T5 - I principati nuovi che si acquistano con le armi altrui e con la fortuna

T5

I principati nuovi che si acquistano con le armi altrui e con la fortuna

Il Principe, VII

Dagli esempi degli antichi eroi si giunge qui a un modello di principe contemporaneo. In questo capitolo, Machiavelli si sofferma a delineare le caratteristiche di un principe condotto al potere dalla fortuna e dalle milizie altrui: la figura dell’eroe virtuoso capace di plasmare, grazie all’azione, la materia offertagli dalla fortuna è Cesare Borgia, detto il Valentino.

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DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ALIENIS ARMIS ET FORTUNA ACQUIRUNTUR

Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano di privati1 principi, con poca fatica

diventono, ma con assai si mantengono;2 e non hanno alcuna difficultà fra via,

perché vi volano:3 ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti.4 E questi

5      tali sono quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi

lo concede: come intervenne a molti in Grecia nelle città di Ionia e di Ellesponto,

dove furno fatti principi da Dario,5 acciò le tenessino per sua sicurtà e gloria;6

come erano fatti ancora quelli imperadori che di privati, per corruzione de’ soldati,

pervenivano allo imperio.7

10    Questi stanno semplicemente in su8 la volontà e fortuna di chi lo ha concesso

loro, che sono dua cose volubilissime e instabili, e non sanno e non possono

tenere quello grado:9 non sanno, perché s’e’ non è uomo di grande ingegno e

virtù, non è ragionevole che, sendo10 vissuto sempre in privata fortuna,11 sappia

comandare; non possono, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e

15    fedeli. Di poi12 gli stati che vengono subito, come tutte l’altre cose della natura che

nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e correspondenzie loro13

in modo che il primo tempo avverso non le spenga,14 – se già quelli tali, come è

detto, che sì de repente sono diventati principi non sono di tanta virtù che quello

che la fortuna ha messo loro in grembo e’ sappino subito prepararsi a conservarlo,

20    e quelli fondamenti, che gli altri hanno fatti avanti che diventino principi, gli

faccino poi.15

Io voglio all’uno e l’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per

virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra:16 e

questi sono Francesco Sforza17 e Cesare Borgia.18 Francesco, per li debiti mezzi19

25    e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con

mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Da l’altra parte, Cesare

Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna

del padre e con quella lo perdé, non ostante che per lui20 si usassi ogni opera e

facessinsi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare

30    per mettere le barbe sua21 in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva

concessi. Perché, come di sopra si disse, chi non fa e’ fondamenti22 prima, gli

potrebbe con una grande virtù farli poi, ancora che23 si faccino con disagio dello

architettore e periculo dello edifizio. Se adunque si considerrà tutti e’ progressi24

del duca, si vedrà lui aversi fatti grandi fondamenti alla futura potenza; e’ quali

35    non iudico superfluo discorrere25 perché io non saprei quali precetti mi dare26

migliori, a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sue: e se gli ordini

sua non gli profittorno,27 non fu sua colpa, perché nacque da28 una estraordinaria

ed estrema malignità di fortuna.

Aveva Alessandro VI,29 nel volere fare grande il duca suo figliuolo, assai difficultà

40    presenti e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno

stato che non fussi stato di Chiesa:30 e, volgendosi a tòrre quello della Chiesa,

sapeva che il duca di Milano e ’ viniziani non gliene consentirebbono,31 perché Faenza

e Rimino erano di già sotto la protezione de’ viniziani. Vedeva oltre a questo

l’arme di Italia,32 e quelle in spezie di chi si fussi potuto servire, essere nelle mani

45    di coloro che dovevano temere la grandezza del papa, – e però33 non se ne poteva

fidare, – sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro complici.34 Era adunque necessario

si turbassino quelli ordini35 e disordinare36 gli stati di Italia, per potersi

insignorire sicuramente di parte di quelli.37 Il che gli fu facile, perché e’ trovò e’

viniziani che, mossi da altre cagioni, si erano volti a fare ripassare e’ franzesi in

50    Italia:38 il che non solamente non contradisse,39 ma lo fe’ più facile con la resoluzione

del matrimonio antico del re Luigi.40

Passò adunque il re in Italia con lo aiuto de’ viniziani e consenso di Alessandro:

né prima fu in Milano che il papa ebbe da lui gente41 per la impresa di Romagna,42

la quale gli fu acconsentita per la reputazione43 del re. Acquistata adunque il duca

55    la Romagna e sbattuti44 e’ Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più

avanti, lo impedivano45 dua cose: l’una, le arme sua che non gli parevano fedeli;

l’altra, la volontà di Francia; cioè che l’arme Orsine, delle quali si era valuto, gli

mancassino sotto, e non solamente gl’impedissino lo acquistare ma gli togliessino

lo acquistato, e che il re ancora non li facessi il simile.46 Delli Orsini ne ebbe uno

60    riscontro quando, dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che gli vidde

andare freddi in quello assalto;47 e circa il re conobbe lo animo suo quando, preso

el ducato d’Urbino assaltò la Toscana: da la quale impresa il re lo fece  desistere.

