T7 - In che modo la parola data debba essere mantenuta dai principi

T7

In che modo la parola data debba essere mantenuta dai principi

Il Principe, XVIII

È questo il capitolo che ha legittimato la falsa attribuzione a Machiavelli dell’espressione “il fine giustifica i mezzi”. Infatti, qui l’autore ribalta il punto di vista etico tradizionale, mettendo in discussione la necessità che il principe sia fedele e leale.

QUOMODO FIDES A PRINCIPIBUS SIT SERVANDA

Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede1 e vivere con integrità2

e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco3 si vede per esperienzia ne’

nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco

5      conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare4 e’ cervelli delli uomini: e alla fine

hanno superato quelli che si sono fondati in su la realtà.5

Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere:6 l’uno, con

le leggi;7 l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle

bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto

10    a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte

è suta8 insegnata alli principi copertamente9 da li antichi scrittori, e’ quali scrivono

come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire10 a Chirone

centauro,11 che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere

per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe

15    sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile.12

Sendo dunque necessitato13 uno principe sapere bene usare la bestia, debbe

di quelle pigliare la golpe e il lione:14 perché el lione non si difende da’ lacci, la

golpe non si difende da’ lupi;15 bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci,

e lione a sbigottire16 e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non

20    se ne intendono.17 Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare18

la fede quando tale osservanzia gli torni contro19 e che sono spente le cagioni20

che la feciono promettere. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non

sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi21 e non la osserverebbono a te,22 tu etiam23

non l’hai a osservare24 a loro; né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di

25    colorire la inosservanzia.25 Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e

mostrare quante pace, quante promisse sono state fatte irrite26 e vane per la infidelità

de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato.27

Ma è necessario questa natura saperla bene colorire ed essere gran simulatore e

dissimulatore: e sono tanto semplici28 gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità

30    presenti,29 che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.

Io non voglio delli esempli freschi30 tacerne uno. Alessandro sesto31 non fece

mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini, e sempre trovò subietto32

da poterlo fare: e non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare,

e con maggiori iuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno;33 nondimeno

35    sempre gli succederno gl’inganni ad votum,34 perché conosceva bene questa

parte del mondo.

A uno principe adunque non è necessario avere in fatto35 tutte le soprascritte36

qualità, ma è bene necessario parere37 di averle; anzi ardirò di dire questo:

che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono

40    utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero,38 religioso, ed essere: ma stare

in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia

diventare il contrario.39 E hassi a40 intendere questo, che uno principe e massime

uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini

sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare

45    contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione.41 E

però bisogna42 che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti

della fortuna e la variazione delle cose gli comandano; e, come di sopra dissi, non

partirsi43 dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato.44

Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca

50    cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo,

tutto pietà, tutto fede, tutto  integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa

più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità.45 E li uomini in universali46

iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a

sentire a pochi:47 ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’;

55    e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà

dello stato che gli difenda;48 e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi,

dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine.49

Facci50 dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre

fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso51

60    con quello che pare e con lo evento della cosa:52 e nel mondo non è se non

vulgo, e’ pochi53 non ci hanno luogo54 quando gli assai55 hanno dove appoggiarsi.

Alcuno principe de’ presenti tempi,56 il quale non è bene nominare, non predica

mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra,

quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato.

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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Secondo Machiavelli, l’etica deve essere subordinata alle leggi della politica. Per mantenere saldo il potere, il principe non deve ricorrere a qualità morali: importante è dare l’impressione di averle, sempre che tale simulazione sia utile alla sua causa. Il modello ideale, prefigurato dalla trattatistica medievale e umanistica, è superato: i sentimenti, i valori nobili, la bontà e la lealtà possono rappresentare perfino degli ostacoli per conservare lo Stato.

Sono le circostanze a consigliare la condotta giusta. Il discrimine non è costituito dal bene né dal male, ma dall’utile e dal dannoso ai fini del successo, cioè il mantenimento del potere. Il realismo impone a Machiavelli di evitare le ambiguità e di affermare la necessità anche di strumenti “non buoni”, ma indispensabili per reggere lo Stato. Il principe pronto a combattere dispone di due armi, le leggi e la forza (rr. 7-8): le prime adatte all’uomo, le seconde alle bestie. Per questo, egli deve sapere bene usare la bestia e lo uomo (r. 10). L’esempio di Chirone, centauro metà uomo e metà cavallo, educatore di principi ed eroi come Achille, mostra come queste due nature possano e anzi debbano coesistere.

Come sempre, Machiavelli ragiona seguendo il suo schema “dilemmatico”, qui proposto nella rappresentazione del lione, vale a dire della forza, e della golpe, cioè dell’astuzia (rr. 16-20). Infine, l’esempio concreto attinto dalla Storia, anche quella più recente (la vicenda di Alessandro VI), accredita il postulato teorico.

