Epistolario
Le oltre duecento lettere di Machiavelli che ci sono pervenute si differenziano nettamente da quelle dei suoi predecessori e contemporanei. Infatti, all’autore non interessa utilizzare questo mezzo per tramandare un’immagine idealizzata di sé ai posteri, come nel caso di Petrarca, o esibirsi in un’elegante esercitazione di stile, come era nella tradizione classica e umanistica: le lettere di Machiavelli non sono scritte per essere pubblicate. Esse sono un vero e spontaneo documento di vita, in cui l’autore rivela ai suoi corrispondenti il proprio temperamento e stato d’animo nei diversi frangenti di una movimentata esistenza umana e politica.
I temi più ricorrenti riguardano la situazione politica, i pronostici sugli scenari possibili, le previsioni e i giudizi sui diversi protagonisti della scena pubblica. Questo non sorprende, data la passione con cui Machiavelli vive la sua militanza civile. Tuttavia, accanto alle parti più serie, troviamo spesso vivaci descrizioni della sua vita intima, bozzetti e facezie: ne esce un ritratto vivido e divertente di un Machiavelli domestico, uomo tra gli uomini, costretto dai casi della vita a misurarsi, ma senza vittimismo, con le miserie della quotidianità.
Anche la forma riflette questa elastica capacità di mescolare il serio al faceto. Così, accanto allo stile teso e vibrante delle parti più politiche, troviamo un linguaggio popolaresco, perfino pittoresco, influenzato dalla tradizione comica e burlesca fiorentina.
T1
L’epistola a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513
Epistolario
È la lettera più nota dell’epistolario machiavelliano: vi ritroviamo un quadro vivace e colorito della vita semplice che l’autore, estromesso dalla politica, è costretto a condurre nella sua casa di campagna, all’Albergaccio, nel piccolo borgo di contadini vicino a San Casciano. Tuttavia, pur a contatto con gente rozza e incolta, non si è esaurita la passione intellettuale di Machiavelli, che annuncia all’amico (ambasciatore di Firenze a Roma) l’avvenuta stesura del Principe.
Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine.1 Dico questo, perché
mi pareva haver perduta no, ma smarrita2 la grazia vostra, sendo3 stato voi assai
tempo senza scrivermi; ed ero dubbio donde potessi nascere la cagione.4 E di tutte
quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando
5 io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi,5 perché vi fussi suto scritto6 che io
non fussi buon massaio7 delle vostre lettere; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo in
fuora,8 altri per mio conto9 non le haveva viste. Hònne rihaùto per l’ultima vostra
de’ 23 del passato,10 dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e
quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico;11 e io vi conforto a seguire12 così,
10 perché chi lascia i sua comodi13 per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non
li è saputo grado.14 E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla
fare,15 stare quieto e non le dare briga,16 e aspettar tempo che la lasci fare qualche
cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar17 più le cose,
e a me partirmi di villa18 e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari
15 grazie,19 dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate
che sia a barattarla20 con la vostra, io sarò contento mutarla.
Io mi sto in villa; e poi che seguirono21 quelli miei ultimi casi,22 non sono
stato, ad accozzarli23 tutti, venti dì a Firenze. Ho insino a qui uccellato a’ tordi di
mia mano.24 Levavomi innanzi dì,25 impaniavo,26 andavone oltre con un fascio di
20 gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di Amphitrione;27
pigliavo el meno28 dua, el più sei tordi. E così stetti tutto settembre. Di
poi questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano,29 è mancato con mio dispiacere:
e quale30 la vita mia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole, e vòmmene31
in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto dua ore a rivedere l’opere32 del giorno
25 passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche ▶ sciagura
alle mani33 o fra loro o co’ vicini. E circa questo bosco io vi harei a dire mille
belle34 cose che mi sono intervenute,35 e con Frosino da Panzano e con altri che
voleano di queste legne. E Frosino in spezie mandò per36 certe cataste senza dirmi
nulla; e al pagamento, mi voleva rattenere37 dieci lire, che dice aveva havere da
30 me quattro anni sono,38 che mi vinse a cricca39 in casa Antonio Guicciardini.40 Io
cominciai a fare el diavolo, volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per
ladro.41 Tandem42 Giovanni Machiavelli43 vi entrò di mezzo,44 e ci pose d’accordo.
Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini,
quando quella tramontana soffiava, ognuno me ne prese45 una catasta. Io promessi
35 a tutti; e manda’ne una a Tommaso, la quale tornò a Firenze per metà, perché a
rizzarla vi era lui, la moglie, la fante, i figlioli,46 che pareva el Gaburra quando el
giovedì con quelli suoi garzoni bastona un bue.47 Dimodoché, veduto in chi48 era
guadagno, ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo
grosso,49 e in specie Batista, che connumera50 questa tra le altre sciagure di Prato.
40 Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare.51
Ho un libro sotto,52 o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori,53 come
Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori
ricordomi de’ mia:54 gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in
sulla strada, nell’hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove55
45 de’ paesi loro; intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie56 d’huomini.
Viene in questo mentre57 l’hora del desinare, dove con la mia brigata58 mi mangio
di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta.59 Mangiato
che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio,60 un mugnaio,
dua fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo61 per tutto dì giuocando a cricca,
50 a trich-trach,62 e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose;
e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco
gridare da San Casciano.63 Così, rinvolto in tra questi pidocchi,64 traggo el cervello
di muffa,65 e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti
per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.66
55 Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio;67 e in sull’uscio mi
spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto,68 e mi metto panni reali
e curiali;69 e rivestito condecentemente,70 entro nelle antique corti delli antiqui
huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum
è mio e ch’io nacqui per lui;71 dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli72
60 della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono;
e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno,
non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.73
E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso74 – io ho
notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale,75 e composto uno
65 opuscolo De principatibus;76 dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni
di questo subietto,77 disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come
e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. E se vi piacque mai
alcuno mio ghiribizzo,78 questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e
massime79 a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto: però80 io lo indirizzo
70 alla Magnificentia di Giuliano.81 Filippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare
in parte e della cosa in sé e de’ ragionamenti ho hauto seco, ancora che tutta
volta io l’ingrasso e ripulisco.82
Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a
godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta83 hora è
75 certe mie faccende, che fra sei settimane l’harò fatte. Quello che mi fa star dubbio
è, che sono costì quelli Soderini, e quali sarei forzato, venendo costì, visitarli e
parlar loro.84 Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e
scavalcassi nel Bargiello; perché, ancora che questo stato habbia grandissimi fondamenti
e gran securità, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso; né manca
80 di saccenti, che per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e
lascierebbono el pensiero a me.85 Pregovi mi solviate86 questa paura, e poi verrò
in fra el tempo detto a trovarvi a ogni modo.
Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o
non lo dare;87 e, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo
85 mandassi. El non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non che
altro, letto; e che questo Ardinghelli si facessi onore di questa ultima mia fatica.88
El darlo mi faceva89 la necessità che mi caccia,90 perché io mi logoro, e lungo tempo
po non posso stare così che io non diventi per povertà contennendo,91 appresso
al desiderio harei92 che questi signori Medici mi cominciassino adoperare,93 se
90 dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso;94 perché, se poi io non me gli
guadagnassi,95 io mi dorrei di me; e per questa cosa,96 quando la fussi letta, si vedrebbe
che quindici anni, che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gli ho
né dormiti né giuocati;97 e doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che
alle spese di altri fussi pieno di esperienza.98 E della fede99 mia non si doverrebbe
95 dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora
a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe
poter100 mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia.
Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia101
vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix.102
100 Die103 10 Decembris 1513.
DENTRO IL TESTO
I contenuti tematici
La lettera si apre con i convenevoli di rito. Eppure, già possiamo cogliere una punta di bonaria canzonatura, che anticipa il carattere colloquiale della missiva nel suo complesso. Il destinatario (chiamato ampollosamente Magnifico, come imporrebbe un cerimoniale ufficiale) si è fatto attendere a lungo, visto che ha scritto e inviato una lettera con un certo ritardo. Ma – ironizza Machiavelli con una citazione petrarchesca – Tarde non furon mai grazie divine (r. 1), come a dire “meglio tardi che mai”. Quindi il mittente lo esorta, scherzosamente, a essere soddisfatto del suo incarico politico (che ha solo una rilevanza di facciata) e a vivere ordinatamente e quietamente (rr. 8-9), cioè alla giornata, senza avere altre – troppe – pretese.
Dopo l’ironia, il tono però cambia e si fa serio. Lo impone l’argomento, che tocca personalmente l’animo dello scrivente: la fortuna, contro la cui malignità sembrerebbe che non ci siano antidoti. ella si vuole lasciarla fare (rr. 11-12), cioè è necessario lasciare che faccia come vuole. Si tratta di una dichiarazione di impotenza contraddetta nel Principe, dove Machiavelli invece sottolinea la possibilità che la virtù individuale dimezzi almeno il raggio d’azione della fortuna.