Onde che48 il duca deliberò di non dependere più da le arme e fortuna d’altri;

e, la prima cosa, indebolì le parte Orsine e Colonnese in Roma: perché tutti gli

65    aderenti loro, che fussino gentili49 uomini, se gli guadagnò,50 faccendoli suoi gentili

uomini e dando loro grandi provisioni,51 e onorògli, secondo le loro qualità,

di condotte e di governi:52 in modo che in pochi mesi negli animi loro l’affezione

delle parti si spense e tutta si volse nel duca. Dopo questo, aspettò la occasione di

spegnere e’ capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale gli venne

70    bene, e lui la usò meglio.53 Perché, avvedutosi54 gli Orsini tardi che la grandezza

del duca e della Chiesa era la loro ruina feciono una dieta alla Magione nel Perugino;55

da quella nacque la ribellione di Urbino, e’ tumulti di Romagna e infiniti

periculi del duca, e’ quali tutti superò con l’aiuto de’ franzesi. E ritornatoli la

reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a

75    cimentare56 si volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l’animo suo che li Orsini

medesimi, mediante il signore Paulo,57 si riconciliorno seco,58 – con il quale il

duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo,59 dandoli danari veste e

cavalli, – tanto che la simplicità60 loro gli condusse a Sinigaglia nelle sua mani.61

Spenti adunque questi capi e ridotti e’ partigiani loro sua amici, aveva il duca

80    gittati assai buoni fondamenti alla potenza sua, avendo tutta la Romagna col ducato

di Urbino, parendoli massime aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi

quelli populi per avere cominciato a gustare il bene essere loro.62 E perché

questa parte è degna di notizia e da essere da altri imitata, non la voglio lasciare

indreto.63 Presa che ebbe il duca la Romagna e trovandola suta comandata64 da signori

85    impotenti, – e’ quali più presto avevano spogliati e’ loro sudditi che corretti,

e dato loro materia di disunione, non d’unione,65 – tanto che quella provincia era

tutta piena di latrocini, di brighe e d’ogni altra ragione di insolenzia,66 iudicò fussi

necessario, a volerla ridurre pacifica e ubbidiente al braccio regio,67 dargli buono

governo: e però vi prepose messer Rimirro de Orco,68 uomo crudele ed espedito,69

90    al quale dette plenissima potestà.70 Costui in poco tempo la ridusse pacifica e

unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò il duca non essere necessaria

sì eccessiva autorità perché dubitava non71 divenissi odiosa, e preposevi uno iudizio

civile72 nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo,73 dove

ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate avergli

95    generato qualche odio,74 per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in

tutto,75 volse mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita,76 non era causata da lui

ma da la acerba natura del ministro.77 E presa sopra a questo occasione,78 lo fece, a

Cesena, una mattina mettere in dua pezzi79 in su la piazza, con uno pezzo di legne

e uno coltello sanguinoso accanto:80 la ferocità del quale spettaculo fece quegli

100  popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.81

Ma torniamo donde noi partimmo. Dico che, trovandosi il duca assai potente

e in parte assicurato de’ presenti periculi, per essersi armato a suo modo e avere in

buona parte spente quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, gli restava, volendo

procedere collo acquisto,82 el respetto del83 re di Francia: perché conosceva come

105  dal re, il quale tardi s’era accorto dello errore suo, non gli sarebbe sopportato.84 E cominciò

per questo a cercare di amicizie nuove e vacillare con Francia,85 nella venuta

che feciono franzesi verso el regno di Napoli contro alli spagnuoli che assediavano

Gaeta;86 e lo animo suo era assicurarsi di loro:87 il che gli sarebbe presto riuscito, se

Alessandro viveva.88 E questi furno e’ governi sua,89 quanto alle cose presenti.

