del Male, un drappello di misteriosi cavalieri giunge in soccorso di Goffredo: sono i prigionieri di Armida, liberati da Rinaldo, il quale, dismesse le armi insanguinate che avevano fatto credere che fosse morto, prosegue il suo cammino errante verso Antiochia.

A questo punto, i cristiani decidono di compiere una processione al monte Oliveto, mentre i pagani, dalle mura, li coprono di insulti; il giorno successivo si svolge una battaglia cruenta, che si conclude senza vincitori né vinti, ma con il ferimento di Goffredo, poi miracolosamente risanato grazie ancora a un intervento divino. Durante la notte, le macchine da guerra dei crociati vengono incendiate da Argante e Clorinda. Quest’ultima, rimasta fuori dalla città, è inseguita da Tancredi, che non la riconosce e la ferisce mortalmente al termine di un drammatico duello. Quando l’eroe scopre la vera identità della donna, poco prima che muoia, affranto le impartisce il battesimo. Paralizzato dal dolore, Tancredi trae consolazione solo dalla successiva apparizione in sogno della donna amata.

Nel frattempo, altre minacce incombono sull’esercito di Goffredo. Il mago Ismeno rende impenetrabile con i suoi incantesimi la selva di Saron, da cui i cristiani ricavavano il legname per costruire nuove macchine da guerra; una siccità sembra inoltre piegare le loro forze residue. Goffredo è turbato da così tante avversità, ma per effetto delle sue preghiere il corso della guerra cambia di nuovo: prima una pioggia divina mitiga gli effetti della siccità, poi il ritorno di Rinaldo rende possibile la vittoria. L’eroe cristiano, infatti, vittima delle dolcezze voluttuose di Armida nelle Isole Fortunate, era stato svegliato dal suo torpore dall’intervento di due crociati inviati da Goffredo, Carlo e Ubaldo. Tornato in sé, riconciliatosi con Goffredo e pentitosi sul monte Oliveto, Rinaldo scioglie gli incantesimi della selva di Saron.

I cristiani allora, dopo aver costruito tre torri, possono infine sferrare l’attacco decisivo: Gerusalemme viene conquistata. Nell’ultima grande battaglia Tancredi uccide Argante, è ferito ma viene curato da Erminia; Rinaldo abbatte il coraggioso Solimano; l’esercito egizio, sopraggiunto in aiuto di quello musulmano, è distrutto; la torre di David, ultimo baluardo della cittadella di Gerusalemme, cade nelle mani dei crociati. Anche Aladino è ucciso. Ormai sconfitta, Armida fugge per suicidarsi ma, raggiunta da Rinaldo, si converte al cristianesimo. Il poema ora può davvero concludersi: l’ultima scena è l’ingresso di Goffredo nel tempio di Gerusalemme, dove depone le armi e dichiara conclusa la crociata.

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I personaggi

La caratteristica che è alla base della fisionomia di quasi tutti i personaggi della Liberata è la complessità. Essi non spiccano tanto per le loro imprese, quanto per l’intrico dei sentimenti che li agita, per i tortuosi meccanismi psicologici con cui vivono l’eterno dissidio tra pulsioni del cuore e dovere religioso. Chiusi nei loro tormenti interiori, i protagonisti del poema risultano sempre incapaci di comunicare con gli altri, costretti in una condizione di solitudine, inermi e sconfitti da un fosco e ineluttabile destino, di cui sono ben consci.

D’altra parte, l’atteggiamento di Tasso nei confronti delle figure che popolano il suo poema è molto diverso da quello di Ariosto. Quest’ultimo guarda distaccato la capricciosa e favolosa varietà della vita, gli eventi del mondo, le difficoltà e gli insuccessi dei suoi cavalieri erranti, consapevole di quanta menzogna e di quanto artificio fantastico ci siano nelle sue narrazioni. Tasso invece partecipa dei sentimenti dei suoi eroi, profondendovi la propria umanità, immedesimandosi totalmente nelle passioni e nei travagli di quelli che appaiono come uomini e donne reali e non come personaggi d’invenzione di una bella storia letteraria.