Tuttavia, Machiavelli evita di rimpiangere con nostalgia gli anni operosi in cui esercitava un importante ruolo pubblico. Egli infatti non esclude che la sorte possa girare e riammetterlo nel gioco politico: starà a lui in tal caso farsi trovare pronto a mettersi a disposizione dello Stato, come sottolinea la forza dell’espressione conclusiva (eccomi, r. 14).
Dal secondo capoverso Machiavelli inizia a descrivere la propria vita quotidiana nell’esilio forzato di San Casciano: dopo il periodo settembrino dell’uccellagione, adesso è solito recarsi al bosco per controllare il lavoro dei tagliatori di legna, e lì c’è un primo momento di ritiro intellettuale. Rifugiatosi in un locus amoenus, l’autore si riposa vicino a una fonte, in compagnia di testi amorosi di Tibullo e Ovidio (rr. 40-42): una specie di ozio rilassante, una divagazione leggera, presto interrotta da un’attività più utile, la conoscenza dell'animo umano.
Egli infatti, dopo una prima sosta e il pranzo, si reca in osteria. È qui che la sua curiosità lo spinge a mischiarsi con gli abitanti del contado. Si “ingaglioffa” giocando a carte, condividendo umori plebei, umiliandosi al più infimo livello, quasi a farsi beffe del destino che lo ha costretto a tale degradazione (sfogo questa malignità di questa mia sorta, r. 53). E, tuttavia, Machiavelli non rinuncia a fare tesoro anche di questa situazione: immergersi nella realtà dell’osteria significa entrare in contatto con un’umanità semplice, che gli fornirà l’occasione per investigare le relazioni e i comportamenti umani, anche quelli più vili e animaleschi. Beninteso, l’autore guarda a questo universo non senza un filo di paternalistico snobismo: le espressioni usate (m’ingaglioffo, appunto, r. 49, ma anche pidocchi, r. 52) suggeriscono una sorta di presa di distanza dell’intellettuale da quell’umile regno di modesti lavoratori manuali (il macellaio, il mugnaio, i fornai).
Le scelte stilistiche
Le due facce della personalità di Machiavelli si riverberano anche nello stile. Con grande capacità mimetica di adattare la lingua al contesto, l’autore alterna con disinvoltura una forma più bassa, quando narra dell’episodio all’osteria, e una più alta, quando descrive il proprio colloquio con i classici.
Nel primo caso, abbiamo modi popolari e gergali quali fare el diavolo (r. 31) e hanno fatto capo grosso (rr. 38-39). Anche la rappresentazione di sé stesso che l’autore sviluppa adotta immagini caricaturali dal forte sapore espressivo, come quando si paragona al servo di Anfitrione o descrive la propria condizione (m’ingaglioffo, r. 49; rinvolto in tra questi pidocchi, r. 52). Ben diverso è il procedimento stilistico utilizzato per ritrarre il raccoglimento interiore a contatto con gli amati classici. In questo caso la forma si fa solenne, si addensano le figure retoriche e il lessico diventa più elaborato, a supporto dell’autoritratto, ora non più ironico ma elevato (mi metto panni reali e curiali, rr. 56-57; entro nelle antique corti delli antiqui huomini, rr. 57-58).
VERSO LE COMPETENZE
Comprendere
1 Chi sono gli interlocutori ideali con cui l’autore si intrattiene nei suoi incontri notturni?
2 Che significato assume per Machiavelli il cambiamento serale degli abiti?
3 Perché Machiavelli è restio a recarsi a Roma?
4 Alla fine dell’epistola, Machiavelli accenna alla stesura di un’opera. Di che opera si tratta? Di che natura sono i dubbi dell’autore sulla sua diffusione?
Analizzare
5 Individua le sei sequenze della lettera, assegna a ciascuna un titolo e riassumine il contenuto, specificando per ogni situazione descritta dall’autore il tempo in cui essa si svolge, il luogo, lo stile e la lingua impiegati nel raccontarla.
INTERPRETARE
6 Quali inclinazioni emergono nell’indole di Machiavelli quando si dedica a comportamenti futili e viene a contatto con uomini di modesta cultura?
Dibattito in classe
7 Machiavelli afferma che la lettura dei grandi autori del passato costituisce l’unico sollievo alle ansie e alle amarezze della vita quotidiana. Anche per te la lettura (o un’altra attività) ha la stessa funzione? Confrontati con i compagni.
Il magnifico viaggio - volume 2
Il Quattrocento e il Cinquecento