110  Ma quanto alle future, lui aveva a dubitare90 in prima che uno nuovo successore

alla Chiesa91 non gli fussi amico e cercassi torgli92 quello che Alessandro li aveva

dato. Di che pensò assicurarsi93 in quattro modi: prima, di spegnere tutti e’ sangui94

di quelli signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione;

secondo, di guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma, come è detto, per potere

115  con quelli tenere il papa in freno; terzo, ridurre il Collegio più suo che poteva;95

quarto, acquistare tanto imperio,96 avanti che il papa morissi, che potessi per sé

medesimo resistere a uno primo impeto. Di queste quattro cose, alla morte di

Alessandro ne aveva condotte tre, la quarta aveva quasi per condotta: perché de’

signori spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere97 e pochissimi si salvorno,

120  e’ gentili uomini romani si aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima

parte; e quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana e

possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione. E come

e’ non avessi avuto ad avere rispetto a Francia, – che non gliene aveva ad avere più,

per essere di già e’ franzesi spogliati del Regno da li spagnuoli: di qualità che ciascuno

125  di loro era necessitato comperare l’amicizia sua, – e’ saltava in Pisa.98 Dopo

questo, Lucca e Siena cedeva99 subito, parte per invidia100 de’ fiorentini, parte per

paura; e’ fiorentini non avevano rimedio.101 Il che se gli fussi riuscito, – che gli riusciva102

l’anno medesimo che Alessandro morì, – si acquistava tante forze e tanta

reputazione che per sé stesso103 si sarebbe retto e non sarebbe più dependuto104 da

130  la fortuna e forze di altri, ma da la potenza e virtù sua.

Ma Alessandro morì dopo cinque anni che egli aveva cominciato a trarre fuora

la spada:105 lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato,106 con tutti li

altri in aria,107 in fra dua potentissimi eserciti inimici108 e malato a morte.109 Ed

era nel duca tanta ferocità110 e tanta virtù, e sì bene conosceva come li uomini si

135  hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco

tempo si aveva fatti, che s’e’ non avessi avuto quelli eserciti addosso, o lui fussi

stato sano, arebbe retto a ogni difficultà.

E che e’ fondamenti sua fussino buoni, si vidde: che la Romagna lo aspettò più

d’uno mese;111 in Roma, ancora che mezzo vivo,112 stette sicuro, e, benché Baglioni,

140  Vitelli e Orsini113 venissino in Roma, non ebbono séguito114 contro di lui; possé

fare, se non chi e’ volle, papa, almeno ch’e’ non fussi chi e’ non voleva.115 Ma se

nella morte di Alessandro fussi stato sano, ogni cosa gli era facile: e lui mi disse,

ne’ dì che fu creato Iulio II,116 che aveva pensato a ciò che potessi nascere morendo

el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto ch’e’ non pensò mai, in su la sua

145  morte,117 di stare ancora lui118 per morire.

Raccolte119 io adunque tutte le azioni del duca, non saprei riprenderlo:120 anzi

mi pare, come io ho fatto, di preporlo imitabile121 a tutti coloro che per fortuna e

con le arme di altri sono ascesi allo imperio; perché lui, avendo l’animo grande e

la sua intenzione alta,122 non si poteva governare123 altrimenti, e solo si oppose alli

150  sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia. Chi adunque iudica

necessario nel suo principato nuovo assicurarsi delli124 inimici, guadagnarsi delli

amici; vincere o per forza o per fraude; farsi amare e temere da’ populi, seguire e

reverire da’ soldati; spegnere quelli che ti possono o debbono offendere; innovare

con nuovi modi gli ordini antiqui; essere severo e grato, magnanimo e liberale;

155  spegnere la milizia infedele, creare della nuova; mantenere l’amicizie de’ re e de’

principi in modo ch’e’ ti abbino a benificare con grazia o offendere con respetto;125

non può trovare e’ più freschi esempli che le azioni di costui.126

Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontefice, nella quale il

duca ebbe mala elezione.127 Perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo

160  modo, poteva tenere128 che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire129 al

papato di quelli cardinali che lui avessi offesi o che,

divenuti papa, avessino ad aver paura di lui: perché

gli uomini offendono o per paura o per odio. Quelli

che lui aveva offeso erano, in fra li altri, San Piero ad

165  Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio; tutti li altri

avevano, divenuti papi, a temerlo, eccetto Roano e gli

spagnuoli: questi per coniunzione e obligo, quello

per potenza, avendo coniunto seco el regno di Francia.130

Pertanto el duca innanzi a ogni cosa doveva

170  creare papa uno spagnuolo: e, non potendo, doveva

consentire a Roano, non a San Piero ad Vincula. E

chi crede che ne’ personaggi grandi e’ benifizi nuovi

faccino sdimenticare le iniurie131 vecchie, s’inganna.

