Ricordi
Solo quattordici anni separano la nascita di Francesco Guicciardini da quella di Machiavelli. Eppure sembra passata un’epoca, tanto la stessa lezione di Machiavelli è stata assimilata e, al tempo stesso, almeno in parte superata.
La passione, il carattere militante del Principe, la fiducia nell’uomo e nella sua capacità di determinare il proprio destino: sono le caratteristiche di Machiavelli che la Storia, la crisi italiana e lo scetticismo di Guicciardini dimostrano come ormai inattuali e impraticabili.
Nell’opera di Machiavelli abbiamo incontrato un realismo senza consolazioni, ma ancora sostenuto dalle illusioni. In quella di Guicciardini lo stesso realismo conduce ormai al disincanto. Il primo sogna grandi progetti, con l’urgenza di chi sente la frana avvicinarsi. Il secondo vi ha rinunciato, perché il crollo è già avvenuto.
La redazione e la struttura
Il pensiero e la visione della realtà
Anche sul piano etico-religioso, Guicciardini si basa su una prospettiva personale. Egli non nega l’esistenza di Dio, ma la religione rappresenta per lui una serie di dogmi incontrollabili: la Provvidenza divina non può essere afferrata dalla nostra mente; Dio rimane sullo sfondo, artefice di un disegno che occorre accettare senza farsi domande.
Le poche parole che Guicciardini dedica a tematiche religiose sono di aspra critica alla Chiesa, giudicata colpevole di aver tradito il messaggio evangelico: «Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie [corruzione] de’ preti: sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da [consacrata a] Dio, e ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado [i compiti politici] che ho avuto con più pontefici [Leone X e Clemente VII, di cui Guicciardini fu collaboratore] m’ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto [se non ci fosse stato questo motivo], arei amato Martino Luther quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti [alle dovute proporzioni], cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità» (ricordo 28).
L’importanza sociale e politica che Machiavelli affidava alla religione viene meno del tutto. Come tutti gli altri modelli ideali di riferimento, anche l’orizzonte spirituale finisce con Guicciardini per ridursi a una problematica tutta individuale.
In questo ripiegamento nella sfera privata, la missione decisiva per l’individuo è salvaguardare la propria identità e dignità. Per riuscirvi, l’uomo deve sapersi orientare sulla base della «discrezione», un insieme di concretezza e moderazione, qualità che non si ricava dalla lettura dei libri, ma dalla «prudenza naturale», cioè da una disposizione innata, a sua volta esercitata e rafforzata grazie all’esperienza. La «discrezione» permette di cogliere lo sviluppo e il modificarsi degli avvenimenti senza proiezioni ideali nel futuro, ma solo attraverso un serrato confronto con il presente.
È senza dubbio un atteggiamento difensivo, che vuole evitare i rischi e le avventure e invita invece a soppesare le circostanze, a impedire forzature, a far coincidere «saviezza» con «prudenza» e oculatezza.
In assenza di ideali collettivi, Guicciardini esorta a inseguire il «particulare», l’altro concetto chiave del suo pensiero. Tale concezione non consiste nell’egoistica ricerca del beneficio personale e materiale, ma nel tentativo di salvaguardare, in mezzo a una realtà caotica, la capacità di «mantenersi la riputazione e el buono nome» (ricordo 218). Anche se questo non esclude la possibilità di cogliere vantaggiose opportunità di cariche, onori e retribuzioni, Guicciardini nobilita il concetto del «particulare» facendo sì che convenienza e benefici privati non siano in contrapposizione con gli interessi della comunità e il bene dello Stato. Ciò non toglie che una tale visione abbia poco o nulla di epico: lo stesso autore, per esempio, ammette senza remore di aver fatto carriera nello Stato pontificio seguendo il proprio «particulare», pur sognando un mondo affrancato dalla «tirannide di questi scelerati preti».