La poesia dei protagonisti della Liberata risiede dunque nell’infelicità. Non a caso, l’unico personaggio sempre uguale a sé stesso, mai sfiorato dal dubbio, il capitano senza macchia Goffredo, è quello artisticamente meno riuscito: perfetto esemplare di eroe della Controriforma, incarna l’aspirazione del poeta a superare le debolezze e le passioni umane in nome di un alto ideale. In questo campione di nobiltà e grandezza si ritrovano fusi sia i valori della tradizione classica (forza, coraggio, lealtà) sia le virtù cristiane (fede, obbedienza a Dio, senso del dovere).
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Agli antipodi di Goffredo si può invece collocare Rinaldo, il personaggio in cui Tasso ha riposto tutte le incertezze e le contraddizioni dell’esistenza. Con lo stesso slancio, che ne caratterizza l’indole, Rinaldo cede allo sdegno e all’ira, si annulla nel piacere dei sensi e si abbandona alla mistica preghiera grazie alla quale può vincere l’incanto della selva di Saron.

Mentre Rinaldo ha una prorompente vitalità, Tancredi è invece malinconico, assorto nel sogno e nell’inquietudine, assillato dal senso di colpa per l’illecito amore che nutre nei confronti della guerriera musulmana Clorinda, e poi straziato dall’averne provocato lui stesso la morte.

Proprio questo oscillare tra fede e peccato, tra devozione religiosa e tentazione profana è un tratto che caratterizza l’interiorità della maggioranza dei personaggi principali del poema: ne sono immuni solo le figure non toccate dai tormenti amorosi (il cristiano Goffredo o i saraceni Argante e Solimano).

Quanto ai personaggi pagani, anch’essi non mancano di nobiltà e di generosità, anzi: orgogliosi, accaniti e talora segnati da una specie di autolesionistico desiderio di morire, appaiono come eroi dolenti e ricchi di dignità, disposti a tutto pur di mostrare il proprio valore e di non retrocedere dinanzi al rischio o a imprese che non hanno alcuna possibilità di successo. Anche – e specialmente – le tre eroine, che dovrebbero ostacolare i crociati, sono in realtà pervase da un senso di sconfitta imminente, sublimato dalla conversione finale: Armida, la perfida maga al servizio del Male che poi si redime abbandonandosi all’amore per Rinaldo; Erminia, l’innamorata sognatrice che realizza nel finale il proprio desiderio di assistere e proteggere Tancredi ferito; ma soprattutto Clorinda, che nel momento della morte riacquista la fede cristiana e la bellezza femminile prima sacrificata nella ferocia della guerra.
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La struttura poetica

Nella scelta e nella disposizione della materia Tasso obbedisce alla tendenza precettistica e normativa tipica della letteratura della seconda metà del Cinquecento. Quanto Ariosto si era esplicitamente rifatto al precedente rappresentato da Boiardo, tanto Tasso si discosta dal modello ariostesco, considerato troppo libero, troppo “laico”, troppo lontano dai rigidi schemi del genere. Fondamentale si rivela, in tal senso, la lettura prescrittiva della Poetica aristotelica: Tasso accoglie il principio di unità dell’azione drammatica, concependo la trama del poema intorno a un eroe (Goffredo) e a un’azione (la liberazione della città santa), in uno spazio preciso (Gerusalemme), in un tempo definito e circoscritto (la prima crociata).

Come suggeriscono i dettami della poetica aristotelica, Tasso attribuisce alla storia l’obbligo di raccontare il vero, il dato reale, mentre il compito specifico della poesia è narrare il verosimile, vale a dire ciò che sarebbe potuto avvenire: in altri termini, il poema eroico non può essere leggendario, ma deve basarsi su un evento storico, rispetto al quale tuttavia conserva un margine di invenzione, di libertà, di finzione.

