La parola aforisma viene dal greco aphorismós, che significa “definizione”. È una proposizione che riassume in modo chiaro il risultato di una precedente riflessione. In origine, l’aforisma conteneva concetti relativi soprattutto al campo medico: la prima raccolta di queste brevi massime fu attribuita al famoso medico greco Ippocrate di Cos (460-370 a.C.), autore di una serie di precetti nati dalla sua diretta esperienza. Un carattere etico hanno invece gli scritti dell’imperatore romano Marco Aurelio (121-180): i suoi Ricordi (noti anche con il titolo di Pensieri o Colloqui con sé stesso) godettero di una fortuna ininterrotta per secoli. In tempi a noi più vicini, l’aforisma continua a essere un genere letterario assai praticato: nell’Ottocento diviene lo strumento per esprimere in modo immediato il carattere soggettivo di un’illuminazione improvvisa; nel Novecento concentra pensieri folgoranti, spesso critici nei confronti dei luoghi comuni e del pensiero dominante.
Il maestro del genere è stato in Italia un brillante, eclettico e controverso intellettuale, Leo (all’anagrafe Leopoldo) Longanesi (1905-1957). Giornalista, pittore e fondatore dell’omonima casa editrice, Longanesi è stato uno dei più talentuosi interpreti di una cultura polemica e corrosiva, anticonformista e ideologicamente conservatrice, sempre pronta ad andare controcorrente rispetto agli orientamenti e alle mode della società letteraria ufficiale: i suoi aforismi caustici e spregiudicati mettono alla berlina vizi e costumi degli italiani, non senza una patina di acre moralismo. Ne presentiamo qui una piccola, ma significativa selezione, ricavata da due dei suoi libri più noti: Parliamo dell’elefante (1947) e La sua Signora (1957).