Errò adunque el duca in questa elezione, e fu cagione

175  dell’ultima132 ruina sua.

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Riscrittura in italiano moderno di Luigi Firpo

7. I principati nuovi che si acquistano con le armi di altri e con la fortuna


1 Coloro che solamente con l’aiuto della fortuna da privati cittadini diventano principi, con poca fatica diventano principi, ma con grande fatica mantengono il potere. Essi non incontrano alcuna difficoltà lungo il percorso, perché lo fanno come se volassero. Ma tutte le difficoltà sorgono quando sono giunti al potere. Casi di questo tipo si presentano, quando un principe ottiene uno stato o per danari o per la grazia di chi lo concede. Ciò avvenne a molti in Grecia, nelle città della Ionia e dell’Ellesponto. Essi furono fatti principi da Dario, affinché mantenessero quelle città per la sua sicurezza e per la sua gloria. Ciò avvenne ancora a quegli imperatori romani che, da cittadini privati, pervenivano al potere mediante la corruzione dei soldati. Essi restano semplicemente in balia della volontà e della fortuna di chi ha loro concesso il potere, due cose molto volubili e instabili. E non sanno e non possano mantenere quel grado. Non sanno, perché, se non è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, essendo sempre vissuto come cittadino privato, sappia comandare. Non possono, perché non hanno forze che possano essere loro amiche e fedeli. E poi gli stati che sono sorti in pochissimo tempo, come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono in poco tempo, non possono far penetrare in profondità le loro radici e le loro ramificazioni. In tal modo il primo tempo avverso li spegne, se, come si è detto, costoro, che così rapidamente sono diventati principi, non sono di tanta virtù che sappiano subito prepararsi a conservare quello che la fortuna ha messo loro in grembo, e gli costruiscano poi quelle fondamenta che gli altri principi hanno fatto prima di diventare principi.


2 All’uno e all’altro di questi modi di diventare principe per virtù o per fortuna io voglio addurre due esempi che sono avvenuti a nostra memoria. Essi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco Sforza con i debiti mezzi e con una grande virtù, da privato diventò duca di Milano. E quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Cesare Borgia, chiamato dal volgo duca Valentino, acquistò invece lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdette. Non servì a nulla che usasse ogni opera e facesse tutte quelle cose che un uomo prudente e virtuoso doveva fare, per mettere le radici in quegli stati che le armi e la fortuna di altri gli avevano concesso. Come più sopra si disse, chi non fa le fondamenta prima, potrebbe con una grande virtù farle poi, per quanto si facciano con disagio dell’architetto e pericolo dell’edificio. Se dunque si considerano tutti i modi di agire del duca, si vedrà che egli ha fatto grandi fondamenta alla sua futura potenza. Di esse non giudico superfluo discutere, perché io non saprei quali precetti migliori dare a un principe nuovo, che l’esempio delle sue azioni. E, se i suoi ordinamenti politici non gli recarono profitto, non fu colpa sua, perché ciò dipese da una straordinaria ed estrema malignità della fortuna.