Ma quale immagine deve dare di sé all’esterno il principe? Come può ottenere e conservare il consenso dei suoi sudditi? Per rispondere a tali domande, Machiavelli riafferma il contrasto tra realtà e apparenza: quest’ultima conta, almeno in politica, più della prima.

Ciò non significa che egli esalti la finzione, la slealtà o il doppiogiochismo. Ma, per chi vuole guardare all’effettiva realtà dei fatti, tali condotte si rivelano talvolta – dolorosamente – inevitabili. Machiavelli immagina in anticipo i rilievi e le critiche che i difensori dell’etica pubblica potranno riservare a un indirizzo politico così disincantato e apparentemente cinico. Infatti usa una congiunzione tipica del suo argomentare, fatto di tesi e antitesi: nondimanco (r. 3). L’autore riconosce che sarebbe auspicabile che il principe si attenesse alla parola data e si comportasse lealmente con i sudditi: ciò sarebbe giustificabile se li uomini fussino tutti buoni (r. 22), un’ipotesi che il pessimismo machiavelliano esclude. Tuttavia (ecco il significato di quel nondimanco) l’esperienzia (r. 3) dice il contrario: nella lotta politica, a prevalere è sempre chi è capace di essere falso, doppio e ingannatore.

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La conclusione “scandalosa” richiede coraggio intellettuale. Machiavelli infatti sceglie di andare fino in fondo al ragionamento (ardirò di dire questo, r. 38), distinguendo ciò che vale per gli uomini chiamati buoni (r. 44) e ciò che vale per uno principe e massime uno principe nuovo (rr. 42-43): per quest’ultimo è doveroso parere pietoso e religioso, ed essere, ma, se le circostanze lo richiedono, diventare il contrario (rr. 40-42).

Il principe non deve agire secondo un codice precostituito, ma assecondare e’ venti della fortuna e la variazione delle cose (rr. 46-47): conclusione, certo, amara, ma inevitabile, data la vera realtà degli uomini, ribadita ancora alla fine del capitolo. Per la maggior parte essi, secondo Machiavelli, iudicano più alli occhi che alle mani (r. 53): non sono altro che vulgo (r. 61), cioè una massa informe senza discernimento e perciò incline a essere soggiogata dalla propaganda.

Le scelte stilistiche

La perentorietà delle affermazioni contenute in questo capitolo va di pari passo con la chiarezza con cui sono esposte. Non a caso Machiavelli si appella direttamente ai lettori, chiamandoli in causa con il “voi” (Dovete adunque sapere, r. 7). L’espediente serve a esprimere l’urgenza degli assunti e la logicità dei passaggi del discorso. Ecco spiegati l’uso di periodi brevi e secchi, caratterizzati dal tono definitivo di una massima proverbiale (non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato, rr. 47-48; e nel mondo non è se non vulgo, rr. 60-61), e il ricorso a congiunzioni con valore conclusivo (dunque, adunque, però con il significato di “perciò”, “pertanto”). Del resto, verbi, termini e nessi sintattici esprimono il senso della necessità e del dovere (è necessario, bisogna; presenza di imperativi e di esortativi). In questa direzione va anche l’immagine metaforica del centauro, che indica l’obbligo per un principe di coniugare la natura umana e quella animalesca della politica (bisogna a uno principe saper usare l’una e l’altra natura, rr. 14-15). Quest’ultima, secondo lo schema “dilemmatico” caro all’autore, si esplica in un’altra coppia metaforica: il leone e la volpe, simboli rispettivamente della forza e dell’astuzia.

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Dopo aver letto il capitolo, rispondi alla domanda che lo introduce: in che modo la parola data deve essere mantenuta dai principi?


2 Perché il principe deve essere al tempo stesso volpe e leone?


3 Quali limiti presenta il ricorso alla crudeltà e alla durezza?

ANALIZZARE

4 Rintraccia nel testo i termini (verbi, sostantivi, aggettivi) che rimandano all’area semantica della necessità.

INTERPRETARE

5 Spiega e commenta le seguenti espressioni contenute nel testo:

– si vede per esperienzia (r. 3);

– a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo (r. 10);

non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato (rr. 47-48);

– Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati (rr. 58-59).

SVILUPPARE IL LESSICO

6 Come emblemi dell’astuzia e della forza, Machiavelli usa due animali, la volpe e il leone, a cui tali caratteristiche sono state associate fin dai tempi delle favole di Esopo. A quali altri vizi e virtù sono associati i seguenti animali (in particolare nel gergo politico)?

lupo • pecora coniglio serpente falchi e colombe

scrivere per...

argomentare

Nella sua analisi realistica, Machiavelli sostiene che il principe è spesso necessitato a venir meno alla parola data. Spostando l’attenzione sulla dimensione privata, rifletti se esistano dei casi in cui è possibile, se non approvare, almeno giustificare l’assenza di lealtà. Scrivi un testo argomentativo di circa 30 righe.

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