Una prassi opportunistica? Forse, ma fare politica per Guicciardini significa accettare anche il compromesso e non disdegnare di collaborare con il potere tirannico, sia esso rappresentato dai Medici o dai «preti». È questo lo scotto, inevitabile, da pagare per agire davvero nel proprio tempo, senza condannarsi all’irrilevanza o a una sterile testimonianza.
Un lucido pessimismo
Nel 1869 il critico Francesco De Sanctis, da uomo del Risorgimento qual era, diede un giudizio molto severo sul pensiero di Guicciardini. Cogliendovi le tracce di una malattia morale che avrebbe contagiato gli italiani fino all’Ottocento, egli condannava Guicciardini come l’emblema del dissidio tra pensiero e azione e come degno rappresentante italico di un’atavica tendenza al compromesso e al conformismo. Al generoso Machiavelli, profeta e anticipatore dell’Unità d’Italia (con tutte le forzature del caso), veniva contrapposto il Guicciardini freddo calcolatore e abile trasformista.
Ciò che ripugnava a De Sanctis (e, con lui, a un’intera generazione di patriottici idealisti) era lo scetticismo verso ogni ipotesi di cambiamento, nonché la mancanza di slancio appassionato e di carattere: «La razza italiana», scriveva il critico, «non è ancora sanata da questa fiacchezza morale, e non è ancora scomparso dalla sua fronte quel marchio che ci ha impresso la storia di doppiezza e di simulazione. L’uomo del Guicciardini […] lo incontri ad ogni passo. E quest’uomo fatale ci impedisce la via, se non abbiamo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza».
Su un punto almeno possiamo concordare con De Sanctis: Guicciardini non è in grado di concepire alternative positive né di lanciare un messaggio di risoluto antagonismo; atti di fede o gesti eroici non correggono, secondo lui, il corso degli eventi. Nella civiltà umana, tutto è destinato a cambiare e a perire («con la lunghezza del tempo si spengono le città e si perdono le memorie delle cose», scrive nel ricordo 143), ma la sostanza del mondo rimane immodificabile: «El mondo fu sempre di una medesima sorte; e tutto quello che è e sarà, è stato in altro tempo, e le cose medesime ritornano, ma sotto diversi nomi e colori».
Tuttavia, questo pessimismo che lo pervade non comporta la rinuncia a operare. Anzi, è avvertibile, nei Ricordi, l’autoritratto di un intellettuale sospinto dalla ricerca dell’«onore», della «riputazione», della «degnità». L’ambizione non è «dannabile» e non è biasimevole l’«ambizioso» se, stimolato da «appetito» di «gloria», a questa punta con «mezzi onesti e onorevoli». Non solo legittima, l’ambizione è persino virtuosa quando è connotata da una forte valenza civica; diventa invece riprovevole se chi detiene il potere non si fa scrupolo, per realizzare i propri scopi, di calpestare i valori fondamentali dell’uomo, quali la coscienza, l’onore e l’umanità.
Per Guicciardini, però, le possibilità di incidere sulla realtà e modificarla sono pressoché nulle. Da qui si alimentano una dolorosa percezione della vanità della vita e uno sconsolato esame dei comportamenti umani, in cui dominano egoismi e interessi personali. A differenza di Machiavelli, che lo reputava spregevole per natura, Guicciardini ritiene che l’uomo sia «inclinato» al bene, ma che la sua coscienza debole finisca per deviarlo verso il male.
La perentorietà di questo pensiero è dettata anche dal contesto politico in cui esso matura. La tragica condizione italiana e gli alti e bassi della propria carriera politica accentuano il senso di sfiducia e di fallimento insito nel pensiero guicciardiano. La riflessione amara e disincantata dello storico, del politico e dell’analista dell’agire umano finisce inevitabilmente per coincidere.
Guicciardini è convinto che la crisi politico-militare italiana sia irreversibile; ha conosciuto in prima persona gli uomini che hanno dominato la scena politica del tempo; ha assistito a quella sconvolgente tragedia che è stato il sacco di Roma: come potrebbe condividere ancora la foga eroica e vibrante di Machiavelli?
Lo stile
Il magnifico viaggio - volume 2
Il Quattrocento e il Cinquecento