3 Nel voler fare grande il duca suo figlio, Alessandro VI aveva numerose difficoltà presenti e future. Per prima cosa non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fosse lo stato di Chiesa. E, se si volgeva a togliere quello della Chiesa, sapeva che il duca di Milano e i veneziani non glielo avrebbero acconsentito, perché Faenza e Rimini erano già sotto la protezione dei veneziani. Per seconda cosa vedeva che gli eserciti dell’Italia (in particolare quello di colui di cui si poteva servire) erano nelle mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa. Perciò non se ne poteva fidare, poiché erano tutti capeggiati dagli Orsini e dai Colonna, e dai loro complici. Era adunque necessario che si sconvolgessero quegli ordinamenti politici e che si disarticolassero gli stati di costoro, per far sì che egli si potesse insediare con sicurezza su parte di quegli stati. Ciò gli fu facile; perché trovò che i veneziani, mossi da altre cause, avevano deciso di far ritornare i francesi in Italia. Ciò non solamente non ostacolò i suoi piani, ma li rese anche più facili con lo scioglimento del precedente matrimonio del re Luigi XII. Il re passò dunque in Italia con l’aiuto dei veneziani e con il consenso di Alessandro VI. Non era giunto a Milano, che il papa ebbe da lui un contingente di soldati per l’impresa di Romagna. Essa gli fu resa possibile per la reputazione del re. Così egli acquistò la Romagna e batté i Colonna. Per mantenerla e per procedere con i suoi piani, il duca era impedito da due cose: l’una, le sue armi che non gli sembravano fedeli; l’altra, la volontà della Francia. Egli temeva che le armi degli Orsini, delle quali si era finora valso, lo abbandonassero, e non solamente gli impedissero di acquistare altri territori, ma gli togliessero anche quelli che aveva acquistato. Temeva che anche il re si comportasse allo stesso modo. Della scarsa affidabilità degli Orsini ebbe un riscontro di lì a poco, quando dopo l’espugnazione di Faenza, assalì Bologna. Li vide andare freddi in quell’assalto. Circa il re, conobbe il suo animo quando, conquistato il Ducato di Urbino, assalì la Toscana. Da questa impresa il re lo fece desistere. Perciò il duca decise di non dipendere più dalle armi e dalla fortuna di altri. Per prima cosa indebolì i partigiani degli Orsini e dei Colonna in Roma: guadagnò tutti i loro aderenti che fossero gentiluomini, facendoli suoi gentiluomini e dando loro grandi stipendi. Secondo le loro qualità li onorò di comandi militari e di governi. In tal modo in pochi mesi negli animi loro l’attaccamento alle fazioni si spense e si volse tutto verso il duca. Dopo questa, aspettò l’occasione di spegnere gli Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna. L’occasione gli giunse bene ed egli la usò meglio. Gli Orsini si erano accorti troppo tardi che la grandezza del duca e della Chiesa erano la loro rovina. Perciò fecero una riunione alla Magione, nel territorio di Perugia. Da quella riunione nacquero la ribellione di Urbino, i tumulti di Romagna e infiniti altri pericoli. Il duca li superò tutti con l’aiuto dei francesi. Una volta riacquistata la reputazione, non fidandosi della Francia né delle altre forze esterne, per non doversi scontrare con esse, ricorse agli inganni. Seppe tanto dissimulare il suo animo, che gli Orsini, attraverso il signor Paolo Orsini, si riconciliarono con lui. Con lui il duca ricorse a ogni genere di cortesie per rassicurarlo. Gli diede danari, vesti e cavalli; tanto che la loro semplicità li condusse a Senigallia nelle sue mani. Spegnendo questi capi e riducendo i loro partigiani ad amici suoi, il duca aveva gettato fondamenta molto buone alla sua potenza: aveva il possesso della Romagna con il ducato di Urbino. In particolare gli sembrava di aver acquistato l’amicizia della Romagna e di essersi guadagnato tutti quei popoli, che avevano incominciato a gustare il loro bene essere.

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4 Questa parte è degna di nota e merita di essere imitata da altri, perciò non la voglio tralasciare. Il duca conquistò la Romagna e trovò che era stata comandata da signori impotenti, che avevano spogliato i loro sudditi più che riportati all’ordine. E avevano dato loro motivi di disunione, non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocini, di brighe e di ogni altro genere di insolenza. Per ridurla pacifica e obbediente al potere sovrano, egli giudicò che fosse necessario darle un buon governo. Perciò vi prepose messer Remirro de Orco, un uomo crudele e di modi sbrigativi, al quale dette i pieni poteri. Costui in poco tempo la ridusse pacifica ed unita, ottenendo una grandissima reputazione. Il duca giudicò poi che non era necessario un’autorità così eccessiva, perché temeva che divenisse odiosa. E prepose un tribunale civile al centro della provincia con un presidente davvero eccellente. In esso ogni città aveva il suo avvocato. E, poiché capiva che le repressioni precedenti gli avevano procurato qualche odio, per liberare da ogni ostilità gli animi di quei popoli e guadagnarseli del tutto, volle mostrare che, se era avvenuta qualche crudeltà, non era stata colpa sua, ma del cattivo carattere del ministro. Cogliendo l’occasione opportuna, una mattina lo fece mettere tagliato in due pezzi sulla piazza di Cesena, con uno pezzo di legno e un coltello insanguinato accanto. La ferocia di quello spettacolo fece sì che quei popoli rimanessero ad un tempo soddisfatti e stupiti.