Al tempo stesso, però, la poesia deve perseguire l’utile (cioè rappresentare le azioni più nobili e gli effetti della virtù più alta), rendendolo compatibile con il diletto (secondo il precetto del poeta latino Orazio miscere utile dulci, mescolare l’utile al dolce). In concreto, da un lato la base narrativa deve attingere alla Storia: né troppo lontana né troppo recente, affinché non ci siano né cadute in un “passato” mitologico troppo estraneo al lettore né riferimenti a un presente troppo vicino che precluderebbe all’autore la «licenza di fingere», cioè di inventare; dall’altro lato, la storia stessa deve rappresentare un oggetto di riflessione e di insegnamento morale, che la letteratura si incarica di rendere più piacevole aggiungendovi – come Tasso scrive nel proemio – dei «fregi», episodi di fantasia, non accaduti realmente ma che sarebbero potuti accadere.

Tuttavia l’invenzione è possibile a patto che rimanga entro certi limiti e non superi i confini del credibile: il compito più impegnativo del poeta epico è proprio mantenere l’equilibrio tra reale e ideale, storia e fantasia, verosimile e meraviglioso, salvaguardando il diritto-dovere di arricchire la vicenda storica (la crociata contro i musulmani) con episodi nei quali si riflettano le virtù dei personaggi e i misteriosi interventi di Dio in lotta contro le forze del Male.

Nonostante la verosimiglianza della narrazione, la Liberata infatti non fa eccezione rispetto alle altre opere del genere epico-cavalleresco: la presenza del magico e del soprannaturale è un elemento fondamentale del poema. Ciò non comporta il ricorso alle favole pagane, alla mitologia antica o alle gratuite invenzioni della fantasia: obiettivo di Tasso è creare il “meraviglioso cristiano”, vale a dire un insieme di prodigi, miracoli e apparizioni divine, a cui i lettori possano credere in quanto opera di Dio.

D’altra parte, la magia contiene un’istanza di disgregazione e di disordine, simboleggiando l’irrazionalità e l’oscurità che adombrano le pieghe della Storia e dell’agire umano. Essa nasconde la presenza del maligno nella vita degli individui, come si vede dall’esperienza dei cavalieri cristiani, impegnati nell’ardua impresa di evitare le tentazioni che li distolgono dal retto cammino, tentazioni che possono presentarsi sotto forma di incantesimi e soprattutto sotto il seducente aspetto della bellezza (a cui non riesce a sottrarsi, per esempio, Rinaldo, il quale finisce nell’allettante rete amorosa della maga Armida).

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Oltre a tener fede a queste convinzioni teoriche, Tasso persegue anche l’obiettivo di costruire un’opera in cui la vicenda portante non perda mai i connotati di unitarietà (diversamente dal Furioso, per cui si è parlato di “policentrismo”). Tuttavia, attorno all’azione principale ci può essere spazio per digressioni ed episodi secondari, utili a evitare il rischio della monotonia. Ciò non comporta il succedersi avventuroso e quel groviglio inestricabile di situazioni che si manifestano fino all’estremo nel poema ariostesco. In Tasso la prospettiva religiosa fa sì che la struttura narrativa rimanga salda, chiusa, concentrata intorno allo scopo unico della conquista del Santo Sepolcro: a tale fine devono essere ricondotti i guerrieri sviati («erranti»), tentati cioè dalle forze del Male.

I temi

Nello sviluppo della trama Tasso inserisce temi diversi – l’amore, le avventure, le magie – che servono a intrattenere i lettori e insieme a presentare la sua visione del mondo. È un mondo pieno di conflitti e di contraddizioni, nel quale lottano forze antitetiche: da una parte i fedeli e dall’altra gli infedeli; da una parte le potenze infernali e dall’altra quelle angeliche; da una parte la magia diabolica e dall’altra il senso cristiano del meraviglioso. Viene sempre rimarcata l’impossibilità della concordia, una dimensione universalmente irrealizzabile che riproduce la lotta eterna tra Dio e Satana.

A differenza di quanto accade nell’Orlando furioso (dove cavalieri cristiani e musulmani sono così antropologicamente simili da risultare spesso indistinguibili), nella Gerusalemme liberata i personaggi sono divisi in modo rigido tra i rappresentanti della virtù e quelli del vizio. La guerra che essi combattono è – diremmo oggi – una “guerra di civiltà”. Coerentemente con la visione religiosa della Controriforma, Goffredo e le sue truppe incarnano l’utopia di un mondo cristianizzato, condotto dalle armi “benedette” sotto l’ala protettiva della Chiesa. I saraceni, oltre a essere i seguaci di Maometto, sono indicati come nemici dell’umanità, personificazione del peccato, soldati di Satana.