5 Ma ritorniamo al punto di partenza. Dico che il duca si trovava assai potente e in parte si era assicurato dei presenti pericoli, poiché si era armato a suo modo e aveva in buona parte spente quelle armi che, vicine, lo potevano offendere. Ora, se voleva procedere con l’acquisto di altri territori, gli restava il rispetto del re di Francia. Egli capiva che il re, il quale si era accorto troppo tardi del suo errore, non glielo avrebbe permesso. Per questo motivo incominciò a cercare nuove amicizie e a prendere le distanze con Francia, quando i francesi fecero una spedizione verso il Regno di Napoli contro agli spagnoli che assediavano Gaeta. La sua intenzione era quella di assicurarsi la loro neutralità. Ciò gli sarebbe facilmente riuscito, se Alessandro VI fosse rimasto in vita.


6 Questi furono i suoi comportamenti quanto alle cose presenti. Ma, quanto alle future, egli temeva in primo luogo che il nuovo successore alla Chiesa non gli fosse amico e che cercasse di togliergli quello che Alessandro VI gli aveva dato. Pensò di eliminare ogni incertezza in quattro modi: primo, spegnere tutti i discendenti di quelli signori che egli aveva spogliato, per togliere al papa quell’occasione; secondo, guadagnarsi tutti i gentiluomini di Roma, per potere tenere con quelli il papa in freno; terzo, ridurre il Collegio dei cardinali più suo che poteva; quarto, acquistare tanto potere, prima che il papa morisse, da poter resistere da solo a un primo scontro. Alla morte di Alessandro VI aveva condotto a termine tre di queste quattro imprese. Aveva quasi portato a termine anche la quarta. Dei signori spogliati dei loro beni ne ammazzò quanti ne poté raggiungere, e pochissimi si salvarono. Si era guadagnato i gentiluomini romani. E nel Collegio cardinalizio aveva grandissimo seguito. Quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato di diventare signore della Toscana. Possedeva già Perugia e Piombino, e aveva preso la protezione di Pisa. E, come se non dovesse avere rispetto per la Francia (non gliene doveva più, perché i francesi erano già stati spogliati del Regno di Napoli dagli spagnoli, così che ciascuno di loro era costretto a comperare la sua amicizia), assaliva con successo la città di Pisa. Dopo questo, Lucca e Siena cedevano subito, in parte per invidia dei fiorentini, in parte per paura. I fiorentini non avevano alcun rimedio da opporre. Se ciò gli fosse riuscito (gli riusciva l’anno stesso in cui Alessandro VI moriva), acquistava tante forze e tanta reputazione, che si sarebbe sorretto da solo, e non sarebbe più dipeso dalla fortuna né dalle forze di altri, ma dalla sua potenza e dalla sua virtù. Ma Alessandro VI morì dopo cinque anni che egli aveva incominciato a impugnare la spada. Lo lasciò con lo Stato di Romagna solamente consolidato, con tutti gli altri in aria, tra due potentissimi eserciti nemici, e soprattutto malato a morte. Il duca era di grande ferocia e di grande virtù; conosceva bene come gli uomini si guadagnano e si perdono; e al suo stato aveva anche saputo costruire valide fondamenta in poco tempo. Per questo motivo, se non avesse avuto quegli eserciti addosso o se egli fosse stato sano, avrebbe saputo far fronte a ogni difficoltà. E che le sue fondamenta fossero buone, si vide con sicurezza: la Romagna l’aspettò per più d’un mese; a Roma, per quanto mezzo morto, stette sicuro; e, benché Ballioni, Vitelli ed Orsini venissero in Roma, non tentarono nulla contro di lui. Egli poté fare papa, se non chi egli voleva, almeno che non fosse chi non voleva. Ma, se alla morte di Alessandro VI fosse stato sano, ogni cosa gli era facile. Egli mi disse, nei giorni in cui fu nominato Giulio II, che aveva pensato a ciò che poteva succedere, alla morte di suo padre, e a tutto aveva trovato rimedio, eccetto che non pensò mai, alla sua morte, di stare ancora lui per morire.


7 Riflettendo su tutte le azioni del duca qui riportate, non saprei rimproverarlo. Mi pare anzi, come ho già fatto, di poterlo indicare come modello da imitare per tutti coloro che grazie alla fortuna e con le armi di altri sono saliti al potere. Egli aveva un grande animo e una nobile intenzione, perciò non si poteva comportare in altro modo. Ai suoi disegni si oppose soltanto la brevità della vita di Alessandro VI e la sua malattia. Chi dunque giudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi dei nemici, guadagnarsi degli amici, vincere o per forza o per frode, farsi amare e temere dai popoli, farsi seguire e farsi temere dai soldati, spegnere quelli che ti possono o ti devono offendere, innovare con nuove istituzioni gli ordinamenti politici antichi, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, crearne una nuova, mantenere le amicizie di re e di principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o a offendere con rispetto, non può trovare esempi più freschi che le azioni di costui. Si può solamente muovergli qualche rimprovero per la nomina del pontefice Giulio II, nella quale egli fece una cattiva scelta. Come si è detto, se non poteva fare un papa a suo modo, poteva almeno ottenere che uno non fosse papa. Non doveva neanche permettere che divenisse papa uno di quei cardinali che egli aveva offeso o, se lo diveniva, doveva fare in modo che avesse paura di lui. Gli uomini offendono o per paura o per odio. Quelli che egli aveva offeso erano, fra gli altri, San Pietro in Vincoli, Giovanni Colonna, San Giorgio, Ascanio Sforza. Tutti gli altri cardinali, che fossero divenuti papa, dovevano temerlo, eccetto Roano e gli spagnoli. Questi per il legame di parentela e per obbligo; quello per la potenza, poiché aveva alle spalle il re di Francia. Pertanto il duca, prima di ogni altra cosa, doveva creare papa uno spagnolo. Non potendo, doveva acconsentire che fosse Roano e non San Pietro in Vincoli. E chi crede che nei grandi personaggi i benefici nuovi facciano dimenticare le ingiurie vecchie, si inganna. Il duca quindi commise un errore in questa elezione. E questo errore fu causa della sua rovina definitiva.

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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

A differenza della condizione analizzata nel capitolo VI, nel VII Machiavelli prende in esame una situazione più difficile, quella di chi voglia mantenere il potere dovendo dipendere dall’arme e fortuna di altri. Questa è un’impresa ardua, in quanto al principe che ha beneficiato della fortuna spetta il compito poi di emanciparsi da essa. Infatti, uno Stato costituito solo grazie al concorso di circostanze esterne propizie è paragonato a un albero cresciuto in fretta, senza barbe e correspondenzie (r. 16), cioè senza radici e ramificazioni: questa metafora botanica rivela ancora una volta la concezione naturalistica di Machiavelli e rende l’idea della vulnerabilità dello Stato, se a esso non vengono fornite al più presto le fondamenta (fondamenti, r. 20), che la fortuna non è in grado di erigere.

Fatte queste premesse generali su Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano di privati principi (r. 2), Machiavelli dedica tutto il capitolo a una figura esemplare: il duca Valentino, Cesare Borgia, figlio naturale di papa Alessandro VI. La ricostruzione della vicenda del Valentino offre un documento eccezionale della realtà delle lotte per il potere in un Cinquecento brutale e sanguinario, ben lontano dall’immagine idealizzante divulgata dall’arte rinascimentale. Il personaggio, così come lo delinea Machiavelli, assume le fattezze di un eroe tragico e grandioso, in lotta con gli ingranaggi di un potere losco e subdolo, costretto a soccombere, pure a dispetto delle sue grandi virtù.

Per descrivere l’azione politica del principe seguiremo l’andamento cronologico utilizzato dall’autore isolando tre fasi essenziali: la conquista dello Stato; il rafforzamento del potere; i progetti futuri e la sconfitta.

Il racconto delle vicende del Valentino inizia con le difficultà presenti e future di papa Alessandro VI nel volere fare grande il duca suo figliuolo (rr. 38-39) e dargli un principato. La discesa in Italia di Luigi XII permette al pontefice di superare i due ostacoli maggiori: l’opposizione veneziana e milanese e l’insidia rappresentata dalle fazioni legate alle potenti famiglie romane degli Orsini e dei Colonna.

Ottenuto il principato, Cesare Borgia mostra risolutezza nel non dipendere più dall’arme e fortuna di altri (r. 30). Machiavelli indica le sue iniziative più lungimiranti (e, in alcune occasioni, efferate, ma ciò non induce l’autore a stigmatizzarle): uccidere gli Orsini, accaparrarsi il favore dei romagnoli, preparare un’alleanza con gli spagnoli.

Il Valentino è consapevole che la stabilità del suo Stato deriva dal favore del papa, e inizia a operare in modo che il pontefice destinato a succedere al padre non gli sia ostile. A questo fine, uccide gli eredi e i parenti di quelli che aveva spogliato di beni e potere, e si guadagna il favore dei nobili romani e del Collegio cardinalizio.