Ma c’è di più. Oltre che su un piano religioso, possiamo collocare il conflitto anche su un piano culturale. A ben vedere, infatti, i cavalieri musulmani sono portatori di un’etica laica, spregiudicata e individualistica, che ha in sé la propria giustificazione. In altre parole, incarnano un codice di valori “umanistici” che i cristiani hanno l’obbligo di rifiutare o quanto meno di sottomettere alla disciplina di un criterio superiore. Quei valori edonistici non hanno perso per Tasso il loro fascino (come ben documentano gli stessi cristiani, sempre in bilico tra rigore e trasgressione, autocontrollo e cedimento): la sua religiosità tormentata e mai formalistica non lo rende immune dalle lusinghe mondane e dai voluttuosi richiami della bellezza fisica. In questo senso, le tentazioni vissute dai suoi eroi sono le stesse a cui il poeta non riesce mai del tutto a sottrarsi: il «bifrontismo», di cui abbiamo già parlato, si manifesta compiutamente in queste contraddizioni.

Anche il tema della guerra è sottoposto alla stessa ambiguità: essa costituisce un’esperienza necessaria per sconfiggere il Male ed esaltare l’eroismo individuale a difesa della fede. Valori come l’onore, il coraggio e il senso del dovere morale non sono mai messi in discussione, né viene meno l’esaltazione, tipicamente rinascimentale, delle armi, che possiamo cogliere nelle scene epiche dei duelli e delle battaglie. Tuttavia il conflitto è rappresentato realisticamente come un’avventura disumana da descrivere senza veli nella sua verità raccapricciante e luttuosa. In fondo alla guerra ci sono sempre la morte che incombe e il dolore da rispettare pietosamente, anche quando tocca i vinti infedeli.
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Per comprendere appieno il mondo interiore di Tasso e la sua più schietta vena lirica, dobbiamo poi immergerci nell’atmosfera delle vicende amorose che si susseguono nel poema, nelle quali l’effusione dei sentimenti si alterna sempre al senso del rimorso e del peccato.

Anche l’amore, infatti, nasce e cresce come scontro tra opposti, tra piacere e colpa, voluttà e tristezza, fantasie languide e cattivi presagi. I protagonisti toccati dalla passione sono scossi da una forza oscura e fatale, che non dà loro gioia, bensì tormento e solitudine, nonché la sofferta coscienza che abbandonarsi alle lusinghe dei sensi comporta il venir meno ai doveri morali e religiosi. Non a caso, nella maggior parte delle situazioni la passione è unilaterale oppure nasce in condizioni tali che gli innamorati prevedono sin dall’inizio la tragica vanità del loro desiderio: Tancredi è innamorato della pagana Clorinda; lo stesso Tancredi è invece a sua volta amato dalla dolce Erminia, che è incapace di comunicargli i propri sentimenti; la maga Armida ama follemente Rinaldo che è soggiogato da lei, ma la loro separazione è necessaria per la vittoria cristiana sui pagani.

Come i protagonisti e le situazioni narrate, anche il paesaggio riporta sempre alla sensazione di qualcosa che sfugge, «a quel perenne fluttuare di belle forme che albeggiano e subito tramontano» (Getto). È un paesaggio che non rasserena, ma al contrario alimenta pensieri di tristezza e caducità. Panorami solitari, luci tenere dell’aurora, ombre della notte, rovine abbandonate, deserti e oceani sconfinati, tempeste improvvise: più che sfondi narrativi (o divertenti scenari fantastici, come in Ariosto), sembrano “personaggi” essi stessi, pronti a trasformarsi, a minacciare o tranquillizzare l’uomo, animati da forze malefiche o benigne. Anche attraverso questa natura splendida e inquietante Tasso riesce a esprimere la magia dell’atmosfera che aleggia in tutto il suo capolavoro.

Il magnifico viaggio - volume 2
Il magnifico viaggio - volume 2
Il Quattrocento e il Cinquecento