Eppure, nonostante la sua abilità, il tentativo del Valentino fallisce. L’avversativa usata da Machiavelli (Ma Alessandro morì, r. 131) evidenzia l’ingerenza negativa della fortuna, che si concretizza nella morte del padre e nella malattia del principe. Il capitolo dunque sembrerebbe avviarsi a un epilogo sconsolante: la fortuna è onnipotente, se è vero che anche un uomo “virtuoso” come il Valentino non ha potuto resisterle. Tuttavia, in conclusione Machiavelli introduce una diversa valutazione e attribuisce al Valentino un fatale errore di calcolo. Solamente si può accusarlo (r. 158) di non avere evitato che alla morte di papa Pio III ascendesse al soglio pontificio un irriducibile nemico dei Borgia, Giuliano della Rovere: la ruina (r. 175) di Cesare Borgia è dipesa proprio da questa mala elezione (r. 159).
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VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Riassumi in 20 righe il contenuto del capitolo.


2 L’insuccesso finale del Valentino viene spiegato da Machiavelli fornendo, in passi diversi, due interpretazioni contraddittorie tra loro. Quali?

ANALIZZARE

3 Quali eventi, tra quelli narrati, hanno avuto Machiavelli come testimone diretto?

INTERPRETARE

4 Oltre a quello di Cesare Borgia, l’autore analizza anche l’operato di Francesco Sforza. Perché?


5 Sintetizza le ragioni dell’ammirazione di Machiavelli per il Valentino esposte nel capitolo.

scrivere per...

COMUNICARE

6 Immagina di essere l’avvocato difensore del Valentino e il pubblico ministero che lo accusa. Metti per iscritto le due arringhe.

Dibattito in classe

7 Secondo Machiavelli, il potere politico conquistato con l’appoggio di altri è più instabile rispetto a quello conquistato facendo affidamento unicamente sui propri mezzi. Sei d’accordo con lui? Ti vengono in mente esempi, storici o recenti, che suffraghino l’una o l’altra tesi? Discutine con i compagni.

intrecci STORIA

La spietatezza al potere: Cesare Borgia

La vita pubblica di Cesare Borgia, nato a Roma nel 1475, iniziò nel 1492, quando il padre Rodrigo venne eletto papa con il nome di Alessandro VI. Già vescovo di Pamplona, cardinale dal 1493, Cesare aveva però tra sé e il successo la presenza del fratello minore, Giovanni, figlio prediletto del papa. La sua scomparsa misteriosa e prematura rappresentò il via libera ai suoi sogni di gloria. Che cosa era successo? Di certo sappiamo solo che il corpo di Giovanni fu ripescato nelle acque del Tevere, nel giugno 1497. Chi lo aveva ucciso? Si fece subito una ridda di ipotesi: gli Orsini, gli Sforza, addirittura la vendetta di un marito tradito. In ultimo, i sospetti caddero su Cesare, ma non furono mai confermati. Sicuro è invece che, dopo la scomparsa del rivale, egli non incontrò più ostacoli: deposta la dignità cardinalizia (1498), ottenne dal re di Francia la contea del Valentinois, che, mutata in ducato, gli diede il nome di duca Valentino.

Sposò poi la sorella del re di Navarra (1499) e, con milizie fornitegli dal re di Francia e assoldate con i denari del papa, si creò uno Stato. S’impadronì infatti di Imola e Forlì (1499-1500) per poi riprendere la conquista della Romagna. Aiutò la Francia nella guerra per la spartizione del Regno di Napoli; come duca di Romagna, si impossessò del Ducato di Urbino e di Camerino. Le pagine di Machiavelli ci informano su tutte le sue azioni successive. Messo in pericolo il suo Stato dalle ribellioni di Urbino e Camerino, Cesare seppe patteggiare e creare divisioni tra i congiurati, sbarazzandosi, con il tradimento a Senigallia, di alcuni di essi. Meditava progetti di espansione, ma la morte del padre (1503) stroncò i suoi disegni. Dopo il breve pontificato di Pio III, Giulio II della Rovere (di una famiglia rivale dei Borgia) tolse al Valentino il governo della Romagna e lo imprigionò. Fuggito, morì nel 1507 durante l’assedio di Viana, in Spagna.

Il magnifico viaggio - volume 2
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Il Quattrocento e il Cinquecento